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Tommaso Ciriaco
“Trasferire le vecchie prigioni sì ma non in una periferia-deserto”
31 Maggio 2016
Spazio pubblico
«Roma.Il futuro delle carceri. Mauro Palma, garante dei detenuti interviene nel dibattito
«Roma.Il futuro delle carceri. Mauro Palma, garante dei detenuti interviene nel dibattito». La Repubblica, 30 maggio 2016 (c.m.c.)

«Lei mi chiede se è giusto trasferire le carceri dai centri cittadini alle periferie, come ipotizza il piano del governo. E io le rispondo che prima bisogna chiarire un punto: cosa intendiamo quando parliamo di periferia?».

Cosa intendiamo, professor Mauro Palma? Lo spieghi lei, Garante dei detenuti.
«Le faccio un esempio che non c’entra con il carcere: a Roma c’è il Corviale. Lo progettarono bravi architetti, prevedendo che il terzo piano degli edifici fosse dedicato ai servizi. Andò diversamente, con strutture a una tale distanza dal contesto urbano che persero la loro funzione. Lo spazio non è qualcosa a sé, conta il territorio nel quale collocarlo».

Cosa conta per un carcere in periferia?
«Se quello spazio è concettualmente e strutturalmente vicino al resto del contesto urbano. Pensi a Poggioreale: è al centro, ma è collegato a Napoli peggio di Secondigliano, che invece si trova in periferia. Se mancano i collegamenti, la socialità e l’urbanizzazione dei luoghi, allora non funziona».

Quindi non boccia a priori il piano?

«Il punto è che esistono due strade. La prima è migliorare il patrimonio edilizio esistente. Ci sono direttori di carceri che fanno i salti mortali, in spazi anche piccoli. Oppure si può ragionare partendo da quale esecuzione penale vogliamo».

E dove porta questa strada?

«Si decide di organizzare lo spazio in funzione di un modello che punti a una riduzione della recidiva e a reintegrare i detenuti nel sistema, per una pena non solo afflittiva».

In questo caso come si riorganizzano gli spazi? Faccia qualche esempio.
«Carceri con un lungo corridoio centrale non rispondono a questo modello: così non si risocializzano le persone. Riorganizzerei lo spazio abolendo il concetto di mura di cinta: intorno uffici e servizi, al centro le strutture detentive, in piena sicurezza. Con unità più piccole, aggregate: massimo dieci detenuti, con cucina comune, per favorire la socialità. Vede, questo a Regina Coeli non si può fare».

Immaginiamo che le carceri dei centri storici diventino centri commerciali.
«Mi preoccuperei se lo diventasse Regina Coeli. I luoghi portano una memoria, trasmettono un significato. Questo non significa cedere alla musealizzazione. Ma una volta a Copenaghen ho dormito in un vecchio carcere trasformato in hotel: ho avvertito fastidio».

E allora come li immagina?
«Con una funzione sociale: una parte dedicata all’accoglienza, un’altra riadattata per forme di custodia come la semilibertà».

Se il carcere sparisce dalla vista, si rischia di rimuove l’idea stessa del male?
«Sì, però non accade solo in periferia. Pensi al campo migranti vicino alla stazione Tiburtina. Era al centro, eppure il “rimosso” c’era».

Per concludere: l’importante è che la scelta non sia tra celle sovraffollate al centro e nuove asettiche “cattedrali nel deserto”?
«Esatto. Tra l’altro dico sempre che forse è meglio sentire il rumore dei chiavistelli che non sentire niente, come accade in alcune carceri “tecnologiche” europee. Mi spavento quando sparisce ogni traccia di relazione».

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