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Paolo Cacciari
Pensare il cambiamento
2 Maggio 2016
Proposta
L'autore di "Vie di fuga"‭
L'autore di "Vie di fuga"‭ (un ‬saggio su crisi,‭ ‬beni comuni,‭ l‬avoro e democrazia nella prospettiva della decrescita) illustra con parole semplici le vie necessarie e possibili per uscire dalle crisi del pianeta Terra e dell'umanità che lo abita

Il testo riproduce l'intervento dell'autore per un ciclo di incontri promosso dalla Biblioteca comunale di Treviso. Qui il testo integrale con le immagini

Le domande cruciali che da sempre si sono poste le‭ “‬scienze economiche‭” ‬sono:‭ ‬cosa produrre,‭ ‬come,‭ ‬quanto,‭ ‬dove,‭ ‬per chi‭? ‬

Proviamo a dare un ordine coerente a questi quesiti.‭Ma per riuscire a farlo,‭ ‬dobbiamo porci una domanda preliminare:‭ ‬perché produrre‭?

Vi è poi una meta-domanda che sovrasta tutte le altre‭ (‬a cui proverò a rispondere alla fine‭)‬:‭ ‬chi è abilitato a dare le risposte a tutte queste domande‭? ‬Ovvero:‭ ‬chi ha l’autorità e il potere di stabilire e decidere‭ ‬con quali modalità produrre,‭ ‬in quali quantità e località,‭ ‬a beneficio di chi ecc.‭ ‬ecc.‭?

Ovvero: chiha l’autorità e il potere di stabilire e decidere con quali modalitàprodurre, in quali quantità e località, a beneficio di chi ecc. ecc.?

1. Perchè produrre?

Perchéprodurre? Perché lavorare? La risposta è facile, persinobanale. Gli esseri umani si attivano per produrre strumenti, oggetti, manufattivari e sistemi organizzativi utili a rispondere a dei loro bisogni e a delle loro esigenze. Quali: soddisfarele necessità primordiali della sussistenza e della sicurezza personale, aumentarele comodità e diminuire le fatiche, dare risposte alle curiosità di conoscenzadei misteri del mondo ed anche cercare di soddisfare i desideri più fantastici.
Quindi, ci si dà da fare, si opera e si lavoraper fare cose utili a se stessi e agli altri. Il lavoro per essere un “buonlavoro” deve soddisfare chi lo compie. Deve far emergere il proprio saper fare,mettere alla prova le proprie attitudini. Allo stesso tempo il lavoro deveessere “vero”, cioè deve produrre concrete utilità. Persino quello menoutilitaristico che si possa immaginare, cioè il lavoro dell’artista, è un attoespressivo che ambisce ad entrare in relazione emozionale con gli spettatori.Il lavoro, al fondo, è sempre un atto di donazione del proprio tempo e delleproprie capacità a favore di chi ne usufruisce. Altrimenti è solo unpassatempo, un impiego per sfaccendati. Ha scritto Claudio Napoleoni: “Il lavoro non è positivo che a unacondizione, cioè che i prodotti siano contemplati e riconosciuti come buoni”(in Pallante, 2016).
In questo modo vi sarete accorti che ho posto,indirettamente e conseguentemente, dei criteri utili a rispondere anche alladomanda di come bisogna produrre e dicosa produrre. Bisogna produrre conmodalità che favoriscano la esplicitazione dell’intelligenza e della creativitàdegli individui che si applicano a quel lavoro. Potremmo così affermare che ilprimo diritto del lavoratore è poter scegliere cosa più gli piace fare. Tutti ilavori che invece svalorizzano chi li compie, che depotenziano i loro personalibagagli psicoattitudinali, che comprimono le loro prestazioni in un mansionariopredeterminato e fuori dal loro controllo, che riducono il lavoratore ad unprestatore d’opera robotizzato… sonoforme di produzione da condannare, disumanizzanti e alienanti.
Allo stesso modo sono riuscito a rispondere anchealla domanda “cosa produrre?”. Bisognaprodurre cose che siano beni, cioè, oggetti, strumenti, sistemi organizzativiche aumentino il benessere delle persone e delle comunità.
2. Quanto, dove, quando produrre?
Ci rimangono i quesiti: quanto, dove, quando produrre. Mentre lasceremo perultima la domanda per chi produrre.
Il lavoro produttivo è sempre una attività diprelievo e trasformazione di materie che si trovano in natura. Lo diceva ancheKarl Marx (che pure ha fondato la sua teoria del valore di scambio sul poteredel capitale): “La natura è la fonte diogni valore d’uso e di essa è fatta la ricchezza reale”. Prima di lui, unodei primi economisti, William Petty (1623-1687) scriveva: “il lavoro è il padre della ricchezza mentre le terre sono la madre”.Chiamateli come volete (terra, capitale naturale, flussi di materia e dienergia, materie prime, risorse naturali, ecosistem services…) si tratta sempredi doni della natura, dell’ecosfera, di Madre Natura, del Creato, di Gaia, diPacha Mama… E la Terra è per definizione limitata, circoscritta, finita. E’ un sistema chiuso per materia e apertoall’energia che riceve dal Sole. Le risorse materiali, gli ettari adisposizione procapite, quindi, si riducono per un effetto a tenaglia: da unaparte, l’aumento della popolazione e, dall’altra, la degradazione dellafunzionalità degli ecosistemi determinata dal rilascio di sostanze inquinantidai processi produttivi e di consumo, dall’eccesso di prelievi e, in generale,dall’aumento della pressione antropica.
[omissis fgure]
Da notare che il “consumo di natura”,calcolato con le tabelle del Phisical imput-output (anche l’Istat staincominciando ad elaborarle) che rivela i consumi mondiali di materie prime,cresce paurosamente smentendo le previsioni di quanti ritenevano che le nuovetecnologie, aumentando l’efficienza dei sistemi produttivi (meno sprechi, piùricicli ecc.), avrebbero “dematerializzato” l’economia, miniaturizzato apparecchie macchinari vari e che, in particolare, le tecnologie elettroniche applicatealla telecomunicazione avrebbero ridotto l’uso della carta e il bisogno di spostaremerci e viaggiatori. Nella realtà, si è verificato il contrario per effetto delnoto paradosso (effetto Rebounding o altrimenti detto “illusione tecnologica”) illustrato già daWilliam S. Jevons nel lontano 1865: Laresa maggiore delle caldaie a vapore fa aumentare la loro utilità, quindi laloro diffusione e i consumi totali di carbone”. Ed è così per ogni cosa: seuso l’automobile di nuova generazione per aumentare i miei spostamentimotorizzati, annullerò i benefici del risparmio di carburante. Se mai fossevero che le nuove marmitte catalitiche riducono l’immissione di polveri sottilié sicuramente vero che l’aumento esponenziale delle automobili in circolazione nelmondo peggiora il bilancio complessivo dell’inquinamento. Ricordo solo che perprodurre un computer servono 15.000 kg di acqua, 250 kg di petrolio, 22 kg disostanze chimiche. Nel mondo ogni anno vengono venduti 150 milioni di computer,mentre vengono prodotti 50 milioni di tonnellate di RAEE (rifiuti elettronici).Un computer d’uso domestico viene dismesso ogni 3-4 anni ed uno ad uso aziendale ogni 12-18 mesi. Solo il 20% vienericiclato.
Indefinitiva il Total Material Requirement (il fabbisogno di materialipro-capite) non fa che aumentare. Secondo dei dati pubblicati da GiorgioNebbia, un cittadino americano “consuma” 85 tonnellate all’anno di materialivari, un tedesco 74, un europeo medio 51, un giapponese 45. Un altro studiocommentato da Gianfranco Bologna (www.materialflows.net)ci dice che dal 1980 al 2008 il consumo mondiale di materie prime (risorsebiotiche, quali biomasse da agricoltura, foreste, pesca, e materiali abiotici,minerali e metalli) è aumentato dell’80% (da 38 a 68 miliardi di tonnellateall’anno). Sono cifre enormi che stanno comportando danni irreversibili eirreparabili al pianeta. Tutti questi materiali prelevati dalla natura ce liritroviamo prima o poi, dopo cicli di utilizzazione più o meno lunghi (life cyclematerials) sotto forma di scarti, residui, rifiuti.
Gli scienziati hanno individuato noveprincipali emergenze planetarie, che sono: l’acidificazione degli oceani, l’utilizzo dell’acqua dolce, la riduzionedella fascia di ozono nella stratosfera, l’utilizzo del suolo fertile, il cambiamentoclimatico, la perdita di biodiversità, il ciclo bio-geo-chimico dell’azoto edel fosforo, l’aereosol atmosferico, gli inquinanti chimici (vedi il PlanetaryBoundariesdi di Johan Rockstrom).
Da una trentina d’anni (con la pubblicazionedel rapporto Bruntland, Our Common Future, del 1987 della Commissionemondiale sull'ambiente e lo sviluppo, WCED) il lemma “sviluppo sostenibile”è diventato d’uso comune. L’idea che ci sta sotto è il decoupling: la possibilità di disaccoppiare crescita economica epressione antropica sugli ecosistemi. Un’equazione che assomiglia a quelladella capra e del cavolo da trasportare in barca e che nessun modello economicosembra ancora essere riuscito a risolvere.
Se tutto ciò nonè solo una trovata per il marketing delle “green technology”, allora il primosenso pratico della sfida della sostenibilità dovrebbe essere quello dellariduzione netta del consumo di natura dentro i limiti della capacità dirigenerazione dei cicli bio-geo-chimici dell’ecosistema planetario. Solo cosìsi preservano le condizioni di abitabilità del pianeta e di sopravvivenza dellegenerazioni future.
E con questoabbiamo risposto anche alla domanda di “quanto produrre”: non si deve prelevarepiù di quanto la Terra non sia capace di metabolizzare, rigenerare, restituire.
3. La questione della sostenibilità

La questionedella sostenibilità non è solo quantitativa. Non si misura solo in tonnellate enon riguarda solo i bilanci di materia ed energetici. Come ci ricorda sempreGiorgio Nebbia: “L’ineguale distribuzionegeografica delle materie prime è alla base di conflitti per conquistare ocontrollare le risorse agricole, le foreste, i minerali e le fonti di energia”(Nebbia, 1998). C’è da rimanere allibiti, quando, ad esempio, nei consessipolitici intergovernativi (ad esempio le Conferenze delle parti sul cambiamentoclimatico) gli esperti attribuiscono ai paesi produttori asiatici laresponsabilità di emettere quote di gas inquinanti che vengono generate per produrre merci che poi vengono comprate eusate dalle popolazioni più ricche nei i paesi più ricchi. Siamo in presenza dinuove forme di colonialismo ipocrita che vengono attuate attraverso ladelocalizzazione di attività industriali obsolete e inquinanti, l’acquisto diterreni fertili (e della relativa acqua incorporata) per ricavarne prodottialimentari da esportazione (land grabbing),lo smaltimento nei paesi più poveri di rifiuti tossici e pericolosi provenientidagli Stati Uniti e dall’Europa (waste dumping),la sottrazione di minerali e metalli rari dai giacimenti dei paesi poveri.
Solo per citarela vicenda più macroscopica voglio ricordare che le guerre in corso in Congoper l’accaparramento del coltan ha provocato 5 milioni di morti. Le apparecchiatureelettroniche che comunemente usiamo (ma anche dispositivi militari e armamenti)non hanno bisogno solo di ferro, plastica e silicio, ma di minerali rari comeil tungsteno, il tantalio e il niobio (coltan), il vanadio, il berilio, il platino, l’oro…Sulle “terre rare” si sta giocando una buona parte della guerra commerciale traStati Uniti ed Europa, da una parte, e Cina dall’altra.
La questionedella sovranità sull’uso delle risorse naturali è quindi centrale per stabilirenon solo quanto produrre, ma anche dove localizzare le produzioni dei beni diconsumo. Le “ragioni di scambio” tra produttori e consumatori – in una economiadi mercato, come vedremo più avanti – sono sempre squilibrate a favore di chi èeconomicamente più forte e in grado di imporre sistemi produttivi a lui piùconvenienti. La asimmetria del potere fondato sul denaro provoca disparità ediseguaglianze di valore attribuito ai vari impieghi di manodopera e dimateriali. Il valore sul “libero mercato” di un quintale di caffè non consentiràmai ai suoi produttori ad eguagliare il prezzo di mercato di un computer o diun’altra qualsiasi mercanzia prodotta nei paesi che detengono tecnologie ecapitali, brevetti e titoli di proprietà. Si generano così divisioni ditipologie di lavoro e stratificazioni di classi sociali tra le varie areegeografiche del mondo a al loro interno. Banalmente, un’ora di lavoro non ha lostesso prezzo per diverse prestazioni e diversi territori. La globalizzazionedei mercati e dei capitali a fronte della inevitabile fissità territorialedelle popolazioni (a meno di non doverle costringere a migrazioni bibliche)provoca disparità e disuguaglianze. Chi ha già riesce ad ottenere sempre dipiù, chi ha meno si impoverisce. Gli studi sulle disuguaglianze sono oramai moltovasti. Economisti come Joseph Stiglitz, Thomas Piketty, Luciano Gallino sonodiventati autori molto popolari.
Questa tendenza alla diseguaglianza puòessere contrastata solo con un processo di ri-territorializzazione delleproduzioni (de-globalizzazione), da una parte, e di introduzione di clausolesociali e ambientali negli scambi internazionali, dall’altra. Sarebbenecessario rendere le diverse aree geografiche del pianeta (bioregioni) e, alloro interno, le comunità locali, sempre più autosufficienti e autonome, menodipendenti da poteri che agiscono fuori dal loro controllo, così l’umanitàintera potrebbe imparare a utilizzare al meglio le risorse disponibili senzaessere costrette ad andare a prenderle altrove (con le buone o con le cattive,con i denari o con gli eserciti). Bisognerebbe immaginare i rapporti commercialiinternazionali impostati sulla base di una effettiva reciproca, paritariautilità..

4. Per chi produrre?

Rimane ora la domanda: per chi produrre? La rispostaè: per tutti coloro che hanno il bisogno di ottenere beni e servizi utili alloro benessere. E’ questa una risposta semplice, apparentemente oggettiva eneutra che però nasconde difficili implicazioni e molte trappole. Vediamonealcune.
Innumerevoli studi di antropologia epsicologia sociale (oltre alle evidenze che ognuno di noi può riscontrare nellavita di tutti i giorni) ci dicono che le esigenze delle persone non solo mutanonel tempo, nei luoghi e nelle culture in cui sono inseriti, ma sono sempresocialmente determinate. Tutti i tentativi di catalogare e gerarchizzare ibisogni secondo un ordine raziocinante predefinito (beni necessari, benifondamentali, beni di largo consumo, beni superflui, beni voluttuari, beni dilusso ecc.) sono naufragati di fronte ai comportamenti “irrazionali” dellepersone che sono spesso determinati da convenzioni e convinzioni preconcette chetravalicano la logica teorica prescritta delle “scienze economiche”; il famoso tipo umano ideale - l’homo oeconomicus - che compra le coseche più gli servono al prezzo minore. Ad esempio, negli anni della crisieconomica è diminuito il consumo di generi alimentari, ma non quello deitelefonini. Vuol dire che l’esigenza di mantenere buone comunicazioni socialiera maggiore di quella di una buona alimentazione. Persino papa Bergoglio pensache la voce di Dio arrivi ai giovani tramite le onde elettromagnetiche deglismartphone! Nei paesi dell’ex Unione Sovietica, dopo il crollo, l’età mediadella vita si è ridotta drasticamente. Segno che le popolazioni tenevano di piùalla libertà che alla propria salute, alla piena occupazione e all’appartamentodi edilizia popolare. E ancora; é esperienza quotidiana constatare che lepersone sono più attente al lato estetico delle cose che comprano che non, adesempio, alla loro durevolezza e praticità. Avete mai provato a camminare suuna scarpa con il tacco a spillo?
Schiere di psicologi ci dicono che i nostristili di vita sono dettati da processi di imitazione, di ricerca diriconoscimento sociale attraverso lo statuse l’esibizione di beni posizionali. La nostra psiche è debole. Siamo invidiosie temiamo il giudizio degli altri più di ogni altra cosa, perché abbiamo pauradell’isolamento, della perdita delle reti di relazioni umane, della solitudine.
Gli addetti al marketing delle imprese sannomolto bene tutto questo. Un loro famoso motto è: “Non vendiamo cose, ma sogni”.Il presupposto fondamentale su cui si basa l’economia di mercato è che idesideri delle persone siano infiniti. Lo definì perfettamente già ThomasHobbes (Leviatano 1651) agli alboridel capitalismo: “La felicità è uncontinuo progredire del desiderio da un oggetto all’altro non essendo ilconseguimento del primo che la via verso il seguente”. Da qui la amara considerazionedi Bauman: “La società dei consumi sifonda sull’insoddisfazione permanente cioè sull’infelicità” (Bauman 2007).E la conclusione lapidaria dell’economista critico Bernard Maris: “Il capitalismo organizza la scarsità, ibisogni e la loro frustrazione” (Maris 2002).
In quest’ottica scopriamo che il sistemaeconomico esistente non è affatto finalizzato a produrre cose necessarie alminor prezzo possibile per renderle accessibili a chi ne ha più bisogno (e menodisponibilità economiche) - come si vorrebbe far credere -, ma alla produzionedi beni e servizi volti a soddisfare il numero sempre crescente dei bisogni diquei consumatori che hanno le maggiori possibilità di solvibilità sul mercato. Ilsistema capitalistico non si propone di produrre per soddisfare le necessità fondamentali, maper aggiungere sempre nuovi bisogni da soddisfare. Ha scritto Nicolas Ridoux: “voler creare un numero illimitato di bisogniper dovere poi soddisfarlo è come inseguire il vento” (Ridoux 2008).Uninseguimento che non finisce mai.
Qui sta l’errore di Keynes (ma anche dei marxistiche, da socialisti o comunisti, si sono trovati a dover governare l’economia)che pensava fosse possibile usare a fin di bene e transitoriamente il sistemadi produzione fondato sull’accumulo del capitale. Prima l’abbondanza (daraggiungere con i cattivi mezzi del capitalismo) poi la giustizia che ciproietterà nel regno delle libertà.
E’ noto che lord Keynes pensava che nel girodi pochi anni (scriveva nel 1930) i suoi nipoti avrebbero avuto vitto, alloggio,vestiario, salute e istruzione con poco sforzo (sarebbero bastate tre ore algiorno di lavoro per produrre tutto questo) grazie, appunto, agli straordinarisviluppi delle tecnologie e della produttività del lavoro. Così si sarebberisolto il problema della “scarsità” che è la ragione stessa dell’esistenza delle“scienze economiche”. Non solo i suoi nipoti, ma anche gli economistiavrebbero, quindi, potuto dedicarsi a lavori più creativi. Ma, scrive Keynes,c’è un prima, un frattempo: “almeno per iprossimi 100 anni dobbiamo pretendere da noi stessi e da chiunque altro che ilbrutto è il bello e il bello è brutto, perché il brutto è utile, mentre ilbello non lo è. Ancora per qualche tempo l’avarizia, l’usura e le misureprotettive devono essere i nostri dei. Perché solo loro possono condurci fuoridal tunnel della necessità economica”. Come scrivono gli Skidelsky, padre economista e figlio filosofo (E e R.Skidelsky 2013), le ragioni del fallimento della profezia di Keynes (pienaoccupazione e riduzione dell’orario del lavoro) non è dipeso da un errore divalutazione sull’aumento della capacità produttiva del sistema capitalistico enemmeno dalla ricchezza monetaria in circolazione - anzi ! -, ma nell’aver sottovalutato la logica intrinsecadi funzionamento del sistema economico capitalistico che si fondasull’accrescimento indefinito e perpetuo della produzione. E’ pericoloso andarea patti con il diavolo! Nel prometterti tutto quello di cui hai necessitàaltera la percezione dei bisognirendendoti insaziabile. Già Epicuro aveva detto: “Niente è sufficiente a colui che il sufficiente non basta”.
Tutto ciòallontana indefinitamente la meta della “soluzione del problema economico dellascarsità”, rende impossibile il raggiungimento del soddisfacimento delle proprienecessità e condanna le persone a vivere in un perenne stato di necessità. L’eradell’abbondanza viene in continuazione posticipata. Le risorse (naturali, diconoscenza, tecnologiche, finanziarie…) sarebbero sufficienti, ma la logica che presiede il loro utilizzo in unasocietà dominata dalle ragioni mercantili non consente che vengano impiegatecon criteri di equità e sostenibilità. Al contrario genera in continuazionescarsità ed esclusione. Una spirale che allarga le distanze tra il verticedegli individui insaziabili e la base degli affamati. Una spirale che trascinal’umanità nella dissipazione insensata delle risorse naturali. Un sistemasociale irrazionale e ingiusto. Che alla lunga non regge né sul piano del banalecalcolo utilitaristico tra costi e benefici, né su quello dell’etica, dellaricerca del bene comune e condiviso.
Le risorse sono limiate, ma non “scarse”. La scarsità è sempre relativa. Égenerata da chi ne fa un uso eccessivo (a beneficio esclusivo), sottraendorisorse ad altri e ingenerando desideri di acquisizione in chi ne è escluso. Setutte le risorse venissero rese accessibili a tutti, basterebbero necessariamentea soddisfare i bisogni di ciascuno. Ognono si farebbe bastare ciò che ha adisposizione. L’economia di mercato e il diritto di proprietà sono le tecnichecon cui si rendere conveniente (in termini monetari) ed esclusivo (stabilendotitoli di proprietà) l’uso delle risorse a favore di pochi.
Ha scritto Gandhi: “La civiltà nel vero senso della parola, non consiste nel moltiplicare ibisogni, ma nel limitarli volontariamente”. Ogni individuo si dovrebbelimitare a possedere, usare e consumare solo quelle cose che anche tutti glialtri esseri umani possono permettersi.
Il problema, quindi, non è produrre sempre dipiù, ma al contrario trovare il modo di contenere, ridurre i nostri infinitidesideri di possesso e dissipazione.
Meglio allorasarebbe cambiare la visione delle cose. Smetterla di pensare al pianeta Terracome ad una matrigna avara (contro cui imprecare e cercare di ottenere sempredi più) e pensarlo invece come una madre nutrice, benefica, i cui doni sonobenedizioni (Illich), da rispettare nei suoi limiti e venerare per la suagenerosità.
Fuori da metafora dovremmo cambiare la teoriaeconomica fondamentale che si basa sul principio di scarsità e sostituirlo conquello del limite. L’assunzione delle condizioni biofisiche di funzionamentodel pianeta come vincoli inviolabili (ecocentrismo) ci deve condurre allaricerca del bastevole e della sufficienza. Cioè della condivisione.
La congiunzione di equità (giustiziadistributiva) e libertà (autonomia di scelte) che la cultura politicaoccidentale non è mai riuscita a realizzare potrebbe invece essere possibileinanellando altri due concetti: sostenibilità e condivisione. Riconoscimentodei limiti delle risorse a disposizione dell’umanità e loro equa messa incomune. Nessun individuo può essere escluso dal beneficiare dei doni dellanatura. Tutti devono essere responsabili del loro uso.
5. hi ha il potere di decidere?

Veniamo finalmente alla meta-domanda che mi ero posto all’inizio: chi ha il potere di decidere cosa produrre, per chi, dove, quantoecc. ecc.?
Come noto, grosso modo, due scuole di pensieroe d’azione si sono confrontate nella storia contemporanea. Ma nessuna delle dueha funzionato in modo soddisfacente.
Il liberismo e il socialismo (con tutte legradualità e le reciproche contaminazioni immaginabili e possibili: tra cui“l’economia sociale di mercato”, che vorrebbe moderare i due sistemi, e il“capital-comunismo” della Cina che invece esaspera il peggio dei due sistemi).Gli uni pensano che il gioco dei liberi mercati sia in grado di trovare l’equilibriodinamico tra la domanda e l’offerta di beni e servizi tale da soddisfare leesigenze di ogni individuo (lavoro in cambio di consumi). Gli altri pensanoinvece che tale equilibrio (piena occupazione e soddisfacimento delle necessitàessenziali) possa realizzarsi solo attraverso una procedimento (più o menodemocratico, più o meno partecipato politicamente) di pianificazione (più omeno centralizzata, più o meno decentralizzata).
Tra i primi troviamo i tecnocrati dellaespertocrazia come Mario Draghi, chepensa che la cosa migliore sia affidare l’economia ad un “pilota automatico”(programmato dalle autorità monetarie, ovviamente!). Tra i secondi ci sono i professionisti della politica che credono inuna capacità del sistema dei partiti di svolgere una funzione super partes al servizio dell’interessegenerale.
Le differenze tra i due sistemi non sono dipoco conto, ma non nella cosa essenziale: tutti e due i modelli e tutte leesperienze storiche che si sono fin qui verificate ritengono che lo scopoessenziale della cooperazione sociale tra le persone debba essere quello di accrescerein definitivamente la produzione di beni e servizi. Le differenze sono sullemodalità, non sull’obiettivo. I primi pensano che lo sforzo delle istituzionidebba essere quello di far funzionare nel modo più libero e automaticopossibile la “mano invisibile” che regola il bilanciamento della domanda edell’offerta. I secondi pensano che “gli spiriti animali” assetati di ricchezzache muovono le attività produttive debbano essere contenuti e guidati da maniforti e ben visibili delle istituzioni pubbliche dello stato.
Ma tutti e due pensano che si debba aumentare all’infinitol’efficienza, il rendimento, la convenienza, l’utilità del sistema economicoproduttivo. La partita doppia (il calcolo dei costi e dei ricavi, del dare edell’avere) è la forma mentis e il modus operandi che domina gli agenti tantodelle imprese quanto delle istituzioni pubbliche. Le altre cose che danno unsenso alla vita (il giusto, il bene, il bello; ovvero: la qualità dellerelazioni umane che si instaurano tra le persone, la solidarietà, l’aiutoreciproco, l’affettività, l’altruismo…) sono messe in secondo, terzo, quarto piano.Salvo poi, quando scoppia una crisi economica imprevista, sentirci dire chealla base di tutto ci sono “fattori esterni irrazionali” (che ovviamente nondipendono dagli economisti) che fanno cadere la “fiducia” degli operatorieconomici, provocano “panico” nei risparmiatori, “impigriscono” i giovani e così via psicoanalizzando il disagio sociale.
Alain Caillé ha detto che la società è stataridotta ad una orribile macchina per produrre”. L’economia è un procedimento che ha adisposizione una strumentazione (il denaro, le tecnologie ecc.) e undispositivo giuridico (le leggi, le istituzioni ecc.) che servono a ridurreogni cosa reale (res) ad un valoremonetario astratto (pecunia). Daibeni alle merci. Economia e denaro sono diventati la stessa cosa. L’economia siè ridotta ad occuparsi del denaro (da dove viene generato, come gira e comerigira…) e induce a pensare che con il denaro si possa ottenere ogni cosa. Ilpotere del denaro è diventato assoluto, supera ogni altro potere.
Bisogna allora pensare di cambiare in radiceil modo di pensare l’economia (oikos-nomos,le buone regole della dimora, che oggi è diventata il mondo intero) e inserirlanel sistema etico. Ripensare l’economia come una scienza morale. Quantomenosarebbe opportuno relativizzarla, metterla in relazione con le altre dimensionidel vivere umano.
Chi può compiere questa rivoluzione culturale?Castoriadis diceva che servirebbe una “rotturadell’ordine simbolico e fattuale”. Non c’è scampo, non c’è scorciatoia. Ilsoggetto del cambiamento siamo ognunodi noi. Sono le convinzioni morali profonde delle persone che devono spingercia comportamenti individuali responsabili e solidali, a trovare forme sempre piùdiffuse, pervasive, decentrate di comunità capaci di autosostenersi e di autogovernarsi.Bisognerebbe avere in testa un’idea di individuo, di comunità locali e diistituzioni sociali organizzate sui principi dell’eco-municipalismo.
Transitare da comportamenti ispirati allacompetizione e alla rivalità ad altri fondati sulla condivisione e sullareciprocità; dal dominio sui processi naturali alla loro cura; dall’egoismoalla solidarietà sociale cooperante e alla messa in comune delle ricchezze prodottesocialmente; dall’eccesso alla sobrietà; dal riduzionismo pseudo scientificodei “saperi esatti”, alla complessitàdei sistemi trans-disciplinari e olistici; dall’economia del massimo rendimentoad una del massimo risparmio, del riutilizzo, del riciclo; da un’economia deisoldi, del consumo e del debito alla bio-economia e al buon vivere. La felicità è una buonarelazione con l’ambiente e gli altri esseri umani.
Zigmunt Bauman, Voglia di comunità, Laterza 2007
Paolo Cacciari, , Marotta & Cafiero 2014
Ivan Illich, Bisogni, in Dizionario dellosviluppo, Edizioni Gruppo Abele 1998
Tim Jakson,Prosperità senza crescita, Edizioni Ambiente 2011
Roberto Mancini, Ripensare la sostenibilità, Franco Angeli, 2015
Bernard Maris, Antimanuale di economia, Marco Tropea2003
Giorgio Nebbia, La violenza delle merci, www.fondazionemicheletti.it,1998
Maurizio Pallante, Destra e sinistra addio. Per una declinazione dell’uguaglianza,2016
Nicolas Ridoux , La decrescita per tutti, Jaca Book 2008
E. e R. Skidelsky, Quanto è abbastanza, Mondadori, 2013

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