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Norma Rangeri
Referendum No Triv: le analisi del voto e del non voto
19 Aprile 2016
La questione energetica
Articoli di Norma Rangeri, Maria Rita D'Orsogna,

Articoli di Norma Rangeri, Maria Rita D'Orsogna, Ilvo Diamanti, Marco Bersani, Massimo Franco, Lina Palmerini. Il manifesto, Comune-info, la Repubblica, Corriere della Sera, Il Sole 24 ore, 19 aprile 2016 (p.d., m.p.r.)



Il manifesto
PERCHÉ RENZI NON HA MOLTO DA FESTEGGIARE

di Norma Rangeri

Lo scrittore francese, poco noto in Italia, Robert Sabatier, amava gli aforismi. Uno calza alla perfezione con gli ultimi avvenimenti: «C’è un’azione peggiore che quella di togliere il diritto di voto al cittadino e consiste nel togliergli la voglia di votare».

Possiamo analizzare il voto di domenica sotto diversi punti di vista, e probabilmente capiremmo che la ragione, o il torto, non stanno tutti da una parte. In particolare quando si tratta di argomenti sui quali cade il macigno della strumentalizzazione politica, mettendo in ombra il cuore del problema.

Tuttavia su un aspetto dovremmo concordare in tanti: l’invito a non votare, a non partecipare ad un momento importante, tra i più significativi della vita democratica, rappresenta un vulnus per la stessa democrazia E chi sostiene che altrove la bassa partecipazione elettorale è una cosa normale, forse non si rende conto che in Italia questo comportamento determina un distacco crescente dei cittadini non solo nei confronti delle istituzioni, ma dello stesso vivere civile.

Per noi è stata una bella battaglia, tutta da rivendicare.

Una battaglia politica combattuta nel paese ad armi impari, senza poter informare sui temi grandi che sono in campo quando si parla di scelte strategiche per un modello di sviluppo. Questioni importanti affrontate dal presidente del consiglio con l’invito alla cittadinanza di disertare le urne. Salvo apparire in tv, subito dopo i risultati, per dirci che l’appello astensionista gli era costato molto, ma che l’aveva fatto solo per salvare tanti posti di lavoro.

Il giovane cinico della politica italiana deve correre ai ripari («chi vota non perde mai») perché il boomerang astensionista domani potrebbe colpire proprio lui.

Nessuno esce vincitore da questa consultazione. Vediamo perché.

Chi ha promosso il referendum sperava davvero di poter dare una scadenza alle trivellazioni (che adesso avranno vita più facile). Così non è stato. E il quorum è rimasto molto lontano.
Chi pensava di usarlo per una spallata al governo – dalla Lega ai 5Stelle – ha perso la partita. Anche perché non l’ha giocata fino in fondo, come avviene per le elezioni politiche e amministrative, quando è in ballo il potere vero.
Gli oppositori di Renzi hanno utilizzato – soprattutto i 5Stelle – soltanto la mano sinistra. Più che essere attori protagonisti si sono comportati da “spalle”, per saggiare il terreno in vista delle prossime battaglie frontali (sui Comuni e sul referendum costituzionale).
Chi predicava l’astensione sa di aver fatto ricorso a un’arma a doppio taglio. Domani la chiamata alle urne sarà complicata, in particolare nei confronti delle persone indecise: volteranno le spalle a chi pensa di usarle solo per il proprio tornaconto.
Infine, chi crede di aver vinto domenica – in primo luogo il presidente del consiglio – raccoglie un risultato miserrimo, perché la frantumazione della sinistra è evidente, perché il Pd è un partito sfasciato, perché gli oltre 13 milioni di votanti per il Sì non faranno sconti a Renzi (che vinse le europee con 11 milioni di voti).

Il premier ha accusato Michele Emiliano, il governatore della Puglia, di aver condotto una battaglia politica a fini personali, come se Emiliano non fosse un rappresentante eletto dal popolo che, come il voto dimostra, lo aveva delegato a condurla (la Puglia, insieme alla Basilicata, ha avuto la più alta partecipazione, in queste terre siamo al 40 e oltre il 50 per cento). Ma a Potenza, a Matera, a Bari, Renzi preferisce Ravenna, che cita come buon esempio di rifiuto del voto. Dimenticando che già alle ultime elezioni regionali, in Emilia Romagna aveva votato solo il 37 per cento. Già allora, a onor del vero, disse che l’astensionismo non era un problema perché l’importante era portare a casa il risultato. In questo bisogna riconoscergli un pensiero coerente.

Domenica nelle urne ha vinto il grande partito dell’astensione, è questa l’unica vittoria (di Pirro) che può intestarsi il gruppo di palazzo Chigi.

I 16 milioni di italiani che hanno scelto di andare al seggio (l’85% per il si, il 14% per il no) hanno seguito una strada diversa da quella indicata da chi ci governa. Tra questi Romano Prodi, come anche il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.

Anche se, per recarsi al seggio, il capo dello stato ha atteso la tarda serata, una scelta curiosa da parte di chi, per tenersi fuori dalla mischia, finisce per distinguersi, in negativo, dal voto mattiniero dei due presidenti del parlamento.

E hanno vinto anche i padroni dei pozzi petroliferi, pur ballando sulla graticola per la vicenda della Total e lo scandalo che sta inchiodando persone importanti. Potranno sfruttare le risorse del territorio a loro piacimento – vita natural durante – e senza creare nuova occupazione. Poi, un giorno, sarà lo Stato italiano a doversi accollare i costi per smantellare gli impianti. Tra l’altro chi sostiene che sono stati salvati posti di lavoro sa – o finge di non sapere – che l’esaurimento delle scorte ridurrà sempre di più il numero di impiegati e operai addetti.

La nuova occupazione si crea progettando cambiamenti duraturi nel tempo. Invece, questo tema, molto forte, è passato in secondo piano. Ma resta un problema centrale, italiano e internazionale. Almeno così pensano quei tredici milioni di italiani che hanno votato Sì.

Certamente non sono tutti ambientalisti, altrimenti avremmo già un partito “verde” rilevante. Tuttavia il “messaggio” lasciato nelle urne è ricco di significati, che solo gli azzeccagarbugli della politica non sono in grado di capire, perché si accontentano di raccogliere le briciole del giorno dopo.

Buon per loro. Non per noi.





Comune-info.net
NON CI SIAMO RIUSCITI.
ANDIAMO AVANTI
di Maria Rita D'Orsogna


Il referendum ha portato il tema petrolio in tutte le case. Gli incontri nei quartieri, lo studio del problema, l’informazione on line sono un patrimonio: occorre andare avanti, concessione per concessione, comunità per comunità

Non ci siamo riusciti. Nonostante tutta la nostra buona volontà e il nostro entusiasmo, la macchina del no, dell’astensionismo, dei geologi al soldo delle fossili, dei lobbisti del petrolio hanno avuto la meglio su di noi. Lo sapevamo tutti che non era una partita alla pari fin dal primo giorno: una data a casaccio, la stampa ufficiale contro di noi, poca e cattiva informazione, gli spauracchi immaginari della disoccupazione e delle luci spente, un primo ministro che invita all’astensione. Onore a noi tutti per averci provato e per averci creduto fino all’ultimo voto.

Mi dispiace molto, e per prima cosa voglio ringraziare tutti quelli che si sono adoperati condividendo post su Facebook, promuovendo incontri di quartiere, facendo passaparola. Voglio ringraziare ogni nipote che lo spiegava al nonno perché votare sì, e ogni nonno che ha capito che era importante. Voglio ringraziare tutti quelli che sebbene lontani da comunità trivellate o trivellande si sono presi la briga di studiare, e sono diventati piccoli attivisti. Anche se non ci siamo riusciti è stato lo stesso una bella pagina di democrazia sana, in cui molti si sono sentiti investiti, con il desiderio di poter far qualcosa di buono.

La sconfitta ci insegna che abbiamo ancora tanta strada da fare. Ma non tutto è perduto. Questo referendum ha avuto il merito di aver portato il tema petrolio nelle case degli italiani, e quantomeno il dubbio che le trivelle non siano benessere e non siano ricchezza per l’italiano medio. Purtroppo per noi, ci sono altre concessioni in terra e in mare previste in varie parti dello stivale per i prossimi mesi, per i prossimi anni. Grazie a tutti i dibattiti referendari quelli che avranno la sfortuna di viverci vicino avranno vita più facile nel contrastare questi progetti, se lo vorranno. Sapranno che si può e si deve lottare, anche se si è in pochi, anche se è difficile. Avranno materiale ed esempi. È tutto scritto, documentato, dai pesci ai terremoti. È scomparso il vuoto mediatico che c’era dieci anni fa e questo anche grazie al referendum che ha obbligato stampa e Tv ufficiali a parlarne, seppure spesso in modo distorto.

A suo modo questa sensibilizzazione è già una vittoria. E adesso cosa fare?Occorre andare avanti, concessione per concessione, comunità per comunità. È persa la battaglia, non la guerra, non la storia.

Anche se Matteo Renzi e Claudio Descalzi andranno a brindare, la storia è dalla nostra parte. Cent’anni fa facevamo buchi perché pensavamo che far buchi fosse lo stato dell’arte. Lo stato dell’arte nel 2016, nonostante il referendum, nonostante chi ci governa, non è fare buchi. È fare tutto quello che abbiamo fatto fino ad oggi con le fonti fossili senza trivellare ad infinitum, senza distruggere la vita di nessuno, senza martoriare l’unico pianeta che abbiamo.

Dobbiamo continuare a opporci alla petrolizzazione d’Italia come fatto finora, ogni santo giorno, e cioè dal basso. Dobbiamo continuare a esigere un ambiente e una democrazia pulite, un Italia che guardi alle rinnovabili e al futuro e non alle trivelle e al passato.

Vinceremo. La storia è più grande di Matteo Renzi.

La Repubblica
L’ANALISI DEL NON VOTO
di Ilvo Diamanti

L’obiettivo prioritario della consultazione si è rivelato quello di mettere in difficoltà il premier: rispetto al risultato del 2011 è significativo che l’astensione sia cresciuta nelle “zone rosse”

Si è conclusa la prima tappa della marcia elettorale che ci attende, da qui fino all’autunno. Dopo il referendum sulle trivelle, infatti, all’inizio di giugno avranno luogo le elezioni amministrative, in alcune città fra le più importanti. Roma, Milano, Torino, Napoli. E in altri tre capoluoghi di Regione: Bologna, Cagliari e Trieste. Infine, in autunno si svolgerà il referendum sulla riforma costituzionale approvata in via definitiva dal Parlamento una settimana fa. Il premier, Matteo Renzi, ne ha fatto il banco di prova definitivo per il proprio governo, ma, prima ancora, per se stesso. In fondo: per la propria leadership. Ogni passaggio elettorale assume, però, lo stesso significato. Diventa, cioè, una verifica del consenso verso Renzi e la sua maggioranza. Il premier, d’altronde, non ha fatto nulla per evitarlo. Al contrario. Anche questo referendum è stato puntualmente orientato in questa direzione. Non tanto per decidere sulle “trivelle”, ma per esprimere dissenso oppure consenso verso Renzi. Partecipare al voto significava, dunque, sfiduciare Renzi. Al contrario: astenersi – in subordine: votare no – gli avrebbe fornito sostegno. Conferma. Ed è ciò che, in effetti, è avvenuto. Perché oggi, l’unico argomento di cui si discute riguarda Renzi. Non certo le trivelle.

Eppure, se si valutano i risultati con qualche attenzione, l’importanza delle “trivelle” appare evidente. Basta considerare la geografia della partecipazione elettorale. I livelli più elevati di affluenza si osservano, infatti, nelle aree maggiormente interessate al problema. Cioè, alle trivellazioni. In particolare, la Basilicata (l’unica dove sia stato superato il quorum del 50% degli elettori aventi diritto), quindi, la Puglia e il Veneto. Fra le regioni che hanno promosso il referendum, emergono livelli di partecipazione molto elevati anche in Molise e nelle Marche. Tra le altre: in Abruzzo ed Emilia Romagna. In altri termini: lungo la fascia adriatica. Tuttavia, se ragioniamo sull’astensione “aggiuntiva” rispetto al referendum del 2011, che riguardava “l’acqua pubblica”, si delinea una mappa diversa. Con una caratterizzazione politica più specifica.

Anche il referendum del 2011 aveva una connotazione “ambientalista”. Per questo è significativo che il peso dell’astensione, nel referendum sulle trivelle, cresca, in misura particolare, nelle “zone rosse”. Ma soprattutto in Toscana. La Regione di Renzi. E ciò conferma come le “trivelle” e l’ambiente siano divenuti un argomento, in qualche misura, strumentale. Ricondotto progressivamente all’obiettivo prioritario di “trivellare Renzi”. A questo proposito, il verdetto della consultazione appare chiaro. Non solo perché alle urne si è recata una minoranza (benché rilevante): poco meno di un terzo degli elettori. Ma perché è difficile riassumere per intero la partecipazione al voto sotto le bandiere dell’anti-renzismo.

Lo suggeriscono i dati di un sondaggio condotto da Demos circa una settimana prima del voto. Certo, fra gli elettori del M5S e dei partiti a sinistra del Pd la quota di coloro che si dicono certi di votare risulta particolarmente elevata. In entrambi i casi, poco sotto il 50%. Mentre fra gli elettori degli altri partiti l’intenzione di partecipare al referendum appare più ridotta. In particolare, nel Pd non raggiunge il 30%. Per questo è azzardato interpretare l’affluenza degli elettori come un indice di “sfiducia” nei confronti del governo e del premier. D’altra parte, tra coloro che, nei giorni scorsi, si erano detti certi di recarsi alle urne, il grado di “fiducia” nei confronti del governo risulta intorno al 30%. Dunque, meno, rispetto alla media degli italiani (39%). Ma non troppo.

Per questo lascia perplessi la traduzione direttamente politica e “personale” che viene data al risultato del referendum. Non da una parte sola, peraltro. Perché Renzi e, in modo ancor più esplicito, i “renziani” hanno rovesciato, a proprio favore, questa impostazione. Con l’effetto, francamente paradossale, di trasformare l’astensione in consenso. Traducendo il dato della non-partecipazione in una misura del sostegno al governo e al premier.

Ovviamente, questa impostazione rischia di produrre esiti singolari. Trasformando un cittadino, qualsiasi cittadino, interessato a fermare la trivellazione nella costa davanti alla sua città in un anti- renziano, tout-court. E un elettore, anche se ferocemente anti-governativo, ma impossibilitato a partecipare al voto, per motivi di forza maggiore, oppure semplicemente, disinteressato al problema, in un partigiano di Renzi. Ma mi sorprende - e inquieta - che lo stesso premier possa vedere nell’astensione - anche se in un caso specifico come questo - una risorsa. Una fonte di consenso politico. Personale.

Personalmente, osservo con qualche inquietudine questa “deriva” del dibattito politico. Che, peraltro, talora in contrasto con le stesse intenzioni dei protagonisti, trasforma e estremizza ogni confronto in senso “personale” e “referendario”. In altri termini, riassume la nostra vita politica in un lungo referendum pro o contro Renzi. Che si snoderà da qui in avanti. Non solo nei prossimi mesi.
Se questa idea fosse fondata, allora sarebbe meglio non nascondere la testa sotto la sabbia. Perché significherebbe che, con il contributo attivo del fronte anti-renziano, ci stiamo avviando verso un “governo personale” del premier. Come ho già scritto in passato: in un premierato – per non dire in un presidenzialismo – “preterintenzionale”. Al di là delle intenzioni: nei fatti e nella pratica. A maggior ragione se si tiene conto degli effetti di “semplificazione” prodotti, nei processi decisionali, dalla riforma costituzionale e dalla nuova legge elettorale.
Personalmente, non ho pregiudizi. Ma se si va verso una democrazia “immediata” e “personalizzata”, allora, forse, sarebbe meglio tenerne conto per tempo. E orientare in quella direzione la “riforma” della Costituzione. Senza riscriverla e ricostruirla un pezzo dopo l’altro. Una spinta dopo l’altra. Un referendum dopo l’altro. In modo preterintenzionale.

Il manifesto
LE RAGIONI DEL QUORUM MANCATO
SULLE TRIVELLE
di Marco Bersani

Un’analisi del voto referendario del 17 aprile richiede una valutazione complessa per le numerose variabili da considerare. Tredici milioni di persone che votano Si in un referendum che si è fatto di tutto per boicottare, non sono poche, soprattutto in un paese dove la disaffezione al voto – frutto della caduta verticale di fiducia verso la politica istituzionale – è diventata di ampia portata e quasi endemica.

Il boicottaggio del voto è stato tanto manifesto, quanto evidenti sono i poteri forti che sono scesi in campo per il mantenimento dello statu quo. Il presidente del consiglio, dapprima con la definizione della data – nessun accorpamento con le amministrative e indicazione della primissima data utile per abbreviare il più possibile la campagna referendaria – poi con la discesa in campo aperto per l’astensione, si è dimostrato un pasdaran della nuova idea di democrazia autoritaria e plebiscitaria che propone al paese.

I grandi mass media, dapprima con il totale silenzio sul quesito, poi con la denigrazione dello stesso, hanno fatto ampiamente la loro parte. A tutto questo va aggiunto l’evidente obsolescenza della norma che disciplina i referendum, che mantiene un quorum (50% più 1 degli aventi diritto al voto) da missione quasi impossibile e che facilita la strumentalizzazione della disaffezione elettorale per far fallire ogni esperimento di democrazia diretta.

Questo quadro oggettivo non esime, tuttavia, dal valutare il voto del 17 aprile come una sconfitta. Perché, se sono realtà tutti gli impedimenti sopra descritti, è altrettanto vero che, se si decide di sfidare le politiche governative utilizzando lo strumento referendario, si è consapevoli dell’entità della sfida e occorre di conseguenza prendere atto dell’esito.

Ecco perché vale forse la pena provare a fare una riflessione più ampia in merito a quali condizioni rendano praticabile la sfida e a quali invece ne pregiudichino in partenza l’esito.

La prima non può che riguardare la frammentazione sociale che oltre venti anni di liberismo e la crisi sistemica in atto hanno prodotto nel paese: oggi le persone che hanno una visione d’insieme dei problemi sono una minoranza, mentre per la gran parte della popolazione l’isolamento e l’atomizzazione hanno agito in profondità, al punto da renderle disponibili alla mobilitazione solo di fronte ad un attacco diretto ed esplicito alle proprie condizioni di vita.

Se Eugenio Scalfari può scrivere sulla Repubblica che chi non vive nelle regioni direttamente interessate dalle trivellazioni è bene che se ne disinteressi, è perché ha chiara -e la utilizza pro-Renzi- esattamente questa dimensione di frammentazione sociale.

E’ questa realtà a dimostrare, come oggi una prima condizione sine qua non la sfida referendaria diviene impossibile è che l’argomento da sottoporre al voto degli italiani debba o riguardare un tema che incide direttamente sulla vita di tutte e tutti o, in alternativa, diversi temi dirimenti che, nella loro pluralità, mobilitino ciascuno una fetta di popolazione direttamente interessata.

Il primo caso lo si è visto con la straordinaria esperienza del movimento per l’acqua, non a caso l’unico referendum degli ultimi venti anni ad aver raggiunto il quorum; il secondo caso, ancora da verificare nella sua efficacia, è attualmente in corso con la campagna di raccolta firme, avviata da due settimane, sui referendum “sociali”.

A mio avviso, c’è una seconda condizione irrinunciabile per poter mettere in campo la sfida referendaria: la raccolta delle firme fra i cittadini. È l’unico antidoto possibile alla disinformazione dei mass media e consente, nell’anno precedente al voto, una sorta di alfabetizzazione di massa e un processo di motivazione sociale che divengono dirimenti nella successiva mobilitazione per la partecipazione al voto.

Sono entrambe condizioni assenti nel referendum del 17 aprile e, che, a mio avviso, ne hanno determinato l’impossibilità “strutturale” di un esito positivo.Tredici milioni di persone hanno comunque deciso di scendere in campo e di disobbedire all’indifferenza richiesta dal governo e dai poteri forti di questo paese. A mio avviso si parte da lì.



Corriere della Sera
VITTORIA NETTA
MA DA GESTIRE SENZA IRRITARE GLI SCONFITTI PD
di Massimo Franco

Con una punta di fatalismo, l’ex presidente della Commissione europea, Romano Prodi, ha liquidato le polemiche post-referendum commentando: «Il Paese è fatto così». Eppure, nello scontro seguito alla bocciatura del voto sulle trivellazioni, sono emerse due caratteristiche aggiuntive. La prima riflette il modo strumentale col quale la minoranza del Pd ha affrontato il referendum. Ha cercato la saldatura con le opposizioni, sperando di colpire Matteo Renzi e il suo governo, favorevoli all’astensionismo: operazione miseramente fallita. Ma anche il premier, forse, sopravvaluta il proprio ruolo.

Il non voto, che Palazzo Chigi comprensibilmente legge in chiave di partito, avrebbe vinto comunque, visto il tema sul quale si era chiamati a decidere. Anzi, non è da escludersi che la radicalizzazione del confronto abbia portato alle urne più gente di quanta sarebbe andata senza le liti tra Renzi e il fronte antigovernativo. E questo porta alla seconda riflessione, legata allo strumento referendario. Ormai è chiaro che si tratta di un istituto in crisi. Nato all’inizio degli anni Settanta del secolo scorso per grandi battaglie come divorzio, nel 1974, e aborto nel 1981, ha poi vissuto una rinascita coi referendum elettorali: prima quello di Mario Segni nel 199, poi quelli radicali del 1993.

Sono state le ultime vampate di uno strumento di democrazia diretta, svuotato dall’abuso che ne è stato fatto. E dopo le percentuali bassissime di ieri, appena sopra il 32 per cento, si ripropone il tema di come regolamentarlo. Il tema è quello di conciliare la voglia di cambiare le leggi dal basso, con l’esigenza di non imporre al corpo elettorale di pronunciarsi su temi troppo settoriali e astrusi. Eppure, M5S, di FI e avversari di Renzi nel Pd rilanciano. Puntano a sconfiggere il governo in quello istituzionale di ottobre sulle riforme, tentando una seconda spallata dopo quella appena fallita. Gli oltre 15 milioni di elettori che comunque sono andati a votare sulle trivellazioni vengono presentati come una sorta di avanguardia dell’armata anti-premier. La sconfitta di domenica viene così rimossa e sostituita da una nuova offensiva: confidando magari in un insuccesso del partito del premier alle Amministrative di giugno in grandi città come Milano, Roma e Napoli.

I toni usati dallo stesso Renzi e da alcuni esponenti a lui vicini possono rivelarsi a doppio taglio. La tesi secondo la quale «la demagogia non paga» e che col referendum sono stati buttati 300 milioni di euro, è difficilmente contestabile. Non vedere, però, che in questo modo Palazzo Chigi può esacerbare la minoranza del Pd alla vigilia di elezioni già difficili, è assai rischioso: sebbene gli avversari sottovalutino l’immagine di novità che le riforme, al di là del loro merito, proiettano sul referendum prossimo venturo.

Il Sole 24 Ore
LE DUE VERSIONI SUL QUORUM
di Lina Palmerini
La versione degli sconfitti al referendum è una non-notizia: ossia che nel Paese c’è un’opposizione a Renzi. La versione del vincitore è che negli italiani è prevalso il buon senso sul tema energetico, sulla tutela del lavoro e sullo sviluppo. Per il premier c’è quindi una maggioranza che sostiene la sua spinta riformista contro l’immobilismo.
Versioni che presto saranno verificate alle amministrative e in particolare a Milano e Torino. Perché la questione dell’economia e dell’occupazione, della cultura pro-impresa contro gli sbarramenti dell’ambientalismo è di certo più sentita in quelle aree del Nord che non a caso sono state sempre il terreno più difficile per la sinistra pre-renziana. Ci provò Walter Veltroni nel suo discorso del Lingotto a descrivere un’altra idea di sinistra sullo sviluppo ma, da allora e nonostante il 34% dell’ex leader, il Pd non ha mai vinto le elezioni. Non nel 2008, non nel 2013. E questa resta la prova più ardua anche per Renzi, verificare la credibilità del riformismo del suo Pd. Quello del Jobs act e del taglio dell’Imu, degli 80 euro in busta paga e della promessa del taglio Ires e, magari presto, dell’Irpef. Per non parlare del nome del ministro dello Sviluppo che ancora non c’è. E che sarà un tassello non banale nella squadra di governo anche in un’ottica Sud-Nord.
Per questa ragione in quelle due città in cui si vota a giugno, Milano e Torino, si farà un test importante dal punto di vista dell’approccio renziano all’economia oltre che cruciale sul piano del risultato. Perché se è vero che Napoli e Roma hanno degli alibi, sia pure striminziti, viste le precedenti gestioni e lo stato del partito, in quelle due città Renzi non può perdere. Tra l’altro, erano date vinte in partenza ma più si avvicina il voto – anche se manca ancora troppo tempo - più appaiono in bilico secondo i sondaggi. Si parla di un testa a testa tra Giuseppe Sala e Stefano Parisi, e di uno scarto minimo anche tra Piero Fassino e Chiara Appendino dei 5 Stelle. E non si potrà nemmeno dire che i due candidati sono estranei alla “cultura” renziana visto che il primo è stato scelto proprio dal premier, il secondo è stato con il premier già dalla battaglia congressuale.
E dunque se è vero che il referendum sulle trivelle non ha dato quorum perché, come dice Renzi, c’è un’Italia che ha premiato un’idea di sviluppo e tutela del lavoro piuttosto che le ragioni personali dei suoi oppositori, tanto più dovrebbe ritrovarsi in queste due città del Nord.
Gli sconfitti del referendum ancora ieri agitavano i numeri contro Renzi, chi parlava dei 13 milioni di votanti chi addirittura 16 milioni, ma questo si sapeva già. Perfino alle europee di due anni fa contro il premier ha votato (o non votato) il 60% degli italiani. Il punto è che alle urne di domenica sono rimasti minoranza. E per trasformare questa massa critica in maggioranza servono contenuti che non si vedono e che certo sono mancati nella battaglia referendaria. O almeno che non sono stati convincenti per gli italiani. Oggi si replica. Nel senso che alla non-notizia che esiste un’opposizione nel Paese, si vedrà che esiste anche al Senato ma che non ha i numeri per rovesciare il governo. Nel pomeriggio, infatti, si voterà la mozione di sfiducia contro il governo. Sarà al Senato, Renzi parlerà alle 18, le opposizioni si coalizzeranno contro di lui ma difficilmente le minoranze diventeranno maggioranza. Dunque due esercizi andati a vuoto.
Di portata diversa è stato l’esercizio di ieri di Banca d’Italia che ha messo in dubbio le previsioni del Def considerando i rischi al ribasso sulla crescita determinati dalla complessità del quadro internazionale oltre che interno. Insomma, la battaglia del quorum è stata certamente vinta ma non è detto che le ragioni siano quelle di cui parla Renzi. Si vedrà a giugno, se il premier farà breccia in due luoghi emblematici del Paese.
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