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Giancarlo Consonni
Agri coltura e urbis coltura: una cura comune per una crisi comune
1 Febbraio 2016
Per fare
«Se la dilapidazione delle risorse non rinnovabili e il dilagare di modalità insediative non urbane hanno una matrice comune, la soluzione non può che essere cercata in una nuova alleanza che sappia tenere unite istanze ecologico-ambientali e valori civili».

«Se la dilapidazione delle risorse non rinnovabili e il dilagare di modalità insediative non urbane hanno una matrice comune, la soluzione non può che essere cercata in una nuova alleanza che sappia tenere unite istanze ecologico-ambientali e valori civili».

Intervento alla Tavola Rotonda nell’incontro Studiare il futuro già accaduto. Il sistema climatico del Bacino del Po dall’inizio del Novecento a oggi, a cura di Ezio Tabacco e Luciana Tasselli, Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia Leonardo da Vinci, Milano, 27 gennaio 2016.

Quanto della trasformazione del mondo è frutto di un progetto consapevole e condiviso e quanto invece avviene nell’indifferenza o con la latitanza della politica? Politica ovviamente intesa nel senso più alto del termine, implicante il nostro essere parte di una società attenta alla direzione in cui si muove e in grado di apportare i correttivi per assicurare la migliore convivenza e il massimo grado possibile di benessere e felicità per il maggior numero di persone. Ci sono processi travolgenti che sembrano generarsi per meccanismi spontanei rispetto ai quali chi ha responsabilità di governo nella moderna democrazia si dimostra disattento o impotente, o, più spesso, connivente.

Si pensi all’agricoltura e agli insediamenti umani. Per tutta una fase iniziale dello sviluppo capitalistico - fase che, con riferimento alla Lombardia e alla Valle Padana, potremmo chiamare cattaneana, dal nome del suo massimo interprete -, le campagne hanno potuto essere descritte come un «edificio idraulico» e un «immenso deposito di fatiche» e le città essere celebrate come il contesto del manifestarsi della «magnificenza civile» (le definizioni sono, appunto, di Carlo Cattaneo).

Seppure in quella fase abbia avuto luogo una dilapidazione del patrimonio boschivo usato soprattutto come fonte energetica nelle prime lavorazioni della seta - e senza mai dimenticare che alle «fatiche» corrispondeva un elevato sfruttamento della forza lavoro -, si può dire che l’azione antropica su città e campagna sia andata di conserva esaltando le virtù sia della campagna che della città e il loro rapporto sinergico.

Nel configurarsi nell’arco di almeno un millennio di un assetto fisico e relazionale tutto sommato equilibrato, la politica ha avuto un ruolo abbastanza marginale. A guidare l’azione umana sono stati principi non scritti ma così radicati nel sentire comune e nei comportamenti che non avevano nemmeno la necessità di essere ratificati nel corpo legislativo. Ne richiamo due in particolare:

1) il patto fra le generazioni (le esistenti e le future) riguardante il mantenimento della capacità nutritiva della terra;
2) un modello di convivenza civile che, calato nelle forme insediative, ha mosso la storia della città verso una più netta affermazione dell’urbanità, che, a conti fatti, possiamo considerare come il lascito più alto della civilizzazione. Un’azione, questa, ulteriormente sostanziata nella prima metà dell’Ottocento dal rinnovarsi dell’idea operante della città come opera d’arte, che vedeva la nuova classe in ascesa, la borghesia, ricorrere alla bellezza come a un modo per legittimare la propria egemonia (in linea con una lunga tradizione).

Questi principi nel corso nel Novecento sono via via evaporati, con un’impennata negli ultimi decenni, senza che la politica se ne interessasse e mettesse in atto le opportune contromisure.

Un bilancio di medio-lungo periodo ci porta a concludere che, nell’ultimo secolo, agri coltura e urbis coltura hanno conosciuto una crisi parallela. Una crisi che, a dispetto delle apparenze, ha una radice comune nel venir meno del nesso tra l’antropizzazione e il colĕre, ovvero quel complesso di azioni che la lingua latina condensa in questo termine, in particolare l’avere cura e il venerare/onorare (che, ai fini del nostro ragionamento, possiamo laicamente attualizzare in riconoscimento e condivisione di valori comuni e attribuzione di ragioni di senso). Per questo non è fuori luogo parlare di una rottura epocale.

La crisi è chiaramente riscontrabile nei fatti concreti non meno che nel venir meno di una tensione ideale. Pratiche plurisecolari e principi saldissimi sono stati travolti dall’affermarsi di una realtà, insieme economico-sociale e territoriale, che possiamo denominare metropoli contemporanea, un organismo inedito nella storia dell’umanità, come lo è il modo di produzione capitalistico di cui è l’emanazione.

Tutt’uno con la rivoluzione industriale e i suoi sviluppi, la metropoli contemporanea ha avuto il suo motore primo nella messa a frutto delle specifiche economie esterne di città e campagna e soprattutto delle loro differenze, a cominciare dal divario nei costi riproduttivi della forza lavoro. Alla sua marcia trionfale ha concorso non poco la capacità di promuovere il sostentamento di ingenti masse e di consentire processi di emancipazione come mai si era verificato nella storia.

La fase attuale, contrassegnata dal predominio del capitale finanziario, è caratterizzata da un accentuarsi della concorrenza tra le realtà metropolitane conseguente alla globalizzazione in cui, oltre alla capacità dei contesti di attrezzarsi per far fronte alle nuove sfide, conta non poco la risposta ai problemi connessi al modello di sviluppo. Ne richiamo quattro:

- la dilapidazione di larga parte delle campagne ricadenti nella più diretta influenza dell’organismo metropolitano;
- l’abbandono, in molta parte di ciò che rimane del suolo agricolo, della cura volta a rigenerare gli elementi che assicurano la fertilità della terra;
- il dilagare nell’ultimo secolo di un’urbanizzazione estesa, informe, per lo più a bassa densità e a elevata entropia: un quadro ben identificato con il termine inglese sprawl;
- l’azione disgregatrice esercitata sul corpo della città compatta dalla rendita immobiliare e dalla speculazione, a cominciare dall’innesto di corpi estranei a elevata densità.

Questi processi strettamente intrecciati sono tutt’altro che esauriti. Ciò che le metropoli si trovano di fronte è una modalità insediativa e relazionale che presenta notevoli criticità su due fronti interdipendenti: la sostenibilità ecologica e la sostenibilità sociale.

Siamo alla resa dei conti di un modello di formazione e funzionamento degli insediamenti che ha avuto ed ha nella rete di trasporti su gomma il suo supporto. Il vantaggio iniziale offerto da questa modalità insediativa - essenzialmente riconducibile alla riduzione relativa della rendita fondiaria - si è rapidamente rovesciato in svantaggi.

Per cominciare, ne indico un paio:

- la forte dissipazione di risorse non rinnovabili (suolo, energia etc.);
- il gravare sul bilancio pubblico dei costi di realizzazione e di manutenzione delle reti (viabilità e trasporti, servizi primari).

Mentre sul primo punto si registra una crescita di consapevolezza e cenni di mobilitazione civile, l’attenzione, non solo degli addetti ai lavori, ma anche degli intellettuali e dei cittadini sul secondo punto è assai meno stringente. Eppure la crisi fiscale dello Stato e la stessa crisi economica hanno qui una loro radice strutturale e persistente.

Il modello insediativo e di funzionamento della metropoli contemporanea pesa sul bilancio dello Stato (ai vari livelli, a cominciare da quello locale) per via di una notevole sproporzione - e ingiustizia - nel riparto, tra settore pubblico e settore privato, delle spese relative ai cosiddetti processi urbanizzativi. Se per descrivere sommariamente il territorio usiamo l’immagine dell’albero, assimilando la pianta alle reti infrastrutturali pubbliche e i frutti alle costruzioni (per lo più private), possiamo dire che chi gode dei frutti non si assume per intero i costi di impianto e di manutenzione dell’albero. La sproporzione è particolarmente rilevante in Italia dove gli oneri di urbanizzazione - oltre a essere del tutto inadeguati al costo di realizzazione delle opere, per non dire della loro manutenzione - da un quindicennio possono essere sottratti al capitolo di spesa specifico per essere impiegati in altri capitoli, a cominciare dal funzionamento della macchina burocratica[1].

A ciò si aggiunge la possibilità, concessa per legge, di monetizzare quanto il privato non può assicurare in termini di dotazioni obbligate. Si pensi alla legislazione regionale per il recupero dei sottotetti che consente di trasformare in un tributo la mancata realizzazione della quota dei parcheggi di pertinenza; o ai vari casi in cui viene consentita la monetizzazione degli standard urbanistici. In tutto questo si evidenzia la propensione degli Enti Locali a favorire in tutti i modi il settore delle costruzioni pur di ottenere introiti per le casse pubbliche sempre più in sofferenza: poco denaro fresco, a fronte di un ben più rilevante esborso futuro da parte dell’ente pubblico, con un risultato certo: l’accumularsi esponenziale di un deficit nel bilancio dello Stato e delle sue articolazioni.

Le conseguenze sono devastanti anche e soprattutto sotto il profilo del governo delle trasformazioni territoriali. La sfera urbanistica, da tempo in sofferenza per lo sguardo corto degli amministratori pubblici, attenti solo ai cinque anni del loro mandato - tacendo dell’acquiescenza diffusa tra i cosiddetti esperti del settore -, è ormai sempre più vista e praticata dai gestori della cosa pubblica come una branca della fiscalità generale. Il che spiega la scarsa attenzione - quando non la rimozione - riservata alle questioni del progetto e dell’effettivo governo del territorio. Il territorio è un patrimonio e un bene comune a cui lo Stato attinge, svendendo il futuro del consorzio umano.

Parlano i fatti: anche il progetto di trasformazioni che hanno una portata rilevante per il destino delle città da decenni è del tutto demandato agli attori privati, ovvero a chi detiene le redini degli investimenti e della speculazione immobiliare (i grandi gruppi finanziari, la cui ‘potenza di fuoco’ è enormemente cresciuta con la globalizzazione). Ma la delega riguarda anche gli interventi di piccolo cabotaggio sul fronte dell’espansione insediativa; un ambito, questo, in cui l’esercito dei piccoli e medi investitori consegue nell’insieme un esito quantitativamente non meno rilevante di quello dei grandi operatori. La capacità della Pubblica amministrazione non solo di indirizzare, ma, più limitatamente, di discernere e di contrattare, è indebolita - quando non annullata - dalla convergenza che si è di fatto instaurata tra investitori immobiliari e amministratori pubblici. Una convergenza prossima alla connivenza che ha come esito un prezzo sociale altissimo, oltre a quello ecologico: la rimozione sia della difesa della città sia dell’attribuzione di qualità urbana e relazionale al nuovo ambiente costruito.

Una delle specificità di questo modello di sviluppo, del tutto assente nel mondo precapitalistico, è la sovrapproduzione. Una pratica ampiamente presente in campo edilizio a cui, oltre che una accentuazione della devastazione ambientale, corrisponde la sottrazione di ingenti risorse finanziarie ad altro tipo di investimenti. Da una recente analisi del Centro studi di Unimpresa, basata su dati della Banca d’Italia, apprendiamo che in Italia a novembre 2015 «Oltre il 30% delle sofferenze delle banche è riconducibile al settore immobiliare»: 64 miliardi di euro su un totale di 201 miliardi di euro di prestiti non esigibili. Ma sulla bolla immobiliare il silenzio dei media rasenta l’omertà. A nessuno dei commentatori interessa addentrarsi in una materia che vede il settore immobiliare trasformato da alcuni decenni in pesante zavorra: in una spugna che assorbe risorse sottraendole a investimenti strategici, ovvero ad attrezzare i nostri contesti metropolitani in modo che non soccombano nella sfida economica globale.

Ma non meno rilevanti sono le conseguenze sul versante della sostenibilità sociale. Le sintetizzo in tre punti:

- l’homo metropolitanus, disperso in quelle che con grande intuito già nel 1893 Émile Veraheren chiamava Les campagnes hallucinées, paga in termini di tempo e denaro ciò che in apparenza risparmia sul versante del tributo alla rendita: l’erosione della risorsa tempo lo impoverisce (se è vero che il tempo disponibile per ciascuno può essere considerato come il vero misuratore della ricchezza[2]);
- la cosiddetta «città diffusa» non ha nulla della città e questo va a discapito delle qualità relazionali, per non dire dell’ingigantirsi della questione della sicurezza. A essere in pericolo è lo stesso processo di incivilimento, se è vero che l’urbanità costituisce il livello più elevato raggiunto dalla convivenza civile tanto nell’urbs (la città fisica) quanto nella civitas (la città degli esseri umani);

- l’indebolimento della tensione su cui si regge l’urbanità come habitus diffuso ha tra i suoi indicatori la caduta della bellezza civile. Le forme del nuovo non mentono: le archistar sono costrette a esercizi inventivi i cui esiti stravaganti mal nascondono il vuoto di valori. Un vuoto che, in estrema sintesi, nasce dalla sostituzione del coesistere al convivere (da cui la scarsa o nulla attenzione alle relazioni di prossimità a favore di un’esaltazione enfatica delle relazioni a distanza, complici le nuove tecnologie). Molti degli organismi fuori scala sorti di recente a Milano non sono altro che teche sigillate che riducono l’intorno a deserto relazionale e di senso. Siccome l’essenza dell’architettura sta nella relazione, oltre alla morte dell’urbanistica, assistiamo così a prove di morte dell’architettura.

Questo nostro è tempo di divaricazioni e di contrasti. Proprio quando la globalizzazione economica e l’informatizzazione sembrano unire e fare piccolo il mondo, si accentuano crepe antiche (tra culture, dove le religioni hanno grande peso) e se ne formano di nuove.

Una di queste lacerazioni riguarda il tempo: c’è una parte del reale che conosce mutamenti rapidissimi e una parte che arranca. Si allarga la forbice tra mondo neotecnico e mondo paleotecnico. Ci sono le frontiere dell’innovazione dove la tecnologia, e in parte anche la scienza, sono protagonisti su più fronti - informatizzazione virtuale, comunicazione, automazione, biologia, medicina ecc. - e un mondo che, al confronto, appare quasi fermo, impaniato nel suo assetto. Il neotecnico non rimuove il paleotecnico, se non in minima parte: lascia un esteso residuo, un’eredità della storia che presenta valenze variegate. Così assistiamo al divaricarsi tra il mondo dei flussi, in particolare di quelli immateriali, e la realtà fisica, in particolare quella degli insediamenti. Realtà, quest’ultima, dove il paleotecnico è, in una parte non trascurabile, il risultato di quello che non molto tempo fa - si pensi all’automobile - appariva come neotecnico, capace di rappresentare l’idea stessa di modernità (Le Corbusier, per fare un esempio, pensava che gli insediamenti umani andassero ridisegnati in toto pur di adattarli all’automobile).

In realtà quello che chiamiamo modernità è un succedersi di astrazioni, scollamenti e separazioni: nelle pratiche e nei saperi; tra pratiche e saperi; tra il fare e la responsabilità civile. L’astrazione più potente ed emblematica è la proprietà privata, per la quale ci si dimentica facilmente del vincolo dell’utilità sociale sancito, per restare in Italia, nella Costituzione repubblicana.

Se l’aria delle città rendeva liberi, l’aria della metropoli sembra aver liberato l’individuo sia dal vicinato, dalla sua tirannia ma anche dai suoi vantaggi, sia dalla cura del contesto stessa della vita. Così, mentre una parte sempre più consistente di popolazione è attratta nella sfera delle metropoli e delle megalopoli, l’immane opera costruttiva che vi corrisponde non è iscrivibile sotto il segno della città (che Claude Lévi-Strauss, in Tristi tropici, ha definito la «cosa umana per eccellenza»[3]). E questo a dispetto dell’abuso del termine città (un mascheramento che, al pari della devastazione, non conosce l’eguale nella storia).

Oggi anche nel pensiero che si interroga sulle strategie possibili, e dunque in quel che resiste nel pensiero politico per eccellenza, pesa una dicotomia fra istanze ecologiche e istanze civili. È più facile trovare convergenze sulle prime che sulle seconde ed è raro vederle poste insieme. Ma la dilapidazione delle risorse non rinnovabili e il dilagare di modalità insediative non urbane hanno una matrice comune. E la soluzione non può che essere cercata in una nuova alleanza che sappia tenere unite istanze ecologico-ambientali e valori civili.

[1] Il Testo Unico per l’edilizia (D.P.R. 380/2001), abolendo nell’art. 136, comma 2, la legge 28 gennaio 1977, n. 10 (Bucalossi), ha aperto la strada alla possibilità degli Enti Locali di dirottare gli oneri di urbanizzazione dalla specifica voce di spesa a cui erano vincolati ad altre voci di bilancio. È uno degli ultimi atti del governo Amato su proposta del Franco Bassanini, allora Ministro della Funzione Pubblica. Un’operazione, come osservato da Sergio Brenna, «apertamente illegittima, poiché un TU non può né introdurre né abrogare alcuna norma».
[2] Karl Marx,
Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie (1857-1858), Dietz Verlag, Berlin 1953, trad. it. di Enzo Grillo, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica. Vol. II, La Nuova Italia, Firenze 1970, p. 405.
[3] Claude Lévi-Strauss,
Tristes Tropiques, Librairie Plon, Paris 1955, trad. it. di Bianca Garufi Tristi tropici, Il Saggiatore, Milano 1972 (1960), p. 119.

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