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Benedetto Vecchi
I segni cangianti di un’opera aperta
28 Gennaio 2015
Altri padri e fratelli
«Torna finalmente nelle librerie il saggio di Henri Lefebvre «Il diritto alla città». Un libro presto archiviato come incompleto, anche se negli anni successivi alla sua pubblicazione ha aperto sentieri di analisi sulle trasformazioni urbane come quelli di Mike Davis, Saskia Sassen e David Harvey».

Il manifesto, 28 gennaio 2015

Sono pas­sati molti lustri da quando il filo­sofo fran­cese Henri Lefeb­vre mandò alle stampe una rifles­sione sulla città - Le droit à la ville - cri­tica nei con­fronti di una visione della metro­poli allora domi­nante. A distanza di decenni, quell’analisi cono­sce un ine­dito e a tratti con­di­vi­si­bile revi­val, gra­zia a un lavoro di risco­perta che fa leva sui movi­menti sociali che pun­tano alla riap­pro­pria­zione della metro­poli dopo una cor­ro­siva pri­va­tiz­za­zione dello spa­zio pub­blico. Molte le dif­fe­renza tra l’ordine del discorso allora domi­nante e quello attuale. Nei tur­bo­lenti anni Ses­santa, infatti, gli urba­ni­sti, affa­sci­nati dalle oscure decla­ma­zioni di Tal­cott Par­son sulla realtà come un «sistema chiuso», soste­ne­vano che la città era da con­si­de­rare appunto un sistema auto­re­fe­ren­ziale che sta­bi­liva cor­ro­sivi rap­porti di feed­back con l’ambiente cir­co­stante al fine di ripro­durre una forma del vivere sociale che non ammet­teva alter­na­tiva al suo dive­nire.

La prima edi­zione del sag­gio di Lefeb­vre è del 1970, ma fu pre­sto archi­viato per­ché rite­nuto un mano­scritto incom­pleto. Da alcuni anni, però, il geo­grafo David Har­vey ha attinto a Il diritto alla città come una miniera di sug­ge­stioni per ana­liz­zare il ruolo della metro­poli come un hub delle dina­mi­che eco­no­mi­che e sociali della con­tem­po­ra­neità. Ha dun­que fatto bene la casa edi­trice ombre corte a ripub­bli­carlo, cor­re­dan­dolo di una utile pre­fa­zione di Anna Casa­glia, che inqua­dra sto­ri­ca­mente il sag­gio del filo­sofo fran­cese (Il diritto alla città, pp. 138, euro 14).

I monu­menti del potere

Il fun­zio­na­li­smo rap­pre­sen­tava per Lefeb­vre un maci­gno che impe­diva un’adeguata ana­lisi della città, anche se invi­tava comun­que a pren­dere ciò che di buono ave­vano pro­dotto gli emuli euro­pei di Par­son: l’idea cioè che la città è la forma del vivere asso­ciato che meglio di altre con­sente a defi­nire il luogo, meglio i luo­ghi della pro­du­zione della ric­chezza. È su que­sto cri­nale che Lefeb­vre usa una famosa frase di Marx lad­dove scri­veva che se il mulino sta al capi­ta­li­smo mer­can­tile, la mac­china al vapore sta al capi­ta­li­smo indu­striale. Lefeb­vre la evoca per sin­te­tiz­zare la suc­ces­sione delle diverse forme di città che hanno accom­pa­gnato lo svi­luppo eco­no­mico. Così la città orien­tale è con­na­tu­rata al modo di pro­du­zione asia­tico, men­tre la città antica è fun­zio­nale all’economia schia­vi­stica, così come la città medie­vale ha potuto imporsi solo in pre­senza del feudalesimo.

Al di là di que­sta tas­so­no­mia, tanto la città orien­tale che quella medie­vale erano i luo­ghi dove re, impe­ra­tori, ari­sto­cra­tici e mer­canti osten­ta­vano il loro potere e sta­tus. La città è imma­gi­nata come un’opera che rispec­chi una con­ce­zione domi­nante delle rela­zioni e gerar­chie sociali. Ma in quanto «opera», non può rima­nere indif­fe­rente al dive­nire sto­rico e sociale. Deve cioè mutare. La città, dopo il Rinan­sci­mento, diventa così il luogo dove il reale deve mani­fe­stare una intima coe­renza, un’armonia monu­men­tale che occulti la dimen­sione sociale, con­flit­tuale che è insita a que­sta forma del vivere. Una coe­renza del reale che non verrà mai rag­giunta. I monu­menti, le opere archi­tet­to­ni­che, i dipinti e dise­gni rina­sci­men­tali sono cioè da con­si­de­rare la rap­pre­sen­ta­zione ico­no­gra­fica di una città ideale che non è mai esi­stita, né che esi­sterà mai.

Nel diritto alla città ci sono pagine piene di sar­ca­stica cri­tica di tutte le meta­fore «natu­ra­li­sti­che» della città (il tes­suto urbano, l’habitat urbano), segna­lando che la nostal­gia per un pas­sato mitico sulla città rap­pre­senta l’incapacità del potere costi­tuito di pro­spet­tare una ricon­ci­lia­zione della società urbana con il ter­ri­to­rio. E se per la mag­gio­ranza della popo­la­zione diviene è al tempo stesso il luogo di un pos­si­bile riscatto da una con­di­zione di indi­genza e povertà e lo spa­zio dove i legami sociali pri­mari - la fami­glia, la paren­tela, per­sino le cor­po­ra­zioni - sono stra­volti dallo ormai inar­re­sta­bile svi­luppo capi­ta­li­stico, per gli urba­ni­sti è lo spa­zio dove imma­gi­nare una ricon­ci­lia­zione tra l’«ordine pros­simo» (le rela­zioni sociali deter­mi­nate dal regime della pro­prietà pri­vata) e l’«ordine remoto» (lo stato). Per que­sto, secondo Lefeb­vre, gli urba­ni­sti sono gli ideo­logi per eccel­lenza del capi­ta­li­smo, per­ché con i loro pro­getti e inter­venti fanno sì che la città diventi la «media­zione delle media­zioni», cioè lo spa­zio dove il potere costi­tuito ha la sua legittimazione.

L’impossibile sin­tesi

Non sem­bri però una nota sto­nata che in que­sto pic­colo, ma denso sag­gio non com­pa­iano mai rife­ri­menti ai filo­sofi, socio­logi che tra gli anni Venti e Qua­ranta del Nove­cento hanno scritto pagine impor­tan­tis­sime sulla città. Georg Sim­mel è infatti igno­rato, così come il Wal­ter Ben­ja­min della Parigi capi­tale del XX secolo. E nulla viene detto sulle rifles­sioni di un moder­ni­sta con­vinto come lo sta­tu­ni­tense Lewis Mun­ford. Un solo pas­sag­gio liqui­da­to­rio è dedi­cato a Le Cour­bu­sier, rite­nuto un fun­zio­na­li­sta che ambi­sce a diven­tare l’«uomo di sin­tesi» di quella che viene iro­ni­ca­mente chia­mata la società urbana. L’obiettivo di Lefeb­vre, infatti, non attiene allo sve­la­mento di come si è for­mata la metro­poli, bensì di regi­strare un’altra «grande tra­sfor­ma­zione» in corso tra gli anni Ses­santa e gli anni Set­tanta del Nove­cento. Il pro­getto razio­na­li­sta di ripor­tare ordine nelle metro­poli è stato scon­fitto da un’alleanza tra urba­ni­sti, ammi­ni­stra­tori e immo­bi­lia­ri­sti tesa a tra­sfor­mare la città in una «infra­strut­tura» del governo poli­tico della società e della pro­du­zione di merci. La metro­poli non è cioè un luogo pas­sivo che riflette ciò che avviene nel mondo della pro­du­zione, ma è il con­te­sto dove l’urbano inter­viene diret­ta­mente nella produzione.

Il diritto alla città auspi­cato da Lefeb­vre è così un anti­doto a una tota­lità dove pro­du­zione, con­sumo e cir­co­la­zione della merci sono ormai tre momenti non distinti, ma com­ple­men­tari l’uno all’altro nel tempo e nello spa­zio. Per que­sto la città diventa a tutti gli effetti il luogo del desi­de­rio, dei biso­gni sociali, della dimen­sione ludica, tra­sgres­siva ine­rente i rap­porti sociali, ma anche lo spa­zio dove il potere punta ad eser­ci­tare una fun­zione di con­trollo a distanza attra­verso incen­tivi alla pro­du­zione di segni che rispec­chino sì la dimen­sione mul­ti­forme dei rap­porti sociali, ma per pie­garla alla ripro­du­zione dei rap­porti sociali.

Può sem­brare un’ironia della sto­ria, ma Lefeb­vre scrive del con­flitto sem­pre più evi­dente tra un 99 per cento della popo­la­zione e un 1 per cento che si appro­pria di tutta la ric­chezza pro­dotta. Lo scrive due anni dopo che nel quar­tiere latino di Parigi oltre a bru­ciare le auto­mo­bili è stato archi­viato il sogno razio­na­li­sta di una città ordi­nata e facil­mente con­trol­la­bile attra­verso le forze pre­po­ste all’ordine pub­blico. Ma all’orizzonte non c’era nes­sun Occupy Wall Street, né movi­mento sociale teso alla riap­pro­pria­zione dello spa­zio urbano tra­sfor­mato in un ate­lier pro­dut­tivo. Lefeb­vre annota sola­mente che la tota­lità costi­tuita dalla città ha biso­gno di stru­menti sofi­sti­cati per essere destrut­tu­rata. La filo­so­fia e la socio­lo­gia, certo, ma anche la lin­gui­stica, l’antropologia, la teo­ria dell’informazione. Le ultime pagine del libro indi­cano solo un pro­gramma di lavoro che Lefeb­vre con­ti­nuò a svol­gere, inter­se­can­dolo con altri libri anche’essi assenti da molti anni nelle libre­rie, come la monu­men­tale cri­tica della vita quo­ti­diana e l’altrettanto ambi­zioso stu­dio sullo Stato.

Le comu­nità recintate

Il diritto alla città potrebbe essere dun­que con­si­de­rato un libro anti­ci­pa­tore di quanto sarebbe acca­duto una man­ciata di anni dopo la sua pub­bli­ca­zione. Da allora molto cemento è pas­sato sotto i ponti. Le metro­poli sono diven­tate un ate­lier pro­dut­tivo che ingloba il ter­ri­to­rio all’interno di un pro­cesso che vede la com­pre­senza di finanza, pro­du­zione e coo­pe­ra­zione sociale, dove la città deve con­ti­nuare ad essere la media­zione delle media­zioni.

C’è chi ha scritto (Mike Davis) di metro­poli che vedono quar­tieri recin­tati dove la sovra­nità dello stato si ferma ai can­celli delle gated com­mu­nity, spin­gen­dosi a decre­tare la morte della città, ridotta ormai a una som­ma­to­ria di slums dove il 99 per cento della popo­la­zione è sus­sunta den­tro logi­che pro­dut­tive che asse­gnano all’economia infor­male di sus­si­stenza una fun­zione di soft gover­nance della coo­pe­ra­zione sociale.
C’è inol­tre da regi­strare la pre­gnante ana­lisi di Saskia Sas­sen, che ha fatto delle «città glo­bali» il punto di par­tenza per un’analisi della glo­ba­liz­za­zione libe­ri­sta che vede nelle metro­poli mani­fe­starsi una sovra­nità sovra­na­zio­nale che pla­sma a sua imma­gine e somi­glianza il rap­porto tra potere ese­cu­tivo, legi­sla­tivo e giu­ri­dico. Segnali di una rap­pre­sen­ta­zione disto­pica della città sono venuti dalla nar­ra­tiva di genere (Wil­liam Gib­son, Bruce Ster­ling) che guarda alla metro­poli come un immane depo­sito di segni e infor­ma­zioni pie­gate a una logica del con­trollo sociale che non con­sente nes­suna via di fuga.

I nuovi comunardi

Si deve però a David Har­vey la ripresa delle tesi di Henri Lefeb­vre. Anzi si può dire che il filo­sofo fran­cese ha fun­zio­nato come un invi­si­bile filo rosso che tiene insieme l’analisi cri­tica del capi­ta­li­smo svolta da Har­vey sul capi­ta­li­smo del nuovo mil­len­nio, lad­dove indi­vi­dua nella città il luogo dove l’intreccio ormai ine­stri­ca­bile tra finanza e pro­du­zione sono fun­zio­nali a un uso capi­ta­li­stico del ter­ri­to­rio.

Ciò che per il filo­sofo fran­cese era una esile ten­denza, la tra­sfor­ma­zione della metro­poli in un ate­lier pro­dut­tivo è diven­tata una realtà acqui­sita. Per que­sto sulla città si adden­sano, tanto nel Sud che nel Nord del pia­neta, stra­te­gie di gover­nance e pro­getti di par­chi tec­no­lo­gici, di distretti uni­ver­si­tari che favo­ri­scano pro­cessi di inno­va­zione sociale e pro­dut­tiva. La metro­poli deve essere cioè uno spa­zio dove il sapere sans phrase è forza pro­dut­tiva. E che per que­sto, devono essere defi­niti mec­ca­ni­smi di inclu­sione sociale dif­fe­ren­ziata in base al lavoro svolto, il colore della pelle e il genere ses­suale di appar­te­nenza.
La città diviene così il luogo dove agi­sce una com­po­si­zione sociale che eccede la figura dell’operaio di fab­brica, come invece soste­neva Lefeb­vre. E se per il filo­sofo fran­cese il diritto alla città era una con­di­zione neces­sa­ria per non soc­com­bere a una per­va­siva e alie­nante pro­du­zione di segni, per il pre­sente è da con­si­de­rare un vet­tore per l’azione poli­tica di figure pro­dut­tive sem­pre sul con­fine che separa il lavoro dal non lavoro, tra tempo di lavoro e tempo di vita, sia che si tratti di pre­cari dei fast-food, di kno­w­ledge wor­kers, di migranti o «indi­geni». Ciò che per Lefeb­vre era solo un mirag­gio, il diritto alla città, è da con­si­de­rare l’orizzonte ine­lu­di­bile di un’attitudine «comu­narda» per la riap­pro­pria­zione della ric­chezza prodotta.
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