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Maria Cristina Gibelli
Expo Milano 2015: una “zona franca” prima e anche dopo?
17 Maggio 2014
Maria Cristina Gibelli
Serviranno i drammatici eventi degli ultimi giorni non solo a riavviare il progetto Expo ... >>>

Serviranno i drammatici eventi degli ultimi giorni non solo a riavviare il progetto Expo ... >>>

Serviranno i drammatici eventi degli ultimi giorni non solo a riavviare il progetto Expo su binari di recuperata legalità, ma anche a far cambiare rotta sui progetti per il dopo EXPO? Gli eventi di questi ultimi giorni relativi all’EXPO testimoniano di una sorta di drammatico, e a quanto pare ineluttabile, déjà vu e, una volta di più, dell’inarrestabile decadenza della ‘capitale morale’ d’Italia. Ma questa è solo una parte del problema, di per sé già gravissimo.

In attesa di vedere come si uscirà (se ci si riuscirà) dall’intreccio di interessi opachi fra costruttori, amministratori, tecnici e politici che la magistratura sta portando alla luce, per completare il quadro preoccupante che si prospetta, vale la pena di soffermarsi anche su alcune proposte recenti avanzate in ambito politico e tecnico in merito al riutilizzo delle aree dedicate al ‘grande evento’. Perché anche queste sono preoccupanti.

Nel novembre 2013, in un incontro a Palazzo Reale, presenti Maroni, Pisapia e l’assessore all’Urbanistica del Comune di Milano, è stato presentato dalla società Arexpo SpA (che ha come azionisti di maggioranza Regione Lombardia, Comune di Milano, Fondazione Fiera, Comune di Rho e Provincia di Milano) il ‘master plan’ per la gestione del dopo EXPO che dovrebbe individuare linee guida e indirizzi urbanistici che saranno attuati concretamente attraverso un Programma Integrato di Intervento (PII): uno strumento tutto negoziale e flessibile. Si tratta di un master plan “molto essenziale”, come l’ha definito il coordinatore Paolo Galuzzi; in realtà molto aperto a qualsivoglia futura trasformazione. Qualche cifra (probabilmente provvisoria): 44 dei 110 ettari dell’area EXPO saranno dedicati alla realizzazione di un “parco multitematico”; si prevedono inoltre nuove edificazioni per 489.000 mq. + 30.000 mq. dedicati all’housing sociale.

Fra le proposte progettuali presentate ad Arexpo di recente, alcune dedicate alla “città della moda e del lusso” e alla ristorazione, e provenienti soprattutto dal real estate, spicca quello della “Cittadella dello Sport” che, grazie alla "Legge sugli stadi” (due commi nascosti nelle pieghe di un emendamento alla Legge di Stabilità – n.147/2013 -), potrebbe essere approvato a tappe forzate e con il corredo di bar, ristoranti, musei dello sport, alberghi, centri commerciali, multisale e quant’altro[1]. Con il Milan come sempre più probabile protagonista dell’operazione.

Risultano evidenti, al di là delle solite retoriche e degli improbabili auspici, i limiti generali dell’intero programma di riuso dell’area EXPO: limiti che vengono da lontano.

L’iniziale volontà della precedente giunta comunale milanese di centro-destra di rendere urbanizzabili le aree agricole destinate all’EXPO, anche nel caso che l’esposizione non fosse assegnata a Milano; la sciagurata conseguenza di incremento di valore delle aree stesse pagate dalla Regione a caro prezzo (mentre in genere le amministrazioni avvedute prima acquistano e poi cambiano la destinazione d’uso); la attuale necessità di rientrare dall’investimento effettuato, inevitabilmente consentendo sviluppi immobiliari; la rilevantissima dimensione di questi ultimi, data la tradizionale bassa tassazione locale delle trasformazioni immobiliari, nonché grazie alle leggi e ai regolamenti lombardi che non computano come superficie edificata gli immobili destinati a servizi pubblici o a servizi privati in convenzione[2].

Ma c’è di più.

La proposta più preoccupante sul che fare dell’area EXPO è successiva alla presentazione del master plan. In un incontro, questa volta promosso dal PD, svoltosi il 31 marzo presso il Comune di Milano[3] all’insegna dello slogan “via le briglie a Milano”, davvero infelice alla luce delle indagini in corso da parte della Magistratura, si è lanciato il “City Act Milano 2020” che suggerisce di trasformare l’area dell’EXPO in una sorta di enterprise zone del secondo millennio.

Nel resoconto dell’incontro a cura del segretario metropolitano del PD[4] si annuncia una vera e propria svolta strategica nel governo della regione urbana milanese a partire da una visione di lungo termine capace di valorizzare innovazione, competenze avanzate, ambiente e via di seguito con tutte le retoriche ormai usurate sulle magnifiche sorti e progressive del capoluogo lombardo e del suo hinterland (“anticipare i cambiamenti”, “discutere di visione”,...).

Si inizia con la domanda “E se i sindaci governassero il mondo?” citando Benjamin Barber, uno scienziato della politica americano esperto di diritti civili, di partecipazione civica e di studi di genere[5], il cui lavoro (o meglio, il titolo del suo ultimo libro) riscuote evidentemente molto successo in un paese come il nostro dove è sempre più esteso il potere dei sindaci (dai municipi alle città metropolitane al probabile controllo del Senato).

Si prosegue nel solco trionfalistico già tracciato mille volte: richiami alla formidabile eccellenza dell’area metropolitana milanese, alla necessità di potenziarne il ruolo di locomotiva economica del paese etc., etc….e nessuna proposta innovativa in materia di governance metropolitana.

Finalmente, una proposta operativa la troviamo nelle ultime righe, dove viene evocata la grande occasione del dopo EXPO che secondo il PD dovrebbe essere colta facendone una sorta di zona franca che “mantenendo legami economici con i Paesi in via di sviluppo, consenta di istituire aree a burocrazia e tassazione zero al fine di attrarre attività d’impresa innovative, in grado di rilanciare Milano come hub internazionale del mercato italiano”.

Insomma, anche la sinistra propone un mercato deregolato, quello sì davvero ‘a briglie sciolte’, come unico, salvifico strumento di modernizzazione urbana.

Voglio porre al proposito alcune domande, non provocatorie ma di buon senso.

Perché mai si dovrebbero istituire aree a burocrazia e tassazione zero a Milano che è la prima città in Italia per reddito pro capite?

Perché si dovrebbe pensare all’area EXPO come a una zona franca, se si tratta di un’area che (in teoria) costituirà un’eccellenza nell’hinterland metropolitano, immediatamente attigua al polo fieristico, accessibile (forse) dal mondo? Un’area per la quale occorrerebbe (in realtà occorreva fin da subito e contestualmente alla elaborazione del progetto EXPO) prevedere un riuso qualificato e una diversificazione funzionale molto ricca: anche a titolo di compensazione alla collettività per la sottrazione di un’area agricola di frangia urbana?

Ma, ancor prima, di cosa si sta parlando?

Le zone franche sono in genere aree portuali o territori frontalieri dove si godono alcuni benefici quali il non pagare i dazi di importazione.

Le ‘zone franche urbane’ sono state realizzate in quartieri poveri, con problematiche economiche, sociali e ambientali gravissime (infatti, ovunque in Europa e in Italia sono state proposte per aree di evidente urban deprivation): di queste caratteristiche nulla è ravvisabile nell’area milanese.

Forse ai dirigenti del PD è capitato di leggere un interessante, ma molto controverso, intervento del 1977 di sir Peter Hall - grande intellettuale e docente di pianificazione a Londra – alla Fabian Society. Hall proponeva in quell’occasione una sostanziale ritirata dello stato da alcune aree di declino assoluto nelle periferie delle città inglesi di antica industrializzazione. Proponeva un esperimento di deregolazione radicale su alcuni (pochi) quartieri derelitti per attirare attività innovative e nuova imprenditorialità, anche internazionale: avendo davanti agli occhi (all’epoca insegnava a Berkeley/CA) il successo della Silicon Valley, supportato anche da un mercato del lavoro di immigrazione, flessibile e a basso costo. Nacque da qui l’idea delle enterprise zones: zone del tessuto periferico degradato in cui norme e regolamenti (urbanistici, edilizi, relativi al costo del lavoro e alle tutele sindacali) avrebbero potuto essere provvisoriamente sospesi e cospicui incentivi fiscali avrebbero potuto essere concessi a nuove imprese, per rivitalizzare un tessuto economico distrutto e per rimediare alla povertà e alla emarginazione sociale dilagante.

Quella proposta fu molto criticata dal Partito Laburista di cui Peter Hall era membro insigne; mentre se ne appropriò immediatamente Margaret Thatcher quando, vinte le elezioni nel 1979, la utilizzò per legittimare il più esteso programma di privatizzazione delle politiche urbane mai sperimentato dal secondo dopoguerra; e, successivamente, la imitò Ronald Reagan, smantellando il programma di politiche sociali urbane previsto da Carter per le città in grave declino industriale.

Ma il contesto storico in cui Peter Hall aveva formulato la sua ipotesi di zone franche urbane era completamente diverso da quello attuale; così come lo erano i luoghi in cui la Lady di ferro portò a compimento la sua Inner City Policy. E si deve dire anche che le enterprise zones portarono sì nuove attività nei quartieri della disperazione, ma si trattò prevalentemente di attività banali e di routine spesso rilocalizzatesi all’interno della stessa regione urbana per i vantaggi fiscali offerti nei quartieri rigenerati.

Comunque, le zone franche urbane di 30 anni fa nulla hanno a che vedere con il problema del che fare dell’area dell’EXPO; perché oggi le prospettive di sviluppo delle regioni urbane avanzate sono strettamente legate a strategie e progetti che abbiano come obiettivi la tutela dei beni comuni, l’aumento del capitale fisso sociale, la realizzazione di un ambiente che possa essere sì attrattivo, ma per attività di rango metropolitano e non per speculazioni edilizie banali, sostenute da interessi opachi (quando non illegali).

Diversamente sembrano pensarla i gruppi di interesse milanesi, e in particolare la Confcommercio che, già nel gennaio 2014, ha chiesto che, a partire dal novembre 2014 fino al novembre 2015, sia “istituita una zona franca a ‘semplificazione totale’ dell’Area Metropolitana di Milano: con un fortissimo snellimento burocratico delle pratiche legate all’attività imprenditoriale (rifiuti, occupazione di suolo pubblico, fiscalità locale ecc.) e una tassazione agevolata sperimentale”.[6] Diversamente sembra pensarla anche il PD milanese e metropolitano.

I nuovi, gravissimi episodi su cui sta indagando la magistratura suggeriscono di cestinare al più presto l’idea di una ex EXPO zona franca, perché il mercato a briglia sciolta può produrre solo attività di basso livello, attentati ai beni comuni, perdita di vivibilità e competitività e, soprattutto, ulteriore corruzione.

Note

[1] Si veda: Baldeschi P. (2014), “La legge sugli stadi in un paese normale”, in eddyburg.it, 8 maggio.

[2] Per agevolare le manifestazioni di interesse, AREXPO ha predisposto un elenco di risposte a una serie di quesiti che potrebbero essere formulati da parte degli operatori privati. Le risposte sono tutte molto rassicuranti per gli immobiliaristi: ulteriori opportunità edificatorie sia nell’area che in territori contermini; libertà per quanto attiene alle nuove funzioni insediabili; possibilità di tracciare ulteriori attraversamenti carrabili del canale previsto dal contestatissimo progetto delle Vie d’Acqua, etc. etc. Si veda il documento qui allegato: AREXPO Risposte ai quesiti (di cui si sconsiglia la lettura della versione in inglese, tradotta evidentemente in automatico e piena di refusi… tanto per valorizzare una volta di più l’immagine internazionale di EXPO).

[3] Gruppo Consiliare PD (2013), “City Act, verso la Milano 2020", Milano, Sala Alessi a Palazzo Marino, 31 marzo.

[4] Bussolati P. (2014), “City Act, via le briglie a Milano” in Europa, 1 aprile.

[5] Barber ha pubblicato nel 2013 un libro dal titolo If Mayors Ruled the World: Dysfunctional Nations, Rising Cities.

[6] Confcommercio milanese al Tavolo dello Sviluppo (Comune): attrattività prioritaria. Milano? Pensiamo in Grande. Le imprese lo fanno già. Expo 2015: da novembre proposta di zona franca di “semplificazione totale” per l’Area Metropolitana, 31 gennaio 2014.

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