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Paolo Cacciari
Crescita e politiche espansive, l’illusione per uscire dalla crisi
11 Marzo 2014
Capitalismo oggi
«Domande agli economisti progressisti. È possibile ipotizzare una via non solo anti-neoliberista, ma anche oltre-capitalista?». Il manifesto, 11 marzo 2014, Aggiungerei una domanda, in postilla

La Rete euro­pea degli eco­no­mi­sti pro­gres­si­sti ha con­vo­cato un forum su «Un’altra strada per l’Europa» il 19 marzo a Bru­xel­les. Tra gli ita­liani è annun­ciata la pre­senza di Andrea Bara­nes, Mario Pianta, Luciana Castel­lina, Ste­fano Fas­sina, Monica Fras­soni, Gior­gio Airaudo, Guido Mar­con. La base di discus­sione è l’uscita dalle poli­ti­che reces­sive, la prio­rità all’occupazione, l’abbandono delle teo­rie eco­no­mi­che libe­ri­ste in un qua­dro di demo­cra­ti­ciz­za­zione delle isti­tu­zioni euro­pee. Obiet­tivi sacro­santi. Vor­rei però che il Forum avesse la pazienza di rispon­dere a una domanda sem­plice che in molti ci poniamo: è rea­li­stico, oltre che sen­sato, pen­sare di uscire da que­sta crisi affi­dan­dosi alla «cre­scita» (del Pil, è sem­pre sot­ti­neso) e a «poli­ti­che espansive»?

Di recente un attento sto­rico dell’economia, Tho­mas Piketty (autore di Capi­tal in the Twenty-First Cen­tury, Cam­bridg, MA, Bel­k­nap Press, 2014), ha affer­mato: «Sul lungo periodo la cre­scita della pro­du­zione non supera mai l’1– 1,5% all’anno (…) Dob­biamo far­cene una ragione e smet­terla di sognare un’illusoria cre­scita dell’economia». Dello stesso tenore le affer­ma­zioni di Larry Sum­mers, che hanno fatto scal­pore essendo stato ret­tore di Har­vard e segre­ta­rio al Tesoro di Clin­ton (vale a dire uno dei mag­giori respon­sa­bili della dere­go­la­men­ta­zione del set­tore finan­zia­rio che ha por­tato al crack finan­zia­rio del 2008). Par­lando alla con­fe­renza del Fondo Mone­ta­rio Inter­na­zio­nale nel novem­bre del 2013 a New York, Sum­mers ha dia­gno­sti­cato una fase di sta­gna­zione di lungo periodo: Secu­lar Sta­gna­tion. In verità lo aveva già detto Paul Krug­man: «Sap­piamo che l’espansione eco­no­mica del 2003–2007 è stata gui­data da una bolla — si può dire lo stesso dell’ultima parte dell’espansione degli anni ’90, e in effetti si può dire lo stesso degli ultimi anni dell’espansione Rea­gan» (Paul Krug­man, Secu­lar Sta­gna­tion, Coalm­ners, Bub­bles, and Larry Sum­mers, ’New York Times’, 16 novem­bre 2013). Ha com­men­tato un gior­na­li­sta di Repub­blica (Mau­ri­zio Ricci, L’era della cre­scita Zero, ’la Repub­blica’, 10 dicem­bre 2013): «Il lungo boom che ha accom­pa­gnato due secoli e mezzo di rivo­lu­zione indu­striale si è esau­rito» e dob­biamo ras­se­gnarci a una «nuova nor­ma­lità». Cioè, a uno «svi­luppo sta­zio­na­rio». Un bella inchie­sta di un gior­na­li­sta nor­da­me­ri­cano pub­bli­cato sull’ultimo numero di Inter­na­zio­nale (Harold Meyer­son, La fine della classe media, 7 marzo 2014) si chiede se «L’età dell’oro non tor­nerà più». E risponde affer­mando che i trenta anni suc­ces­sivi alla seconda guerra mon­diale sono stati un «feno­meno irri­pe­ti­bile». Almeno per noi, per l’ex Primo mondo.

Potrei citare molti altri eco­no­mi­sti della New Eco­no­mics Foun­da­tion di Lon­dra (Tim Jack­son, Pro­spe­rità senza cre­scita. Eco­no­mia per il pia­neta reale, Edi­zioni Ambiente 2011; Ema­nuele Cam­pi­glio, L’economia buona, Bruno Mon­da­dori 2012) e della Bio­e­co­no­mia (Mauro Bona­iuti, La grande tran­si­zione, Bol­lati Borin­ghieri, 2013), per non tor­nare alle pre­veg­genti, luci­dis­sime ana­lisi di André Gorz, che ci invi­tano a tro­vare delle vie di uscita non fon­date sulla cre­scita e sulla espansione.

Con molta mode­stia e, pro­ba­bil­mente, con grande inge­nuità mi sono fatto que­ste due domande a cui vor­rei che il con­ve­gno di Bru­xel­les rispon­desse. Si dice: per aumen­tare l’occupazione biso­gna far cre­sce la domanda interna e le espor­ta­zioni. Ma se le merci di largo con­sumo (spe­cie quelle più a basso costo) sono tutte d’importazione, una aumento della domanda interna quale occu­pa­zione accre­sce­rebbe? Prima, evi­den­te­mente, ser­vi­rebbe inter­ve­nire sulla bilan­cia com­mer­ciale. Ma per farlo ser­vi­rebbe rego­lare in modo del tutto diverso i mer­cati (vedi i Trat­tati di libero scam­bio) e la inter­na­zio­na­liz­za­zione delle imprese trans­na­zio­nali (delo­ca­liz­za­zioni pro­dut­tive). Non credo che vi siano più (né, d’altronde, sarebbe giu­sto) le con­di­zioni per otte­nere ragioni di scam­bio pena­liz­zanti i «paesi in via di svi­luppo» che ora si chia­mano, non a caso, «emergenti».

Seconda domanda. Viene sem­pre auspi­cata come leva anti­crisi l’aumento degli inve­sti­menti («sti­moli», sgravi fiscali, opere pub­bli­che, ecc.) per far ripar­tire le imprese. Ma se i denari con cui si fanno que­ste ope­ra­zioni li si prende a debito (emis­sioni di titoli pub­blici, bond, pro­ject finan­cing, ecc.) e se sul debito biso­gna pagare gli inte­ressi e se gli inte­ressi sono più alti della cre­scita dell’economia «reale»… alla fine a gua­da­gnarci non saranno mai i salari, ma le ren­dite finan­zia­rie! Esat­ta­mente quello che è suc­cesso negli ultimi trent’anni: la quota dei salari sul red­dito nazio­nale (negli SU come in tutta Europa) è dimi­nuita a favore di quella andata ad appan­nag­gio dei pro­fitti e delle ren­dite. Se le cose stanno così, allora, con­di­zione pre­li­mi­nare non è l’investimento (pub­blico o pri­vato) in sé, ma la ristrut­tu­ra­zione in radice del fun­zio­na­mento della finanza.

Sono que­ste le domande che le donne e gli uomini della strada si fanno tra i ban­chi del mer­cato che ven­dono ormai quasi solo merci cinesi, sotto i can­tieri delle «grandi opere» finan­ziati dalla finanza di pro­getto, in coda per otte­nere un pre­stito con inte­ressi da stroz­zini, alla ricerca dispe­rata di un lavoro che non c’è quando invece di cose utili da fare ce ne sareb­bero anche troppe. Domande a cui un numero sem­pre più grande di per­sone comin­ciano a darsi delle rispo­ste da soli orga­niz­zan­dosi in gruppi di acqui­sto e ban­che del tempo soli­dali, in coo­pe­ra­tive di comu­nità, in gruppi di auto-mutuo-aiuto per un wel­fare di pros­si­mità, in gestioni con­di­vise dei beni comuni, in scambi non mone­tari o con monete locali… Da cui l’ultima domanda agli eco­no­mi­sti pro­gres­si­sti: che posto c’è nelle nuove teo­rie eco­no­mi­che non con­ven­zio­nali per l’economia soli­dale o sociale o civile o morale, a dir si voglia? È pos­si­bile — almeno sul piano teo­rico e di visione stra­te­gica — avere que­ste come punto di approdo per una con­ver­sione strut­tu­rale dei rap­porti sociali di pro­du­zione e di con­sumo? Sarà mai pos­si­bile ipo­tiz­zare almeno una via di uscita dalla crisi che non sia solo anti-neoliberista, ma anche oltre-capitalista?


Porrei un'ulteriore domanda. Quali beni ( merci o servizi) dobbiamo produrre? Più precisamente, per ottenere che cosa dobbiamo impiegare il lavoro (l'applicazioni delle energie psicofisiche degli uomini e delle donne)? Per produrre merci che non servono e sembrano indispensabili solo perchè i "persuasori occulti", al servizio della produzione capitalistica ci convincono ogni giorno che così è, oppure per rendere più umano, vivibile, bello, amichevole, equo il pianeta in cui viviamo? A chi lasciamo la scelta? al "mercato", cioè a chi trae vantaggio della mortifera economia data, o alla politica non lasciata nelle mani dei partiti asserviti al pensiero unico?

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