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Paolo Baldeschi
La resistibile ascesa populista del ceto medio
8 Febbraio 2014
Piero Bevilacqua
Su la Repubblica del 6 febbraio ( Il declino del ceto medio e la deriva populista), Pietro Ignazi, uno dei nostri più lucidi politoligi, coglie bene il legame tra l'accelerata marginalizzazione del ceto medio e il diffondersi dei populismi in Italia e in Europa.
« La caduta verso il basso di questi ceti – egli scrive - destabilizza il sistema perchè lo spaesamento per la perdita di una condizione spesso acquisita a fatica e con sacrifici, e i sentimenti di frustrazione e rabbia che ne derivano, spingono verso posizioni politiche estreme. » La curvatura del ragionamento di Ignazi, tuttavia, privilegia un aspetto limitato, anche se condivisibile, del problema: la necessità di dialogare con il movimento 5 Stelle per sbloccare l'impasse politica attuale ed evitare la formazione di più ampi poli di destra populista. Il problema andrebbe tuttavia declinato anche su altri versanti. In primo luogo occorrerebbe collegare i cosiddetti populismi ( termine non sempre condivisibile e che uso qui per brevità) non solo al gigantesco smottamento sociale che stanno subendo le classi medie, ma anche al fatto che molte di esse hanno perduto ogni riferimento politico nei partiti tradizionali, ogni legame e luogo di rappresentanza. L'organizzazione politica della volontà collettiva si è liquefatta. Non solo – e qui il riferimento specifico è alla sinistra italiana del recente passato e oggi al PD - i ceti medi e popolari che subiscono l'emarginazione non hanno ricevuto la protezione che si aspettavano. Essi sono stati privati dei loro tradizionali riferimenti culturali, del loro precedente orizzonte, di ogni senso di direzione. Il disagio sociale è un ingrediente formidabile di disarticolazione, ma lo smarrimento culturale e ideale non lo è di meno. La politica, per lo meno nella tradizione della sinistra, è non solo rappresentanza di interessi materiali, ma anche sentimento collettivo, visione, valori condivisi. La politica del PD degli ultimi tre, quattro anni costituisce una delle sorgenti principali di alimentazione del populismo grillino. E dunque l'analisi di quest'ultimo fenomeno dovrebbe guardare anche in tale direzione.

Occorre tuttavia alzare lo sguardo e osservare fenomeni più generali e più vasti. Io credo che la crisi abbia accelerato un fenomeno da tempo in atto, che non riguarda, ovviamente, solo l'Italia. Il ceto medio sta subendo colpi formidabili un po' in tutti i paesi di antica industrializzazione. La crescita mondiale delle diseguaglianze colpisce anche questa fascia, riducendo la stratificazione sociale creatasi a metà Novecento. Negli Usa da tempo cresce la saggistica sulla Crisis o sulla End della Middle Class. Chi ha studiato le causa del tracollo finanziario iniziato nel 2008 sa che il suo epicentro è nella stagnazione pluridecennale dei redditi della middle class negli USA, costretta a indebitarsi per sostenere la corsa ai consumi della macchina produttiva americana e mondiale .

Dunque, oggi appare in via di esaurimento un assetto di potere egemonico del capitalismo che si era affermato dal 1945 agli anni '70. Qualcuno ricorda la formulazione della “società dei due terzi” del sociologo socialdemocratico tedesco Peter Glotz nel 1987? Una ampia stratificazione di ceti medi e alti dominante su una fascia ristretta di gruppi subordinati. Così è stata controllata la classe operaia, mentre i partiti comunisti e socialdemocratici sono finiti col diventare elementi costitutivi della società capitalistica. Ma oggi la parte maggioritaria di quel due si va assottigliando e quella dell'uno si va allargando. Probabilmente ci troviamo di fronte a una gigantesca novità di scenario nella dislocazione e nel ruolo del capitalismo del nostro tempo. Un consolidato blocco sociale si va sgretolando. La crisi, infatti, ci impone questa domanda radicale: riuscirà più il capitalismo a offrire a miliardi di persone il livello di redditi e di benessere, l'orizzonte di emancipazione che ha garantito ai paesi dell'Occidente per diversi decenni? Riuscirà il capitalismo a ricostruire le condizioni della propria egemonia, (perché di egemonia, in senso gramsciano, si è trattato)mentre oggi sempre più brutalmente si regge sul puro dominio?

E' questa una delle domande fondamentali che il maggiore partito italiano di centro sinistra dovrebbe porsi, smettendo di esorcizzare la propria insormontabile impotenza con la critica al populismo. Il fenomeno della crisi dei ceti medi investe infatti in pieno il PD. Non c'è dubbio che il suo antico e fedele elettorato (ereditato dal PCI) con gli anni si è concentrato tra i ceti medi, parte dei quali provenienti dal mondo operaio: « una condizione spesso acquisita a fatica e con sacrifici » per dirla con le parole di Ignazi. Ma si pensi anche a un fenomeno sociale poco considerato nei suoi effetti politici: l'enorme disoccupazione giovanile. Essa coinvolge ormai la gran parte delle famiglie italiane, anche quelle dei ceti medio alti, che vedono eroso il loro reddito dall'obbligo di dover sostenere una intera generazione senza lavoro. Ma non è in gioco solo il reddito. Mentre le famiglie si impoveriscono, i giovani che vengono dalle loro fila perdono fiducia nei confronti dei partiti perché non trovano lavoro, o lo trovano precario, si imbattono in strade sbarrate per la loro stessa formazione ed emancipazione: numeri chiusi all'università, alte tasse di iscrizione, mancanza di borse di studio, scarsità di risorse per la ricerca, ostacoli innumerevoli disseminati in ogni ambito della vita sociale. E questi giovani formano l'opinione dominante nelle famiglie, costituiscono il punto di vista radicale sulla società che li emargina. Da tempo, tra i ceti medi e il PD si va verificando dunque una deriva dei continenti: da una parte le trasformazioni materiali radicalizzano i disagi sociali e il modo di viverli, e dunque dislocano vaste masse su territori sconosciuti, dall'altra quel partito si fa sempre di più custode delle compatibilità finanziarie del sistema e naviga perciò in altre direzioni. Ma certo lo sbocco nella pura protesta, nell'aggressione selvaggia e disperata a tutte le istituzioni e simboli della politica tradizionale, non sarebbe così automatico se il nuovo continente sociale che la crisi fa emergere venisse adeguatamente rappresentato e organizzato. Il cosiddetto populismo ha ragione di crescere e prosperare anche a causa di una sinistra radicale che non riesce a costituire un punto di riferimento unitario, capace di offrire per lo meno speranze e senso di marcia a un magma sociale che attende ancora una forma politica.

Questo articolo è inviato contemporaneamente al manifesto
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