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Pietro Dal Re
La sfida dell’uomo che fermò il deserto
31 Gennaio 2013
Buone pratiche
Imparando dalla storia e dalla natura più che dalla modernizzazione tecnologica e dai modelli omologati si possono fare cose che sembrano miracoli. Non qui da noi: altrove, per esempio nel Burkina Faso.

Imparando dalla storia e dalla natura più che dalla modernizzazione tecnologica e dai modelli omologati si possono fare cose che sembrano miracoli. Non qui da noi: altrove, per esempio nel Burkina Faso. La Repubblica, 31 gennaio 2013

L’uomo che fermò il deserto non è né uno scienziato né un facitore di miracoli, ma un contadino del Burkina Faso che grazie al suo exploit continua a suscitare invidia e ammirazione presso i più illustri agronomi del pianeta. La sua battaglia per salvare le colture di miglio e di sorgo dall’avanzare delle sabbie, Yacouba Sawadogo l’iniziò più di un quarto di secolo fa. Negli anni Ottanta, la sua terra era già afflitta da una terribile siccità che da allora non ha fatto che peggiorare. Stiamo parlando del Sahel,sovrastato dal più grande e più vorace deserto del mondo, il Sahara, che diventa sempre più vasto, mangiando giorno dopo giorno savane e terre agricole, con un appetito aguzzato dal clima impazzito per via dell’effetto serra.

Come ha agito Yacouba? Il contadino è ricorso a una ricetta antica o forse preistorica poiché lo “zaï ”, che in lingua mossi vuol dire “fossa”, è una pratica agricola usata a quelle latitudini dalla notte dei tempi. Lo “zaï” deve avere inizio a primavera, che nel Burkina Faso coincide con la stagione secca, e consiste nello scavare buche profonde 30 centimetri e larghe circa 20. Una volta che l’area in questione èstata lavorata con una quantità adeguata di fosse, queste saranno prima riempite di sterco di capra misto a cenere e foglie secche, poi seminate. Tutto qui? No, perché dopo la semina è importante che la gente del villaggio vada ad ammirare il lavoro eseguito, e aspetti la pioggia. Anzi, la poca pioggia che cadrà durante i brevi monsoni subdesertici,ma che le fosse raccoglieranno senza sprecarne una sola

goccia. All’inizio della sua avventura, nemo profeta in patria, Yacouba era considerato un pazzo dalla sua gente. Una volta fu perfino denunciato e quando giunse una camionetta di gendarmi per dargli una lezione, lui fu costretto a nascondersi nel bush. Poi, però, con il passare degli anni e con l’aggravarsi della siccità, dal suo villaggio, così come da altre centinaia di piccoli centri contadini, la popolazione cominciò a fuggire andando a ingrossare quelle legioni di miserabili che ancora affollano i campi profughi o gli slum delle città africane.

Nel frattempo, con l’ostinazione di un ricercatore, o di un santo, Yacouba continuava a mettere in pratica lo “zaï” per riesumare poco per volta i segreti ormai dimenticati dei suoi avi. Fino a quando, una decina di anni fa, le gemme di sorgo cominciarono a spuntare sempre più forti e più numerose, mentre nei fazzoletti di terra lasciati a maggese crescevano acacie e arbusti rimboscando ciò che l’aridità aveva bruciato. Grazie alla sua tenacia, vaste porzioni di deserto sono oggi terre fertili che forniscono ricchezza(lo “zaï” ha consentito ai contadini di raddoppiare o anche triplicare i loro raccolti) e chi era fuggito altrove ha cominciato a tornare per ripopolare quelle lande riportate alla vita.

Tre anni fa, una casa di produzione statunitense, la 1080 films, girò un documentario su questo pioniere della lotta contro l’inarrestabile avanzata delle sabbie. Dopo aver vinto una decina di premi, il film è stato trasmesso dalle tv di mezzo mondo e Yacouba invitato a parlare in diverse conferenze internazionali. Dove il contadino taumaturgo è sempre stato accolto con meritatissime standing ovation.

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