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Rita Querzé
Se l'ufficio entra in una valigia
20 Settembre 2012
Il non detto di un articolo dedicato al lavoro: cosa può cambiare, a destra o a sinistra, per la città e il territorio. Corriere della Sera, 20 settembre 2012, postilla. (f.b.)

MILANO — C'è una rivoluzione silenziosa nel mondo del lavoro. Stanno sparendo gli uffici. Niente più scrivania, pc smaterializzato insieme con il telefono fisso e la foto dei bambini. Le imprese più avanzate consegnano ai dipendenti una valigetta dove ci sono cellulare e pc. Poi ciascuno lavora dove e quanto vuole. Chi ci tiene può andare anche in azienda. Poi, però, si mette dove capita. Nessuno ha un posto fisso per sé, nemmeno i dirigenti. Le scrivanie ci sono, ma hanno le ruote, si spostano a seconda delle esigenze di giornata.

Non è fantalavoro. Si sta già facendo. Nella sede milanese della Siemens, per esempio. Novecento dipendenti. Qui l'ufficio nomade si è subito dimostrato meritocratico: contano solo gli obiettivi raggiunti. Certo, nella stragrande maggioranza dei casi in Italia le cose restano congelate all'epoca del ragionier Fantozzi. Gli impiegati continuano ad avere uffici con scrivanie scolpite nella pietra. Chi sceglie orari flessibili viene penalizzato. Per non parlare di chi lavora part time.

L'Italia del lavoro a due facce è ben raccontata da uno studio condotto dall'osservatorio sul Diversity management della Sda Bocconi di Milano. Le coordinatrici del gruppo di lavoro, Simona Cuomo e Adele Mapelli, hanno sintetizzato i risultati nel libro «La flessibilità paga. Perché misurare i risultati e non il tempo» (Egea). Nel complesso sono stati considerati, nel periodo 2007-2010, 52 mila lavoratori distribuiti su due grandi aziende. L'unica forma di flessibilità prevista era il part-time, utilizzato dal 13,2% del personale, in larga parte donne. Rispetto ai colleghi a tempo pieno, quelli a orario parziale sono risultati penalizzati. La loro valutazione di fine anno è sempre stata più bassa: solo il 10,5% dei part time ha ricevuto i punteggi più alti in assoluto contro il 21,5% dei full time.

La disparità di trattamento è ancora più evidente in termini di passaggi di livello contrattuale: l'88,3% dei lavoratori part-time non ne ha registrato nessuno, contro il 72,7% dei full-time. I fortunati che hanno fatto due o più salti di livello sono il 5,7% dei full-time e lo 0,8% dei part-time. Infine, anche gli incrementi salariali non legati ai passaggi di livello sono stati attribuiti di preferenza ai lavoratori a tempo pieno.

Secondo Cuomo e Mapelli la diversità di trattamento non è giustificata. Anzi, chi lavora meno ore di solito è più produttivo. «L'Italia ha un numero di ore lavorate l'anno superiore alla media europea, ma la nostra produttività è inferiore, dunque l'abbassamento delle ore lavorate non incide negativamente sulla produttività, ma anzi sono proprio i lavoratori che operano per meno ore l'anno a essere più produttivi», chiarisce Adele Mapelli. Che cosa non funziona, allora? «Un approccio conformista e primitivo rispetto alle forme di flessibilità — risponde Simona Cuomo —. Chi sceglie il part time viene rinchiuso in un ghetto. Senza tenere conto che avere il massimo da tutti i propri dipendenti è vantaggioso prima di tutto per l'azienda stessa».

Come se la cavano le imprese che stanno sperimentando nuovi modelli organizzativi? «È vero, da noi nessuno ha più un suo ufficio, nemmeno i dirigenti — conferma Liliana Gorla, direttore del personale Siemens —. Ci si alterna sulle scrivanie e i posti fisici di lavoro sono il 20% in meno rispetto al personale perché mediamente un dipendente su cinque lavora da casa. Sia chiaro, non l'abbiamo fatto solo per le donne. Crediamo semplicemente che sia un cambiamento vantaggioso per tutti. Per l'azienda, che ha persone più produttive e motivate. E per i lavoratori che organizzano meglio le loro giornate. Anche le sedi di Roma, Padova e Bologna stanno andando in questa direzione». Risultati? «Abbiamo iniziato da poco, ma la produttività del lavoro sta già aumentando».Del resto per lavorare poco e male non c'è bisogno di essere a casa propria. Si può fare benissimo anche dall'ufficio.

postilla

Qualche anno fa la prestigiosa Harvard International Review aveva dedicato la sezione centrale e la copertina di un numero agli effetti vari di questa evaporazione dello spazio dell’ufficio, provando appunto a delineare (e quando possibile analizzare se già se ne presentavano esempi) alcuni scenari. Uno dei quali era l’organizzazione possibile della città e del territorio, con una lettura che oscillava fra una prospettiva che definirei di destra, diciamo individualista-autoritaria, e una di sinistra, diciamo sociale-ambientalista.

Nel primo scenario l’automazione e relativo potenziale decentramento fisico andavano a alimentare i consumi di risorse naturali e i rapporti di potere esistenti: sprawl insediativo (mille piccoli uffici sul modello delle mille villette familiari, magari in una stanza ad hoc). Nel secondo, con una specie di interpretazione ampia e egualitaria delle ricette di Richard Florida, si delineava una città ricca di spazi pubblici e quartieri densi, luoghi di “agglomerazione delle imprese individuali”, nonché di ovvia socialità diffusa.

Forse cogliere spunti, rischi, potenzialità di queste innovazioni fa parte della necessaria riflessione delle discipline territoriali, almeno di chi si ritiene progressista e di sinistra. A evitare che sia solo il cosiddetto mercato a invadere tutte le nicchie, come quel tizio americano che è già entrato coi piedi nel piatto costruendo un sistema di “working malls ” suburbani, dove si concentrano (si fa per dire) il peggio ambientale dello sprawl e l’isolamento rispetto a chi continua a tenere tutte le redini del potere economico (f.b.)

(qui ad esempio il pezzo di NJ Slabbert dalla HIR)

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