loader
menu
© 2024 Eddyburg

Roma terzo millennio
28 Settembre 2012
Roma
Contro la riqualificazione urbanistico-sociale postmoderna non basta il modello dell’opposizione novecentesca. Articoli di Eleonora Martini e Ylenia Sina da il manifesto, 28 settembre 2012 (f.b.)

San Lorenzo non abita più qui

di Eleonora Martini

La notizia, riportata sulle cronache romane dei quotidiani qualche giorno fa, e rimbalzata sui siti di movimento, ha avuto l'effetto di uno schiaffo che risveglia da un sonno narcotico. «San Lorenzo, aggressione razzista di un centro sociale contro i rifugiati». Ma come? San Lorenzo, il quartiere rosso per eccellenza della capitale. E perdipiù i brutti ceffi in questione - due o tre, armati, secondo quanto riportato dalle cronache, di coltellacci -, che avrebbero insultato i rifugiati del Darfur al grido di «negro di merda torna a vendere banane nel tuo paese», sarebbero frequentatori del «32» di Via dei Volsci. Un centro sociale che in Italia e non solo è sinonimo di estrema sinistra: dall'Autonomia operaia in poi, in quelle stanze - chiuse negli anni '80 e riaperte nell'attuale veste solo negli anni '90 - sono passate almeno due o tre generazioni di militanti comunisti. Da lì e da Radio Onda Rossa, a cento metri sulla stessa via, il germe della militanza si è diffuso negli anni a raggera. Sono figli di quella storia molti dei centri sociali romani e tante esperienze movimentiste degli ultimi decenni. «Il centro storico del movimento, un centro sociale diffuso», come lo definisce Nunzio D'Erme, ex consigliere comunale e tra i portavoce del «32». E allora, come è possibile un attacco razzista in piena via dei Volsci?

L'evento di per sé non è degno di particolare nota: sono volati insulti razzisti e nient'altro, ma soprattutto i rifugiati sudanesi si sono trovati solo nel posto sbagliato al momento sbagliato. La bega privata, tra i protagonisti della lite, non ha alcun interesse di cronaca e si è risolta con l'incontro tra gli avvocati di parte. Rimane un solo dato di fatto: gli attuali frequentatori del «32» e di via dei Volsci - ma il ragionamento si potrebbe estendere a molti se non a tutti i centri sociali, almeno quelli romani - si nutrono del buon cibo prodotto dalle cucine dell'osteria ma molto raramente della sua cultura fondativa. Il razzismo, anche solo quello delle parole, è un'onta che loro stessi, i «compagni del 32», non vogliono rimuovere. Si interrogano come forse non avevano mai fatto prima - e gliene va dato atto -, indicono riunioni, costringono alle scuse chi ha offeso, incontrano i rifugiati vittime del brutale episodio invitandoli, domani, a un'iniziativa nei locali del centro sociale e sabato ad una trasmissione dai microfoni di Radio Onda Rossa.

Basta? «No - scrivono in un comunicato diffuso on line - Perché l'intervento sul tessuto sociale più disagiato, con le problematiche anche gravi annesse, rappresenta una delle ragioni stesse dell'esistenza del centro sociale, fuori dalle logiche assistenziali e di carità, che negli anni ha prodotto centinaia di iniziative di denuncia e di lotta per i diritti di tutti, ma anche di solidarietà concreta». Non solo immigrati, rom o rifugiati. Vent'anni fa, dopo l'uccisione di Auro Bruni, attivista del centro sociale Corto Circuito, morto in un rogo appiccato da estremisti di destra, i militanti romani fecero una scelta ben precisa: lavorare soprattutto nel proprio territorio; nel caso di San Lorenzo in un quartiere proletario che allora non era ancora il divertificio smodato e a tratti ributtante che è oggi.

La «gentrification» era solo agli inizi, la camorra non aveva ancora interessi locali, la legge Fini-Giovanardi sulle droghe non esisteva, mentre oggi è tra quelle vie che si possono misurare gli effetti nefasti di un mercato senza scrupoli e uno spaccio senza separazioni tra sostanze leggere e droghe pesanti. Solo più tardi la legge Bossi-Fini relegherà all'ultimo gradino della scala sociale profughi e immigrati, senza via di fuga. La sfida allora era soprattutto quella di sottrarre i giovani borgatari alle organizzazioni neofasciste, alle curve ideologizzate dall'estrema destra, allo spaccio, alle palestre «nere». «Non a caso decidemmo di ripartire dai corpi - racconta Rino Fabiano, consigliere comunale di Action nel III Municipio - aprimmo una palestra popolare nel quartiere che fu la prima di una serie di iniziative di questo tipo e che oggi raccoglie giovani di qualunque provenienza etnica e culturale, perfino giovani fascistelli».

«Ci assumiamo la responsabilità che ci compete», ammettono nel comunicato dopo l'aggressione razzista. Ma prima di tirare le somme e di verificare fallimenti e errori, vale la pena approfondire il contesto. All'angolo tra Via dei Volsci e via degli Equi, fino a qualche anno fa c'era una sede della tifoseria romanista dove campeggiava una grande croce celtica. Ma i militanti del «32» riuscirono a intessere rapporti personali con gli ultrà di destra, neutralizzandone di fatto l'aggressività. Oggi San Lorenzo, inglobato nel centro storico capitolino, è però uno strano quartiere, che soffre di un degrado culturale forse peggiore di quello precedente alla gentrificazione. Qui, a differenza di Harlem o di Berlino, non c'è stata alcuna integrazione tra i tanti benestanti - artisti, professionisti, universitari - che vi sono trasferiti e i poveri locali, che pure resistono in alcune enclave. Le narcomafie, con la loro manovalanza locale immigrata e italiana, la fanno ormai da padrone. La spartizione delle piazze garantisce la pax mafiosa. Difficile, se non impossibile, oggi, tenere fede a quella regola ferrea che voleva spacciatori e droghe pesanti fuori dal «32» e da via dei Volsci. «Non l'abbiamo mica inventata noi Scampia, dove una dose di eroina o di cocaina costa pochi euro di più di una di marjuana - dice Nunzio D'Erme - E Scampia ora è arrivata fino qui».

Dunque, «l'idea che il lavoro politico sul territorio produca luoghi immuni alla violenza, al razzismo o al sessismo è una favola che non ci possiamo raccontare», fa notare Rino Fabiano. «Quello che è successo qui l'altro giorno accade purtroppo con frequenza nei condomini di case occupate. Stiamo parlando di persone che hanno conosciuto i riformatori giovanili o la galera, la violenza in famiglia o l'eroina». Ma a volte succede anche nelle palestre o nelle iniziative politiche, dovunque si intercetti il disagio delle periferie, ovunque si tenti di introdurre elementi di novità culturale in contesti proletari e marginali. Può succedere perfino in una partita di calcetto amatoriale tra squadre di diverse etnie, raccontano Fabiano e Nunzio D'Erme, seduti a ora di pranzo ad un tavolo del centro sociale insieme ad alcuni dei militanti del «32», prima di correre al lavoro. D'altronde, loro stessi sono «figli della strada». Rivendicano però con orgoglio, malgrado tutto - «malgrado il mercato, la spoliazione dei diritti e della cultura popolare» - le tante lotte di cui sono stati protagonisti e che senza il loro «controllo del territorio» non avrebbero potuto vedere la luce: dall'asilo nido ai campi estivi fino all'ultima occupazione, quella del Cinema Palazzo, sottratto a interessi speculativi che lo avrebbero voluto trasformare in un casinò. «Non solo antirazzismo di maniera».

Però, se il bicchiere è mezzo pieno, è pur sempre mezzo vuoto: «Se guardiamo ai militanti più giovani, è indubbio comunque un certo fallimento su cui dobbiamo interrogarci», riconoscono. «Oggi - continua Rino - la proposta culturale dei centri sociali è fruibile in qualsiasi locale, non c'è differenza tra chi frequenta un pub qui o al Pigneto e chi frequenta un centro sociale. Il fallimento è non aver cresciuto una nuova generazione politica; bisogna invece ristabilire il primato dell'impegno politico, rigenerare principi e idee, avvicinare le persone che sono alla ricerca di una vita migliore e più giusta». A cominciare dalle droghe, da quella legge Fini-Giovanardi di cui avevano previsto gli effetti ma a cui non hanno saputo far fronte. «Dobbiamo ricominciare a parlare di sostanze, di uso e abuso, senza scadere nel lassismo e nella ideologizzazione della cultura antiproibizionista che a volte degenera in esaltazione», conferma Nunzio.

«L'autogestione non è la panacea di tutti i mali - continua l'ex consigliere comunale - porta con sé i limiti e le contraddizioni dell'intera società». Senza dubbio, il loro lavoro «soffre di solitudine». Politica e culturale. Ma prendere atto del fallimento è già ricominciare. «È successo a tutti i movimenti di avanguardia, anche alle Black Panther, di accorgersi che a lavorare nella merda, la merda ti può fagocitare», commenta un giovane scrittore emergente molto vicino al «32» che non cerca protagonismi. Da discutere, però hanno ragione quando dicono che la storia del «32» non è molto differente da quella di altre esperienze della sinistra. «Se veniamo sconfitti noi, venite travolti tutti».

Paul Connett a San Lorenzo

«Nella città che cambia sempre più velocemente, dove gli effetti del malgoverno cittadino si sommano alle ordinarie dinamiche sociali di sfruttamento e alienazione, cambiano altrettanto velocemente le reti di relazione e il tessuto sociale delle comunità e dei singoli quartieri. In Via dei Volsci troppe attività hanno chiuso e quelle rimaste, a fronte di quotidiane difficoltà economiche e inutili vessazioni amministrative, conservano elementi di qualità nella proposta e di correttezza non formale nei rapporti di lavoro che ci spingono verso la loro tutela e salvaguardia». Per questo lo Spazio sociale Ondarossa Trentadue ha indetto una giornata di discussione. Mentre, per discutere un piano rifiuti adeguato alla città, l'appuntamento è per sabato 29 settembre presso la scuola Saffi di via dei Sabelli. Interverranno, tra gli altri, il presidente del municipio Roma 3, Dario Marcucci, e Paul Connett, docente della St. Lawrence University di New York.

Nel quartiere della fabbrica dei sogni

di Ylenia Sina

Fermare i licenziamenti, la speculazione ai danni del territorio e i tagli ai servizi sociali. Con queste idee ieri pomeriggio almeno mille e cinquecento persone hanno manifestato per le strade del Decimo Municipio di Roma. Dai lavoratori alle prese con delocalizzazioni, cassa integrazione e licenziamenti alle cooperative sociali, dai precari della scuola alle insegnanti dei nidi fino ad arrivare alle realtà sociali del territorio sostenute dall'amministrazione municipale rappresentata da Sandro Medici, il presidente che ha camminato a fianco dei manifestanti con la fascia da minisindaco.

Sono queste le diverse espressioni che hanno animato la giornata di "sciopero cittadino del X Municipio", con le adesioni di sindacati (Cgil, Camera del lavoro Roma Sud, Fiom, Unione sindacale di base e Cobas a cui si aggiungono le Rsu delle aziende locali) e una parte del mondo politico attivo nei circoli del territorio (Pd, Ecodem, Sel e Fds). «La scommessa è quella di declinare le questioni lavorative come elementi inseriti all'interno di un territorio che da un lato viene coinvolto e travolto da quanto accade al suo tessuto produttivo e dall'altro è sempre più indebolito dai tagli alla spesa sociale e dalla speculazione» spiega Cristiana Cortesi, consigliere municipale di Roma in Action.

La giornata di «sciopero territoriale» inizia la mattina con un'azione davanti alla Deutsche Bank, chiusa simbolicamente «contro il potere delle banche nel definire i destini dei nostri territori». Anche se l'appuntamento del pomeriggio è alle 17.30, due ore prima i manifestanti già iniziano a radunarsi in Piazza di Cinecittà, davanti alla sede del X Municipio, a ridosso di via Tuscolana. Ci sono le insegnanti dei nidi che denunciano «continui tagli che peggiorano condizioni di lavoro e il servizio alle famiglie». La Rete Roma Social pride e gli operatori delle cooperative sociali, alcune delle quali, fin dalla mattina hanno protestato «con uno sciopero bianco: abbiamo lavorato per un quarto d'ora in più» racconta un'operatrice che si occupa di assistenza agli anziani. Ci sono i precari della scuola che mercoledì sera hanno «occupato simbolicamente» la sede del municipio «non per opporci a questa amministrazione ma per chiedere di esprimere una posizione di netta contrarietà rispetto al concorso indetto dal ministro Profumo».

Quando i lavoratori di Cinecittà Studios, che proprio in questi giorni toccano da vicino l'avvio del piano industriale di «spacchettamento e delocalizzazione in diverse società» del presidente Luigi Abete, si uniscono ai manifestanti con un corteo nutrito e rumoroso, vengono accolti da un caloroso applauso. Per loro, dopo oltre tre mesi di occupazione e sciopero, proprio oggi «ci sarà un incontro tra la proprietà e i sindacati, motivo per cui abbiamo sospeso lo sciopero». Ci sono loro, i lavoratori degli studi cinematografici , quelli del call center di Almaviva al «nostro primo giorno di cassa integrazione avviata per 632 lavoratori perché l'azienda si sposta in Calabria» come spiega Andrea. Il corteo cammina su via Tuscolana (una delle principali arterie stradali della città). Il traffico si blocca, ma al passaggio dei manifestanti i balconi dei palazzoni da otto piani che chiudono ai lati la via, si riempiono di gente che ascolta e applaude alle parole che escono dalgli altorpalanti. E così accade per il resto del tragitto che continua all'interno del quartiere, fino alla conclusione in quella via Lamaro «che su un lato ha il muro della Fabbrica dei sogni romana e sull'altro la sede del call center di Almaviva». E proprio qui, quando ormai si è fatto buio, la manifestazione termina e inizia un'assemblea pubblica.

ARTICOLI CORRELATI

© 2024 Eddyburg