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Neal Peirce
Cambia il ruolo relativo di città e suburbio
3 Giugno 2012
Recensioni e segnalazioni
Ormai una piccola montagna gli studi che indicano la conclusione del ciclo di sviluppo decentrato territoriale. Virginia Times Dispatch, 3 giugno 2012, postilla. (f.b.)

Titolo originale: Roles of cities and suburbs shift– Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Quanto rapidamente stanno cambiando centri città, quartieri, regioni metropolitane? Siamo davvero davanti a una ripresa della città? E qual’è il futuro del suburbio? Tantissime le opinioni. Alcuni analisti prevedono una vivace e crescente ripresa dei centri città un tempo abbandonati, e contemporaneamente un remoto suburbio, là dove un tempo si “guidava fino a trovare il prezzo giusto”in pratica sospeso a un filo. Altri invece rispondono che America e suburbio sono diventati ormai sinonimo, che il nostro amore per lo spazio col tempo finirà per dare nuovo impulso a quegli sterminati insediamenti sparsi sino ai confini più lontani, indipendentemente dal lievitare o meno dei prezzi dei carburanti.

Se volete avere un quadro più chiaro, provate col nuovo libro di Alan Ehrenhalt, The Great Inversion and the Future of the American City (Alfred Knopf editore). Ehrenhalt è fra quanti propendono per una ripresa delle città. Sostiene molto il fatto che tanti giovani adulti oggi, in netto contrasto con le scelte dei loro genitori, optino per ambienti di vie urbane vivaci e fruibili a piedi con tanto verde, negozi, trasporti pubblici e scuole. Non si tratta solo però di una semplice ripresa della città. Fatto egualmente importante, nota Ehrenhalt, c’è un gran numero di afroamericani che si sta spostando nell’altra direzione fuori dalle città, verso gli ex suburbi bianchi. E anche ampie porzioni degli immigrati più recenti non replicano la tendenza storica di insediarsi nelle zone più centrali delle città, ma scelgono invece il suburbio.

Un ottimo esempio è quello offerto da Atlanta. Il centro città è sul punto di perdere la sua maggioranza di popolazione nera, con bianchi che immigrano e neri che emigrano. Ci sono due grosse circoscrizioni suburbane di contea nell’area di Atlanta, la Clayton e la DeKalb, che oggi sono diventate a maggioranza nera. E contemporaneamente una mescolanza di ispanici, seguiti da indiani, vietnamiti, sud coreani e altri immigrati dall’Europa orientale affluiscono verso una contea come la Gwinnett ai margini estremi della regione metropolitana, un tempo prevalentemente bianca. Oggi gli anglosassoni sono una minoranza, nella Gwinnett. E in gran parte le stesse dinamiche di popolazione si ripetono a livello nazionale. Sono raddoppiati negli ultimi dieci anni gli abitanti della zona sud di Manhattan, sotto il World Trade Center, sino a raggiungere le 50.000 unità dall’attentato terroristico del 2001 in poi. A Chicago il "Loop" affacciato sul lago è cresciuto del 48% in soli sette anni.

Si tratta di città che stanno assumendo il tipo di organizzazione demografica caratteristico dell’Europa ottocentesca: i ceti medi e più agiati fortemente presenti nel vitale centro storico, poveri e ultimi arrivati che abitano le periferie estreme. È quella che Ehrenhalt definisce la "grande inversione" e che divide le persone fra più fortunate che vivono nei centri urbani, e meno fortunate in periferia. Uno schema che si può verificare nelle città nel corso della storia, e in cui l’America da dopo la seconda guerra mondiale ha rappresentato la grande (forse momentanea) eccezione. Non si tratta però di una tendenza tanto semplice da invertire. Il suburbio ricco e consolidato non sta certo per spopolarsi. Si prevede per le aree centrali di città come Washington, Boston, San Francisco and Seattle uno stabile, crescente flusso di giovani, a cui si aggiungono agiati pensionati. Ma la stessa cosa non avverrà per tante Buffalo, o Detroit, o con quantità assai più modeste a Cleveland, Charlotte, St. Louis o Phoenix.

In tanti casi, nota Ehrenhalt, sono le amministrazioni a cercare deliberatamente di attirare giovani e ricchi. Ma con poche notevoli eccezioni l’incremento di popolazione — sinora — è stato “modesto in quantità assolute”. Ci sono parecchi ostacoli ad una rapida inversione di tendenza. Uno è la preoccupazione per la qualità delle scuole [nei quartieri urbani ex poveri, n.d.t.], anche se è verificato che essa tende ad aumentare (insieme alla tendenza agli istituti parificati in tutto il paese) con l’afflusso di ceti medi. Altro problema quello fiscale: le tasse delle città sono più alte, e incombe un carico ulteriore pensionistico. Ma oggi è comunque molto forte questa tendenza favorevole alla città. In primo luogo perché scegliere spazi più contenuti pare sempre più facile, con più single e matrimoni rinviati, un aumento delle coabitazioni, famiglie con meno figli della scorsa generazione. Poi c’è l’incremento dei pensionati in ottima salute e attivi anche in età molto avanzata.

Si aggiunga che sicurezza e qualità dell’abitare urbano sono davvero aumentati. Drastica diminuzione delle violenze casuali per le strade, e reati molto al di sotto dei livelli registrati negli anni ’70 e ‘80. I grossi complessi di edilizia pubblica che avevano prodotto tanta paura nell’America del dopoguerra – basta citare a St. Louis il Pruitt-Igoe, a Chicago Robert Taylor Homes o Cabrini-Green, a Baltimora Murphy Homes, e tanti altri — sono spariti sotto le ruspe delle demolizioni. Il che non vuol dire che tutto vada bene nelle grandi città. Esistono ancora ampie aree di devastazione urbana, come nella fascia nord di Filadelfia. Altrove — a New York il South Bronx ne è un esempio lampante — c’è ancora parecchia povertà ma si vedono confortanti segnali di ripresa. Una enorme differenza rispetto agli anni dai ’60 agli ’80: non si tratta di problemi esclusivi delle zone urbane centrali. Sono sempre di più i poveri, derelitti, che si spostano verso il suburbio, un tempo bianco e ricco . non si può più fare l’equazione suburbio = successo e neppure — lo dimostrano i giovani trasferendosi in centro — città = povertà.

postilla

Con buona pace dell’Autore del libro, e soprattutto del giornalista che l’ha recensito, sappiamo bene che il problema del rapporto città campagna, insediamento compatto contro modello disperso, energivoro ecc. va ben oltre quelle osservazioni di “mercato” prevalentemente immobiliare e contingenti preferenze negli stili di vita, per toccare cose assai più grandi, di cui la crisi climatica e la recessione economica (del tutto assenti nell’articolo) sono fra le componenti chiave. E del resto una certa schematicità nella lettura dei fenomeni emergeva anche evidente ad esempio quando si accostavano senza alcuna spiegazione gli interventi di case popolari del dopoguerra con l’ascesa dei reati, o l’implicita equazione sfigati=non-bianchi. Piccole polemiche a parte, quanto osservato dagli studiosi americani può e deve interessare sicuramente anche gli osservatori europei, non solo rispetto agli ormai riconosciuti aspetti ambientali dello sprawl, ma anche a quelli sociali (l’inversione di ruoli fra i due macro-gruppi), e infine al rapporto inestricabile fra modello di sviluppo territoriale e modello di crescita economica, nonché di organizzazione politica. Proprio su questi aspetti, per leggere un legame fra dispersione insediativa, recessione, economia globale, cicli capitalistici anche di lungo periodo, propongo una recentissima, breve ma convincente, video-intervista di David Harvey sul sito del Guardian (f.b.)

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