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Roberto Faenza
Sul cinema la dittatura del multiplex
21 Febbraio 2012
Il territorio del commercio
La desertificazione culturale descritta dal noto regista, è implicitamente accostata alla desertificazione urbana. Corriere della Sera, 21 febbraio 2012, postilla. (f.b.)

Caro direttore, in Italia sta accadendo qualcosa di grave, ma pochi ne parlano. Ci sono delle imprese che, dopo aver sloggiato centinaia di cinema dai centri urbani, stanno emarginando migliaia di cittadini soprattutto adulti, meno propensi a mettersi in auto per andare a cercare un film nei multiplex metropolitani. Il fiorire delle multisale, diventate il tempio del divertimento giovanile, si accompagna all'emarginazione dei film meno commerciali, privando così gli stessi ragazzi di un confronto con titoli importanti che puntano su impegno e qualità. Da notare che queste sale godono di finanziamenti a fondo perduto e non pochi benefici fiscali dallo Stato. In cambio di cosa? Certo il cinema, incluso quello dei grandi autori, è anche industria. Tuttavia se a dettare legge è solo il lato commerciale, sarà un guaio per tutti. Dichiaro subito di essere interessato perché sta per uscire un mio film e non posso non essere preoccupato. Ci sono nel cinema operatori ai quali poco importa del valore di un film, gente che misura a spanne le pellicole in rapporto ai soldi che possono fare.

Sigmund Freud diffidava proprio di costoro. A Hollywood gli avevano chiesto più volte di lavorare per loro. Non accettò mai perché riteneva il lato commerciale estraneo alla cultura. Lo disse chiaro e tondo a Samuel Goldwyn, fondatore della Metro Goldwyn Mayer, quando nel 1924 attraversò l'oceano per convincerlo a scrivere «una grande storia d'amore per il cinema». Da allora le cose sono peggiorate. Se all'inizio gli artisti prevalevano sui finanziatori (la United Artists nacque per volere di quattro attori e registi: Charlie Chaplin, Douglas Fairbanks, Mary Pickford e David W. Griffith), col tempo le cose si sono capovolte. Oggi il potere sta in mano solo a chi controlla il denaro.

Nell'industria del cinema c'è una lobby potente, che il pubblico non conosce. È quella degli esercenti. Questa categoria ha l'ultima parola sulla «tenitura» di un film, quanto tempo resterà in sala, dunque quanto incasserà. Il guaio è che se un film non monetizza sin dal primo weekend, può anche essere un capolavoro, ma la sua sorte è segnata. Non era così un tempo, quando l'esercizio partecipava ai costi di produzione e aveva tutto l'interesse a difendere lo sfruttamento sino all'ultimo centesimo. Sembra incredibile, ma il luogo principale dove si consuma il «bene» cinematografico non di rado è il più insensibile alla circolazione dei film migliori. Si tratta di una dicotomia insolubile. Ricorda certe storture dell'amore: «Né con te né senza di te».

Per molti autori la dura legge dell'esercizio sta diventando un'ossessione. I nemici del cinema, dicono, sono gli esercenti. Molti registi arrivano al punto di preferire Internet, pensando di trovarvi più libertà che in sala. Ma è un'illusione. Nulla in contrario al proliferare del successo di commedie, anche se sgangherate. Servono pure quelle. Ma può un Paese vivere solo di risate? Che circolazione avrebbero oggi capolavori comeUmberto D.di De Sica oProva d'orchestradi Fellini, stando al «gusto» prevalente delle multisale? Che cosa sta facendo il cinema italiano per impedire che il consumo uso e getta impedisca l'accesso a chi non vuole ridere soltanto?

Pongo il quesito soprattutto a chi impiega il denaro pubblico. Di fronte alla «dittatura» dei multiplex, il cinema pubblico (tra cui Rai e Cinecittà) dovrebbe occupare il terreno rafforzando la suamission. Il che significa dare un segnale forte per essere presente alla pari, offrendo agli spettatori le stesse opportunità dei film più commestibili. Lapar condiciovale solo per i politici? Basta fare un paragone con un Paese vicino. In Francia, dove la cultura è tenuta in massima considerazione, un film difficile ma importante comeUna separazione, in odore di Oscar, è stato visto da 846 mila spettatori in tutte le sale. Da noi solo da 77 mila in poche sale: i francesi sono undici volte più intelligenti di noi o c'è qualcosa che non va nella nostra distribuzione?

È la riprova che scommettendo su un buon film non si fa solo cultura: ci si può anche guadagnare. Il famigerato I soliti idiotipiazza sul mercato centinaia di copie? Fa benissimo. Ma perché non fare altrettanto con film meno consumabili, capaci di arricchire la mente dei ragazzi? Un'azienda pubblica deve certo guardare al mercato, ma anche porsi il problema di orientarlo, non di subirlo. Il principio vale per il grande come per il piccolo schermo. È come se in tv trionfassero solo i realitye venisse abolito tutto il resto. Speriamo che Mario Monti, nel mettere mano alla riforma, non cada ancora una volta nell'errore di pensare alle pedine e non ai contenuti.

Il furto più grave viene commesso proprio ai danni dei giovani. Di questo passo la legge dell' audienceinvaderà anche le scuole e le università. A furia di pensare solo a far ridere i ragazzi non finiremo per crescere una marea di italiani un po' troppo tristemente allegri?

postilla

Inutile girarci tanto attorno: la questione posta da Faenza dal punto di vista socio-spaziale è perfettamente identica a quella della grande distribuzione commerciale, e in quanto tale deve essere considerata. Scatoloni organizzativamente e culturalmente autoritari che risucchiano vita e attività dalle zone urbane, trascinando persone e sensibilità verso una specie di limbo. Senza contare naturalmente sia il contesto auto-orientato che i fattori di esclusione (ma anche, ahimè, di relativa inclusione e accessibilità che a volte, spesso, mancavano alla rete di esercizi tradizionali). In questo, come in tutti gli altri casi, la questione si pone in modo duplice: da un lato verificare cosa in effetti si debba e possa ragionevolmente conservare, delle attività economiche sociali e culturali, dall’altro a quali spazi esse debbano corrispondere, e a quali soggetti delegare la gestione: pubblici, privati, misti. Sinora la smisurata fiducia nelle capacità del mercato di autoregolarsi ha prodotto gli squilibri urbani, territoriali, socioeconomici che ben conosciamo, ma al tempo stesso l’auspicio che spesso emerge, al ritorno a forme che i nostri stessi comportamenti reali e consapevoli hanno respinto (dai consumi alle aspettative culturali e di relazione), pare non solo debole, ma ridicolmente regressivo. Una questione del tutto aperta, e che di nuovo rilancia l’idea di una gestione urbana assai più integrata e condivisa fra i vari approcci scientifici, tecnici e amministrativi. Neppure il cinema è più solo cosa da cinematografari o cultori, insomma (f.b.)

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