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Marco Revelli
Un giornalista dell'altra Italia
27 Dicembre 2011
Articoli del 2011
«La sua parola ci mancherà, enormemente, in questa difficile transizione». Il manifesto, 27 dicembre 2011

Cuneese di nascita e montanaro di natura, in montagna era salito subito per dar vita alla Banda Italia Libera, la prima formazione inquadrata nelle file di Giustizia e libertà. Partigiano e giornalista. Negli ultimi tempi, poi, «giornalista partigiano» tout court, in lotta aperta contro un revisionismo storico che marciava di conserva con il degrado morale e politico del Paese. Con Giorgio Bocca se ne va uno degli ultimi testimoni partecipanti di quella stagione alta della nostra vicenda nazionale da cui era uscita, selezionata nel clima rarefatto della montagna, una generazione di italiani diversi, segnati da un marchio indelebile, che avevano trasferito nella propria professione e nel proprio stile di essere cittadini quel loro modo «giusto» di essere stati nella Storia.

Giorgio, cuneese di nascita e montanaro di natura, in montagna c'era salito subito, d'istinto, il 12 settembre del 1943 quando, con un piccolo gruppo di ufficiali degli alpini di fresca nomina aveva raggiunto Frise, una piccola frazione sui contrafforti della Valle Grana, a un'ora di cammino da un'altra borgata abbandonata, Paraloup, dove negli stessi giorni si stava insediando il gruppo guidato da Duccio Galimberti e Livio Bianco. Nacque allora la Banda Italia Libera, la prima formazione partigiana italiana inquadrata nelle file di «Giustizia e Libertà». E da combattente «GL» Bocca si farà tutti i venti mesi di quella guerra spietata, due inverni durissimi e un'estate feroce, di rastrellamenti, di fame e di marce estenuanti: il suo personale e collettivo «romanzo di formazione». Appartiene dunque a quella «classe di leva» - la stessa di mio padre, la cosiddetta «gioventù del littorio» - per la quale la tragedia della guerra segna uno spartiacque radicale, che spezza la biografia, e nella sconvolgente presa di coscienza della vera natura del fascismo ne interrompe irrimediabilmente il filo di continuità - sociale, culturale e famigliare -, dividendo la vita in un «prima» e in un «dopo» inconfrontabili. Producendo in senso proprio un «nuovo inizio», che volenti o nolenti sarà per tutti quelli che erano passati per quell'esperienza un carattere impegnativo anche quando, deposte le armi, dovranno reinventarsi una «vita civile».

Per Bocca quel congedo significherà la diaspora, il passaggio dalla periferia piemontese alla «capitale» Torino, apprendista alla «Stampa», e poi a Milano, al «Giorno» di Italo Pietra. Ma il tono un po' ringhioso del «provinciale» e l'aria ribelle della montagna non l'abbandoneranno mai. Si porterà sempre dietro il tratto rustico, talvolta scostante, l'approccio rude al reale, persino cinico in qualche aspetto, e insieme il senso di appartenere comunque, per vicenda biografica e per etica acquisita, a un'«altra Italia», diversa da quella prevalente, servile, unanimista e conformista. Un «anti-italiano», nell'Italia che dopo la stagione dei fucili si accomodava, compiacente, nei propri antichi vizi.

Non amava i comunisti: li temeva per la brutalità e la spregiudicatezza dell'ideologia, li criticava per l'eccesso di tatticismo e disponibilità al compromesso (il libro su Togliatti è un testo dichiaratamente impietoso). Ma sapeva benissimo, per averli avuto a fianco nel momento del combattimento, che erano abissalmente diversi e infinitamente migliori di qualsiasi fascista (fosse anche uno in «buona fede»), e a quel giudizio si atterrà sempre, anche dopo la «caduta del muro». Conosceva perfettamente la condizione operaia, per aver bivaccato infinite notti a fianco dei giovani lavoratori arrivati in montagna dalla periferia torinese. Ma non nascondeva il fascino esercitato su di lui dalle promesse del neo-capitalismo, oggetto di una sua pionieristica inchiesta sui Giovani leoni della nuova industria italiana negli anni del miracolo economico.

Era un esploratore per vocazione e per naturale inclinazione, ciò che ne faceva, insieme alla scrittura asciutta ed essenziale da vecchio Piemonte, il grande giornalista che è stato, capace di scandagliare i caratteri dei propri interlocutori, ma soprattutto curioso fino all'estremo di tutto ciò che si muove negli interstizi del sociale, siano gli scostamenti nel costume o i segni dell'innovazione, le nuove forme della produzione o i processi sommersi del conflitto. Buona parte dei suoi 61 volumi - dal primo, Partigiani della montagna, pubblicato da un piccolo editore cuneese già nel '45, all'ultimo, Grazie no, d'imminente pubblicazione da Feltrinelli - testimonia di questo furioso bisogno di «vedere», sia che si tratti de La scoperta dell'Italia trasformata dal boom dei primi anni Sessanta (Laterza 1963) o dell'incipiente malessere della seconda metà degli anni Settanta (L'Italia l'è malada, L'Espresso 1977), del primo emergere di un razzismo fino ad allora sconosciuto (Gli italiani sono razzisti? , Garzanti 1986) o dello spaesamento del dopo-Tangentopoli (Il viaggiatore spaesato, Mondadori 1996)... Testi a volte discutibili, e aspramente discussi (penso al reportage dal Sud, visto con l'occhio del Nord), ma tutti frutto di un lavoro diretto di scavo. E di una volontà di capire che faceva in qualche modo da contraltare (e da compensazione) alla coriacea tendenza a non vedere e non capire della stragrande maggioranza della classe politica.

Era anche un giornalista «fedele». Al di sotto della scorza burbera e scostante, nutriva fedeltà profonde, come dimostra il suo rapporto con «Repubblica», iniziato fin dalla fondazione e mai «tradito». O il suo ritornare, ciclico, alla Resistenza, come alla terra delle origini, mai dimenticata. Si spiega così, con questo intreccio tra fedeltà e curiosità, tra continuità e innovazione, il pessimismo - sacrosanto - degli ultimi titoli: Voglio scendere! (1998), Il secolo sbagliato , (1999) Pandemonio. Il miraggio della new economy (2000), Il dio denaro. Ricchezza per pochi, povertà per molti (2001), Piccolo Cesare (2002), Basso impero (2003), Annus Horribilis (2010)...

Il fatto è che per il partigiano Bocca - come per tanta parte dei suoi antichi compagni del Partito d'Azione, come per Bobbio, come per Galante Garrone, come per Leo Valiani - questa Italia, l'Italia della fine del Novecento e del nuovo secolo - era diventata insopportabile.

Dal berlusconismo lo separava un'antitesi di stile, prima che politica. Nutriva per Berlusconi un'avversione di pelle, istintiva. Morale e umorale. In lui, l'antitaliano Bocca vedeva la sintesi dei peggiori vizi degli italiani (la "sintesi di tutte le nostre antitesi", avrebbe detto Piero Gobetti): quelli che ci erano costati la vergogna del fascismo e la tragedia di una guerra perduta. Per questo la sua parola ci mancherà, enormemente, in questa difficile transizione.

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