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Paul Ginsborg
65 anni fa. Chi liberò le città e salvò le fabbriche per costruire un’Italia nuova
16 Agosto 2011
La Resistenza
Per ricordare il 25 aprile, alcune pagine di un libro da leggere, «Storia d’Italia dalle Resistenza a oggi. Società e politica 1943-1988», Einaudi, Torino 1989

La resistenza e le riforme

[…] Se c'è un tema nella storia politica italiana del dopoguerra che si ripropone quasi ossessivamente, è proprio quello della necessità delle riforme e dell'incapacità di attuarle. Visti in quest'ottica, gli anni 1943-45 costituirono un'occasione irripetibile, a dispetto dei numerosi ostacoli esistenti. Il vecchio ordine su cui si fondava la società italiana era stato scosso fino alle fondamenta dalla sconfitta militare e dalla successiva invasione. I ceti piú poveri della campagna, spinti alla lotta dall'asprezza degli anni di guerra, chiedevano che fosse posto fine a secoli di sfruttamento e che si riformasse (intero sistema di possesso della terra e dei patti agrari. Gli scioperi di massa della classe operaia settentrionale non avevano un'ispirazione puramente antifascista e democratica. Scaturivano dalle condizioni materiali degli operai, dal freddo e dalla fame, ma anche dalle case degradate, dallo sfruttamento alla catena di montaggio, dalla mancanza di potere sul luogo di lavoro. Per loro la lotta contro i nazisti e la battaglia per una nuova dignità in quanto esseri umani, sia a casa che in fabbrica, andavano di pari passo. Le migliaia di italiani che si univano alla Resistenza non lo facevano solo per liberare il proprio paese, ma per trasformarlo. Essi erano pronti a sacrificarsi (dal momento che 1a probabilità di morte era estremamente elevata), ma salo per una nuova Italia, fondata sui principî di democrazia e giustizia sociale. Cosí scrisse ad esempio il ventiquattrenne Giaime Pintor al fratello nel novembre 1943, tre giorni prima di venire ucciso da una mina tedesca: « Oggi in nessuna nazione civile il distacco fra le possibilità vitali e la condizione attuale è cosí grande: tocca a noi colmare questo distacco»[1].

Questo enorme desiderio di riforme e queste potenzialità oggettive rimasero quasi completamente irrealizzate. Gli Alleati ne furono responsabili in non piccola parte: essi cercarono gli interlocutori piú arrendevoli e conservatori, non importa se inquinati da vent'anni di appoggio al fascismo. Gli inglesi non erano interessati a riformare, ma a restaurare. Lo stesso, in modo abbastanza comprensibile, era vero per il re e per Badoglio. Il colpo di stato del z5 luglio 1943, malgrado il successivo disastro dell'8 settembre, li aveva messi al comando di tutta la metà meridionale dell'Italia. I due anni di vita del Regno del Sud emarginarono il Mezzogiorno dai progressi del Nord, isolarono le proteste dei contadini meridionali, assicurarono la continuità della burocrazia fascista e soffocarono le fragili forze della democrazia del Meridione.

Qualche responsabilità per il fallimento storico di questo periodo, tuttavia, deve essere rintracciata anche all'interno dei partiti di sinistra, in particolare nel Partito comunista. Preoccupati di affermare la loro legittimità subordinando tutto all'unità nazionale, riluttanti a disobbedire alle richieste sovietiche di non provocare gli Alleati in Italia e infine scettici sul loro reale potere di contrattazione, i comunisti scelsero di giocare d'attesa. In questo modo raccolsero molti frutti, ma la riforma della società italiana non fu tra questi. […] [p. 64-65]

Salvate dalla Resistenza le grandi fabbriche e le città

[…] Le condizioni di vita nelle grandi città settentrionali continuarono a peggiorare per tutto il rigido inverno del 1944-I945. Mentre la temperatura scendeva a meno undici gradi, mancava il combustibile per il riscaldamento, non si riusciva a riparare le finestre scardinate dai bombardamenti aerei, c'era un'acuta penuria di cibo. La madre di Camilla Cederna scrisse da Milano ai suoi parenti che il proprio letto era diventato «il mio frigorifero notturno», raccontando in che modo doveva vestirsi prima di mettersi a dormire. Nei negozi mancava tutto, eccetto uno o due mazzetti di prezzemolo ingiallito, qualche caldarrosta e una gran quantità di un prodotto tipico del regime di Salò, una sorta di colla nauseabonda che veniva chiamata «formaggio Roma». Il mercato nero prosperava, ma i suoi prezzi erano proibitivi per la maggior parte della popolazione. Il numero assai elevato di casi di tubercolosi nell'immediato dopoguerra è un chiaro indicatore del livello di denutrizione sofferto in questi diciotto mesi di occupazione tedesca.

Nelle fabbriche si lavorava con la costante paura che uomini e macchine potessero venire spediti in Germania. Il 16 giugno 1944, reparti delle SS e delle camicie nere avevano circondato quattro fabbriche di Genova e costretto 1500 operai, ancora con la tuta, a salire su dei camion che erano in attesa. II giorno prima, a Torino, si era sparsa la voce che il reparto 17 di Mirafiorí - motori per aeroplani - sarebbe stato smantellato e trasportato in Germania. Tutti gli operai scesero in sciopero e rifiutarono di tornare al lavoro, malgrado le concessioni economiche fatte da Valletta perché lasciassero snidar via il macchinario da Torino. II 22 giugno un attacco aereo alleato distrusse completamente il reparto 17. Gli operai Fiat pagarono a caro prezzo la loro resistenza, ma i progetti tedeschi erano stati così vanificati. In altre occasioni l'opposizione operaia non ottenne lo stesso successo e una gran quantità di macchinario venne trasferita nelle relativamente sicure valli montane o in Germania stessa.

Le città del triangolo industriale furono colpite nell'inverno 1944-45 da una massiccia disoccupazione, in parte per mancanza di materie prime e in parte perché, a causa di un diffuso sabotaggio, produzione e occupazione erano drastica mente cadute nei primi mesi del 1945 Alla Fiat Mirafiori la produzione di autocarri scese fino a un minimo di dieci al giorno, rispetto a una media di settanta nei due anni precedenti. A Genova, nel gennaio 1945, il numero ufficiale dei disoccupati era di 11.871, ma le autorità fasciste informarono i tedeschi che la cifra reale era di 40 mila persone. II timore di essere deportati trattenne parecchi operai. dal registrarsi come disoccupati.

Le agitazioni operaie, benché fossero ininterrotte e danneggiassero pesantemente la produzione bellica, non raggiunsero mai il livello del marzo 1944. La principale ragione risiedeva nelle sempre piú avverse condizioni del mercato del lavoro, ma ebbe un certo peso anche la necessità di mantenere l'unità all'interno del Comitato di liberazione nazionale e di andare incontro ai desideri della Democrazia cristiana e dei liberali. In molti luoghi di lavoro i comitati di agitazione, formati esclusivamente da operai, erano subordinati ai CLN di fabbrica che comprendevano tanto í lavoratori che la direzione aziendale.

Negli ultimi mesi di guerra i gappisti aumentarono la loro attività. Essi venivano fiancheggiati dalle Sap (Squadre di azione patriottica), formate da normali operai che nelle ore libere dal lavoro facevano il possibile per preparare il terreno all'insurrezione nazionale. All'inizio del 1945 i quartieri operai di Torino erano piú o meno diventati zone proibite per fascisti e tedeschi.

Le rappresaglie contro le azioni dei gappisti furono sempre immediate e spietate. Una delle più note fu quella avvenuta il q agosto r 944 a Milano in piazza Loreto. Il giorno prima il Gap aveva fatto saltare un camion tedesco in città, con il risultato che quindici prigionieri politici, inconsapevoli del loro destino, erano stati prelevati all'alba da San Vittore e fucilati in piazza. I loro corpi furono abbandonati lí per l'intera giornata, esposti al caldo d'agosto, alle mosche, alla morbosa curiosità dei passanti.

Come giunse la primavera del r945 fu chiaro che il movimento partigiano era sopravvissuto, decimato ma intatto, ai terribili mesi invernali. II numero dei partigiani crebbe adesso con estrema rapidità, superando 1e centomila unità nell'ultimo aprile di guerra. Mentre il Terzo Reich veniva circondato a oriente dai russi e a occidente dagli anglo-americani, la prossima liberazione dell'Italia settentrionale divenne finalmente realtà.

Il carattere di questa liberazione fu oggetto di un profondo disaccordo fra gli Alleati e la Resistenza. Ferruccio Parri, recatosi al sud per discutere la questione, riferí che gli Alleati pretendevano per sé soli il diritto di accettare la resa dei tedeschi; essi inoltre esortavano i partigiani a non intraprendere azioni indipendenti ma a concentrare piuttosto le loro energie nel salvataggio del maggior numero possibile di installazioni elettriche e industriali dalla politica tedesca di «terra bruciata». Questo non era tutto. I progetti degli Alleati per la fine della guerra erano i seguenti:

«Trasferire e concentrare le unità partigiane in 30-40 campi; fornire ivi, a cura degli Alleati, la necessaria assistenza i.n modo da riposarle, rifocillarle, rivestirle; consegnare eventuali attestati e premi in denaro; ritirare le armi. Questo periodo, dopo il quale i partigiani verrebbero rinviati a casa loro, potrebbe prendere 3-4 settimane».

I partigiani, invece, avevano idee alquanto differenti. Pur concordando con gli Alleati sulla necessità di salvaguardare il patrimonio industriale dell'Italia, essi rifiutavano di accettare un ruolo secondario nella liberazione del Nord. I comunisti e il Partito d'Azione premettero perché si preparassero piani di insurrezione per le principali città, senza per questo voler contrapporre la loro autorità a quella degli Alleati o porre all'ordine del giorno la rivoluzione socialista. Il loro obiettivo era invece dimostrare il potere effettivo della Resistenza e porre fine all'occupazione tedesca in un modo che sarebbe stato difficile dimenticare. II 25 febbraio 1945 Togliatti telegrafò a Longp nel nord: «Bisogna lottare per l'annientamento totale di tutte le forze tedesche in Italia... contro ogni tentativo di frenare l'insurrezione contro gli occupanti con finte trattative per la capitolazione»'. L'insurrezione dell'aprile 1945 rappresentò 1a vittoria finale su tutte le tentazioni di attendismo militare.

Il 1° aprile 1945 gli eserciti alleati in Italia lanciarono la loro ultima offensiva contro le linee tedesche, puntando a una rapida penetrazione in tutta la pianura padana. La resistenza tedesca fu tenace, e il 13 aprile i1 generale Mark Clark ammoní i partigiani: «il momento per l'azione non è ancora arriva to». Tre giorni prima, comunque, i comunisti avevano già diffusa la famosa direttiva n. 16 in cui si ordinava ai propri militanti di preparassi all'azione insurrezionale. Txa il 24 e il 26 aprile, mentre gli Alleati erano ancora in Emilia, le città di Genova, Torino e Milano insorsero contro i nazifascisti. [p. 81-85. Omesse le note a p.p.]

I nazisti si arresero ai partigiani a Genova il 25 e 26 aprile. A Torino operai, partigiani scesi dalle montagne e cittadini combatterono contro i nazisti e i fascisti dal 26 al 28 aprile. A Milano la battaglia per la difesa delle fabbriche e la liberazione della città si svolse dal 24 al 26 aprile. Come già a Napoli nelle 4 giornate del 27-30 settembre 1943, la Resistenza liberò le città prima che arrivassero le truppe alleate. [n.d.r.]

[1] G. Pintor, Il sangue d’Euriopa. Scritti politici e letterari (1939-19439, a cura di V. Gerratana, Torino 1950, p. 187.


Nell'icona e nell'immagine qui sopra: i partigiani entrano a Torino. Archivio Franco Berlanda (il più alto al centro dell'immagine), che ringraziamo

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