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Edoardo Vezio; Salzano De Lucia
Controsenso napoletano
15 Luglio 2010
Pratiche di buongoverno
Vezio De Lucia discute con Edoardo Salzano. Meridiana, Rivista di storia e scienze sociali, n. 64, 2009. In calce il testo scaricabile

EDOARDO SALZANO - Nell’opinione corrente Napoli è un disastro. Rifiuti, camorra, sporcizia fisica e morale, inefficacia della politica, amministrazioni allo sbando e in rissa tra loro. Questa sono i tratti che sembrano caratterizzare, nel pensiero comune, Napoli e, per traslato, l’intera Campania. Questa immagine è mille miglia lontano da quella del cosiddetto Rinascimento napoletano, del quale tu fosti partecipe e co-protagonista. So bene che oggi si tende a semplificare, a schematizzare, a ridurre la realtà (che è sempre complessa e variegata) a una icona: una sola immagine, meglio se a tinte forti. Credo che chi vuole agire deve anzitutto comprendere, e formarsi della realtà una visione il più possibile compiuta. Oltre lo scuro, c’è nella realtà della Napoli di oggi qualcosa che sia anche luce? O la Napoli del Rinascimento è solo il ricordo di una realtà che è stata possibile, ed è scomparsa senza lasciare tracce?

VEZIO DE LUCIA - Da oltre un anno, da quando la questione dei rifiuti ha raggiunto dimensioni oltraggiose (e mai davvero risolte), e dopo l’ultimo scandalo sull’appalto global service al gruppo Romeo, molti osservatori – giornalisti, scrittori, intellettuali, specialisti di varie competenze, analisti della società e del costume – concordano nel ritenere irreversibile la decadenza di Napoli (e dell’intero Mezzogiorno). Ci restituiscono l’immagine di una vera e propria tragedia etica e politica, di una città senza speranza, soffocata dalle immondizie, dalla camorra, dal cattivo governo. Sono gli ingredienti che hanno contribuito al successo planetario di Roberto Saviano. Ritorna, è vero, di tanto in tanto, ma sempre meno convincente, il mito di Napoli che produce cultura, arte, musica, cinema e teatro, e resta la fede imperterrita negli ideali giacobini del 1799. Ma continua a mancare, secondo me, un’indagine approfondita sul funzionamento della città per comprenderne davvero la sua realtà politico-istituzionale. In antitesi alla crisi dello smaltimento dei rifiuti e ai recenti episodi di corruzione, c’è almeno un importante settore dell’apparato comunale che opera bene, anche se in condizioni di evidente isolamento, ignorato dall’opinione pubblica, spesso e volentieri criticato dalla stampa, mal sopportato dal mondo politico e da quello accademico. Mi riferisco agli uffici urbanistici del comune di Napoli che, nonostante tutto, lavorano in modo eccellente, e provo a darne conto.

SALZANO - Cerchiamo di ragionare su questo aspetto, questo settore. É un settore importante, perché forse più di altri più effimeri, o nei quali il Comune ha capacità d’incidere meno diretta, agisce fortemente sul futuro della città. Le trasformazioni territoriali, che la politica urbanistica deve gestire, sono tra le meno reversibili di tutte quelle che le politiche comunali possano governare. A che punto stiamo in questo campo?

DE LUCIA - Prendo le mosse da un recente intervento di Roberto Giannì, coordinatore del dipartimento urbanistica del comune di Napoli, che ha presentato un sintetico ma efficace bilancio dell’urbanistica partenopea degli ultimi anni . Ha fornito dati molto importanti: negli anni successivi all’approvazione della nuova disciplina urbanistica, gli atti abilitativi a qualunque titolo rilasciati (autorizzazioni, concessioni e simili) è passata da poche decine a circa 500 all’anno, quantità poi in parte ridotta con l’estensione della Dia (denuncia inizio attività) agli interventi di ristrutturazione. La maggioranza degli interventi riguarda il centro storico, dove vige una normativa basata sull’analisi e la classificazione tipologica, che consente interventi diretti, cioè senza il preventivo ricorso a piani particolareggiati, com’era invece indispensabile secondo il vecchio piano regolatore del 1972 .

Inoltre, negli ultimi quattro anni, sono stati approvati o sono in via di approvazione ben 38 piani urbanistici attuativi e altri grandi progetti urbani, quasi tutti a carico dell’iniziativa privata, mentre negli oltre 30 anni di vigenza del precedente piano non fu approvato neanche un piano particolareggiato. E’ stato stimato che queste sole opere comportano investimenti privati per circa 2 milioni di euro, e che l’insieme delle iniziative a vario titolo in attuazione del nuovo piano regolatore, determinerebbe un incremento del patrimonio di attrezzature di quartiere per una superficie di 280 ettari, circa il venti per cento del fabbisogno quantificato dal nuovo piano regolatore.

Non sono notizie di poco conto. Dimostrano che, in materia di attività edilizia, si sta consistentemente sviluppando un’iniziativa privata integralmente legale, attività che Napoli non aveva forse mai conosciuto prima, almeno non in questa misura, e sicuramente non negli ultimi decenni.

SALZANO - Quello che dici stupisce chi si basa sull’immagine stereotipa di Napoli che è data dai media di massa. Intanto, sui giornali ho letto cose molto diverse: si parla di un piano che ha “ingessato” Napoli, e in particolare il centro storico, che il Prg ha perimetrato con ampiezza, rifacendovi alle acquisizioni culturali di Leonardo Benevolo e Anntonio Cederna e ai principi della Carta di Gubbio. Mi sembra però particolarmente interessante la sottolineatura che fai dell’attività edilizia “legale”, come se questo fosse una novità per Napoli.

DE LUCIA - In effetti, il mezzo secolo che va dalla fine della seconda guerra mondiale alla metà degli anni Novanta si può pensarlo diviso in due periodi di uguale durata: fino al 1970 circa, l’attività edilizia era caratterizzata dall’essere apparentemente legale. Cioè, la grande speculazione che ha devastato il Vomero, Posillipo e il resto, quella degli scempi e delle mani sulla città, era la somma di edifici tutti dotati di licenza edilizia (allora si chiamava così), ma si trattava di licenze prevalentemente illegittime, cioè in contrasto con le norme vigenti, e quasi sempre i fabbricati erano per di più difformi dai progetti (illegalmente) approvati. Tutto ciò fu molto ben documentato dall’indagine sull’edilizia privata a Napoli, condotta nel 1971 dal ministero dei Lavori pubblici, indagine che purtroppo non ebbe la risonanza e non determinò le conseguenze (legge ponte, standard urbanistici) della più nota indagine sulla frana Agrigento del 1966.

Nel secondo quarto di secolo del dopoguerra (circa 1970 – 1995), a Napoli, l’edilizia privata apparentemente legale è stata quasi totalmente sostituita da due altre modalità che, negli anni precedenti, erano state marginali, mi riferisco all’edilizia abusiva, e all’edilizia pubblica. L’edilizia abusiva è del tutto diversa dall’edilizia speculativa dei decenni precedenti. Quest’ultima, seppure contaminata da fattori di illegalità urbanistico-edilizia, apparteneva pur sempre al mercato abitativo ufficiale; le imprese erano più o meno in regola e regolare era la compravendita degli immobili. Quella abusiva è invece un’attività criminale, direttamente o indirettamente connessa alla malavita organizzata. Ogni segmento del processo costruttivo era, ed è, contrario alla legge: dall’acquisizione delle aree al reclutamento e trattamento della manodopera, all’acquisizione dei materiali e dei mezzi di produzione, all’allacciamento e alle forniture dei servizi, alla vendita dei manufatti, e così di seguito. A Napoli, tra l’altro, non è mai esistito l’abusivismo chiamiamolo mutualistico, quello dei borghetti di Roma dei primissimi anni del dopoguerra, quello del neorealismo, l’abusivismo cosiddetto della domenica, quando intere famiglie di immigrati, per i quali era irraggiungibile il mercato abitativo ordinario (anche perché era ancora vigente la legge contro l’inurbamento), si aiutavano scambievolmente nella costruzione della proprie abitazioni “spontanee” . A Napoli, invece, l’abusivismo è stato quasi sempre espressione dell’imprenditoria delinquenziale.

Quanto all’edilizia pubblica, è bene ricordare che a Napoli ha spesso raggiunto risultati quantitativamente e qualitativamente significativi, a partire dal Risanamento . Ma negli ultimi anni, intorno all’edilizia pubblica opera una sorta di damnatio memoriae, oppure è stoltamente criminalizzata, come succede per le Vele di Secondigliano .

SALZANO - Ecco, le Vele a Scampìa. Nell’opinione corrente sono una delle brutture più pesanti, caso esemplare di un degrado sociale provocato dal tipo di insediamento. Qual è la tua opinione sulle Vele e sulla situazione sociale di Scampìa?

DE LUCIA - L’insofferenza per le Vele è analoga a quella manifestata in altre città d’Italia per quartieri più o meno coevi che hanno subito le stesse selvagge mutilazioni e sono stati oggetto di una irresponsabile gestione comunale: Corviale e Laurentino 38 a Roma, lo Zen a Palermo. Anche in quei casi si dà tutta la colpa agli architetti. Franco Ferrarotti ha scritto che Corviale resta “un monumento all’insipienza di chi ha scambiato i valori collettivi con la mancanza di rispetto per i diritti individuali”. È una bella espressione, ma ingenerosa, e forse sbagliata. È vero che si tratta di scelte architettoniche scomode, e oggi imbarazzanti, perché frutto delle speranze di riforma e di progresso che attraversarono l’Italia alla fine degli anni Sessanta. “La casa come servizio sociale”: da parola d’ordine dei cortei si pensò di trasformarla in pratica sociale, e con quell’idea si misurarono anche alcuni dei migliori architetti che hanno operato in questo Paese. Le Vele, lo Zen, Corviale, Laurentino 38 sono una coraggiosa configurazione di quella parola d’ordine e rara testimonianza degli ideali di un’epoca, poi travolti dal ripiegamento degli anni Ottanta. In altre società, e in altre epoche, la “monumentalizzazione” dell’edilizia ordinaria è andata a buon fine . E le cose potevano andare diversamente anche a Roma, a Napoli e a Palermo, se le amministrazioni comunali fossero state più energiche e consapevoli e non inerti, o forse complici.

SALZANO - Tu sei stato assessore alla vivibilità nella prima giunta Bassolino. Che cosa avrebbe potuto fare la giunta per affrontare il degrado delle Vele?

DE LUCIA - Secondo me, il difetto essenziale del quartiere Scampìa, di cui le Vele sono solo un dettaglio, dipendeva (e dipende) dal fatto che si tratta di un quartiere, anzi una circoscrizione intera, quella di Scampìa, fatta solo ed esclusivamente di edilizia pubblica. Ci sono solo case, nient’altro che case, e pochissimi servizi collettivi (solo con gli interventi per il dopo-terremoto gli abitanti hanno avuto un gran bel parco). Insomma, una specie di mostro. La nostra idea era di aggiungere altre funzioni, per quanto possibile importanti, pubbliche e private, prospettiva agevolata dalla bassa densità dell’insediamento e dalle possibilità di trasformazione (la demolizione delle Vele era solo una delle ipotesi). Contavamo anche sul fatto che la vicina fermata della metropolitana, collegando Scampìa al centro della città in tempi brevi, una volta inimmaginabili, avrebbe certamente reso meno complicato l’insediamento di nuove attività, e anche di abitazioni private. Debbo dire che la risposta dell’imprenditoria fu deludente. tante chiacchiere ma niente di concreto. un interlocutore importante fu invece l’università, e ricordo con riconoscenza e gratitudine l’allora rettore Fulvio Tessitore che accolse con entusiasmo l’ipotesi di affidare alla presenza degli studenti e dei docenti un ruolo decisivo nel riscatto del quartiere. Cominciammo a valutare la possibilità di trasferire due facoltà: agraria e biotecnologie. Molto, troppo lentamente, il disegno mi pare che sia andato avanti, almeno in parte. Nei giorni scorsi ho incontrato Vittorio Gregotti che mi ha detto di aver da poco consegnato al comune un progetto relativo alla facoltà di medicina per Scampìa.

SALZANO - Torniamo all’attività edilizia «legale». Allora, a Napoli il Prg ha incontrato l’interesse operativo dei costruttori onesti, quelli che in un altro contesto, a roma, Luigi Petroselli chiamava gli imprenditori che cercano «l’equo profitto», cioè che si affidano all’attività imprenditiva e non alla rendita. ricordo che un rapporto positivo con i costruttori napoletani era già stato sperimentato dall’équipe che ha lavorato al prg, e che allora riuscì a costruire una positiva e «pulita» collaborazione per la ricostruzione dopo il terremoto del 1980, a differenza di quanto allora avvenne nel resto della Campania.

DE LUCIA - La recente ripresa, a Napoli, dell’edilizia privata regolare, “pulita”, è indubbiamente una realtà rilevante. Chissà perché è sconosciuta, o è volutamente ignorata dai commentatori e dal mondo istituzionale. Non dagli imprenditori. La rassegna stampa comunale degli ultimi anni è fitta di articoli e di dichiarazioni di costruttori e di esponenti dell’associazionismo imprenditoriale che apprezzano l’azione amministrativa del capoluogo campano. Cito per tutti Ambrogio Prezioso, presidente dell’associazione costruttori che, all’indomani dell’approvazione del piano regolatore, esprime soddisfazione per la conclusione “di un lavoro lungo e difficile frutto di un’azione amministrativa tenace” e ricorda il contributo della sua categoria reso “con un energico spirito di cooperazione tipico di chi è consapevole che l’approvazione del Prg è fondamentale per ottenere certezze per il recupero della città, dal centro storico alle periferie” . Lo stesso Prezioso, intervistato da la Repubblica all’inizio del 2007, dichiara che “ora la pianificazione c’è e ci sono i progetti. Non resta dunque che ripartire” , e cita i trenta progetti presentati dalla sua associazione (e poi in parte approvati dal comune).

SALZANO - Il Prg non serve solo a regolare l’attività edilizia. Un problema molto pesante per gli abitanti – a Napoli forse più ancora che nella altre grandi città italiane dove non c’è una tradizione di buona urbanistica – è quello dell’accessibilità: l’esigenza della mobilità è cancellata dalla caoticità del traffico. La tua esperienza napoletana è cominciata, in occasione del G7 del 1994, con la scelta di adoperare i finanziamenti speciali per risolvere problemi ordinari. Tra questi, particolare evidenza ha avuto la pedonalizzazione di Piazza Plebiscito. L’eliminazione del traffico da questo luogo, fino ad allora congestionato e degradato, e la sua restituzione alla pienezza della vita cittadina è stato un risultato secondo me eccezionale. Ricordo che costò faticose discussioni, richiede una faticosa conquista del consenso all’interno stesso dell’amministrazione, e anche con categorie importanti della vita sociale della città. In che modo la questione della mobilità è stata affrontata nella successiva pianificazione, che conflitti e consensi ha provocato e quale esito ha avuto?

DE LUCIA - Certamente, alle informazioni sull’attività urbanistica ed edilizia bisogna aggiungere quelle relative alla realizzazione della nuova rete metropolitana. Una successione di atti sempre più perfezionati – il piano comunale dei trasporti del 1997, il piano della rete stradale primaria del 2002, e il cosiddetto piano “delle 100 stazioni” dello stesso anno – hanno orientato e determinato la progettazione e la realizzazione degli interventi. Il punto di partenza, nel 1994, erano due linee ferroviarie nazionali, due metropolitane (quella storica del passante ferroviario realizzato nel 1927 e le tre fermate della nuova linea 1), quattro funicolari, quattro linee tranviarie, per un totale di 45 fermate e solo cinque nodi di interscambio. Fra pochi anni la popolazione servita sarà raddoppiata (da 536 mila a 970 mila); sono previste dieci linee metropolitane, con 114 stazioni che formeranno 36 nodi d’interscambio ferroviario e 24 di scambio con parcheggi. Metà del programma è realizzato e si procede con inconsueta regolarità, operando in piena coerenza con le scelte urbanistiche, grazie in particolare alla tenacia di Elena Camerlingo che dirige l’ufficio studi e infrastrutture del comune.

Intanto, la restituzione ai pedoni di alcuni dei luoghi più congestionati della città e soffocati dalle automobili fa affiorare qualità perdute (da piazza del Plebiscito a piazza Cavour a piazza Dante). Dovrebbe essere cancellato lo scandalo delle strade interrotte da muretti in cemento armato in corrispondenza dei passaggi a livello (via Ferrante Imperato a S. Giovanni a Teduccio); sarà almeno in parte ricostruito il paesaggio del Miglio d’oro disastrato dalla linea ferroviaria costiera che ha isolato il mare dal retroterra. Infine, il litorale e il parco della nuova Bagnoli saranno direttamente serviti dalla rete su ferro.

SALZANO - Attività edilizia, mobilità, abbiamo affrontato due aspetti importanti della politica urbanistica napoletana. Ci sono altri aspetti che mi interesserebbe approfondire con te. La questione degli spazi pubblici, dei parchi, delle attrezzature civili. So che il piano ha dato il via a grandi progetti, come l’area ex industriale di Bagnoli e il grande sistema dei parchi urbani e territoriali, e le attrezzature già previste dal piano delle periferie che costituisce in qualche modo un’anticipazione del Prg. Mi sembra che a Napoli queste realizzazioni sono avvenute senza gli umilianti patteggiamenti che hanno caratterizzato altre esperienze, dove all’urbanistica “regolativa”, cioè comandata dalla mano pubblica, hanno preferito della contrattazione con la proprietà immobiliare, tra l’altro secondo modalità che hanno visto sempre le amministrazioni pubbliche subalterne rispetto agli interessi privati. Ti sarei grato se volessi fare un breve excursus sulle differenze tra l’esperienza napoletana e quella della altre grandi città italiane, da Milano a Roma.

Ma prima ancora, vuoi dirmi in che modo il Prg ha influito sulla rendita immobiliare? gli economisti dicono che la rendita è una dimensione economica insopprimibile, e che la questione sta nella risposta alla domanda: chi si appropria del valore determinato dalle decisioni e dagli investimenti della collettività, se il pubblico o il privato. Ma è certo che anche la pianificazione incide sul maggiore o minore valore dei terreni, quindi sull’incremento della rendita. Che cosa puoi raccontare a questo proposito?

DE LUCIA - Ho già raccontato altre volte che un momento molto importante della mia vita di amministratore, anzi, più in generale, della mia vita di urbanista, fu quando, una bella mattina, mi telefonò il direttore generale dell’Iri per dirmi che nel bilancio 2006 della società del gruppo Iri proprietaria di Bagnoli, la Cimimontubi, il valore dei suoli sarebbe stato ridotto di circa il 30%, per adeguarlo alle minori possibilità edificatorie consentite dal nostro piano urbanistico rispetto alle loro aspettative (non era solo un gesto amichevole nei nostri confronti, allora esisteva ancora il reato di falso in bilancio ...). Il fatto che un piano urbanistico abbia determinato non l’incremento ma la riduzione del valore dei suoli mi pare un risultato strepitoso, purtroppo raro. Che dimostra come il controllo pubblico della rendita sia lo strumento decisivo dell’urbanistica, senza il quale si disegnano pupazzi.

SALZANO - L’esperienza napoletana mi sembra coerente con quella degli anni della “buona urbanistica”, quella dei piani di Astengo (Assisi, Bergamo), Detti (Firenze), Piccinato (Siena, Padova), Campos Venuti (Bologna), ma assolutamente anomala rispetto a due riferimenti: rispetto al degrado degli altri aspetti della situazione napoletana, dai quali siamo partiti, e rispetto ai piani urbanistici degli ultimi tempi, degli anni craxiani e post-craxiani. Vogliamo dare uno sguardo a ciò che si è

fatto altrove?

DE LUCIA - Il contrasto fra il generalizzato decadimento della città e il buongoverno urbanistico emerge accentuato dal confronto con le vicende urbanistiche di altre importanti città italiane, caratterizzate dalla prevalenza degli interessi privati e dall’arretramento dell’azione pubblica o, nei casi peggiori, dal palese asservimento agli interessi fondiari e immobiliari. E forse una rapida analisi puà essere utile per comprendere meglio il caso napoletano.

SALZANO - Cominciamo dalla “capitale morale d’Italia”, da Milano, che a prima vista mi sembra l’esperienza più lontana da Napoli e dall’eredità culturale cui a Napoli avete fatto riferimento.

DE LUCIA - Il comune di Milano ha da tempo sostituito il piano con la somma dei progetti. All’origine della nuova urbanistica sta il documento Ricostruire la grande Milano, redatto nel 2000 dall’assessorato allo sviluppo del territorio. Il capoluogo lombardo non è mai stato un modello di rigorosa amministrazione del territorio. Non a caso, si chiamò “rito ambrosiano” (la definizione è di Pietro Bucalossi, ex sindaco del capoluogo lombardo e poi benemerito ministro dei lavori pubblici) la specialità milanese di piegare le norme al variare delle circostanze. La tradizione, grazie anche a nuovi provvedimenti regionali, ha raggiunto negli ultimi anni soglie estreme. In buona sostanza, progetti e programmi pubblici e privati non sono obbligati a uniformarsi alle prescrizioni del piano regolatore ma, al contrario, è il piano regolatore che si deve adeguare ai progetti. Il piano regolatore è diventato, così, una specie di catasto che registra le trasformazioni edilizie contrattate e concordate. Siamo di fronte a un possente rilancio della rendita e della speculazione immobiliare, mistificata come modernizzazione, con le conseguenze che si possono immaginare dal punto di vista morale e della trasparenza delle procedure. Come a Napoli, negli anni di Achille Lauro, quando si affermava che “il piano regolatore serve a chi non si sa regolare”.

L’esito più clamoroso del nuovo rito ambrosiano è il progetto dell’area ex fiera, poi battezzata CityLife, con i tre grattacieli di Daniel Libeskind (quello detto il Curvo, 170 metri), di Zaha Hadid (lo Storto, 185 metri), di Arata Isozaki (il Dritto, 218 metri). Fulvio Irace ha scritto che

come nella parodia di un film di Verdone; il «famolo strano» sembra infatti es- sere l’unica regola certa di una professione che ha rinunciato alla pretesa etica di governare la trasformazione riducendo il governo del territorio a un problema di audience di massa. tanto da far venire in mente, davanti alle pretese di una tale “modernità”, l’acre battuta di Noel Coward in Law and order: «non so dove stia puntando Londra, ma più si alzano i grattacieli, più si abbassa la morale» .

L’importo a base d’asta dell’intervento era di 250 milioni di euro; il progetto vincitore (Ligresti, Toti, Generali, Allianz) prevede un valore, e quindi una cubatura, più che doppi, con il conseguente dimezzamento degli standard urbanistici. La scelta del progetto, insomma, ha mirato a massimizzare l’utile, non a migliorare le condizioni abitative dei cittadini (com’è avvenuto, per esempio, con il riuso delle aree dismesse della fiera di Monaco) .

L’assegnazione a Milano dell’Expo 2015 sta moltiplicando le operazioni immobiliari. Secondo Alberto Statera “sono venticinque i grandi progetti, lottizzati tra i gruppi immobiliari con le immutabili regole del manuale Cencelli – tot a me, tot a te – che stanno cambiando lo skyline meneghino insieme a quelli del potere e delle ricchezze immobiliari d’Italia" .

il colpo di grazia è stato sferrato con la proposta dell’assessore allo sviluppo del territorio Carlo Masseroli di incrementare in modo generalizzato gli indici di edificabilità, con il virtuale incremento della popolazione da un milione e 300.000 a 2 milioni di abitanti, con vincoli e regole ridotti al minimo.

SALZANO - Certamente, Milano è un estremo nella storia della pianificazione delle grandi città italiane. Possiamo dire che Bologna e Firenze sono l’altro estremo, la testimonianza di politiche urbanistiche sagge e lungimiranti: basta ricordare Armando Sarti, Giuseppe Campos Venuti, Pierluigi Cervellati per l’una, Edoardo Detti per l’altra.

DE LUCIA - Per gli urbanisti della mia generazione Bologna era un mito. Era un mito la consulta urbanistica dell’Emilia Romagna (che anticipò gli standard urbanistici del 1968), erano un mito gli uffici urbanistici comunali, i piani regolatori e i piani di zona di città grandi e piccole, le scuole di Reggio Emilia, il piano per il centro storico di Bologna degli anni Settanta. Furono mitici Giuseppe Campos Venuti e Pierluigi Cervellati. Ma tout passe, tout casse, tout lasse, tout se remplace. Bologna si è accodata al declino dell’urbanistica progressista dell’ultimo quarto si secolo e non è mai stata rimpiazzata. Secondo me, l’ultima manifestazione del primato bolognese fu la comparsa sulla scena nazionale della Compagnia dei celestini, un’associazione di urbanisti, molti giovanissimi che, all’inizio del secolo, si fecero conoscere per le critiche dure e circostanziate che muovevano alla politica urbanistica cittadina e regionale. In particolare, s’impegnarono a documentare “il livello di ipocrisia progettuale e politica” degli interventi di riqualificazione urbana che hanno “riqualificato ben poco se non il valore immobiliare dei suoli sui quali si è costruito” .

Un esempio del malgoverno urbanistico bolognese è il programma di recupero e di riqualificazione urbana di via Due Madonne, nel quartiere San Vitale, a est della città, in un’area compresa fra la tangenziale nord e la ferrovia per Ancona. Con l’approvazione del piano regolatore del 1985, furono raccolte le osservazioni dei proprietari e, modificando le precedenti più modeste previsioni, fu decisa una destinazione dell’area ad attività terziarie e telematiche – il World Trade Center – con un indice di 0,7 metri quadri a metro quadro. Quando, nel 1997, il comune votò il bando per “programmi integrati aventi l’obiettivo del recupero e della riqualificazione urbana”, i proprietari chiesero un cambio di destinazione per costruire alloggi invece del World Trade Center. La proposta fu accolta e il progetto definitivamente approvato nel luglio 2000 autorizzò un complesso edilizio formato, tra l’altro, da sette edifici residenziali (altezza massima 18 metri).

Uno dei fabbricati è localizzato lungo la tangenziale, al fine di formare una barriera contro il rumore prodotto dal traffico. La convenzione prevede che una parte degli alloggi debba essere di proprietà pubblica e riservata a edilizia sociale. “Ma dove sarà collocata la quota di edilizia sociale? Proprio nell’edificio vicino alla tangenziale: saranno le abitazioni dei meno abbienti a fare da schermo antirumore per le abitazioni più ricche!” .

Recentemente Bologna sta sperimentando il ritorno alla pianificazione. Nel luglio 2008 è stato approvato il piano strutturale comunale cui farà seguito il piano operativo, come prescrive la legge regionale del 2000. L’intenzione è di integrare in un’unica strategia interventi di trasformazione e di riqualificazione. Forse per Bologna il peggio è passato, ma non sarà mai più come una volta.

A Firenze, al centro della bufera urbanistica che nell’autunno 2008 ha travolto il sindaco Leonardo Domenici e la sua giunta sta, ancora una volta, il progetto dell’area ex Fondiaria, oltre 180 ettari nella piana fiorentina, in località Castello, accanto all’aeroporto di Peretola, il progetto contro il quale si era scagliato, nella primavera del 1989, Achille Occhetto, ultimo segretario del Pci, mettendo in crisi il suo partito al governo della città. Fu un atto clamoroso, che in molti salutammo con entusiasmo. Faceva seguito a un importante discorso dello stesso Occhetto a favore della foresta amazzonica e per la riconversione ecologica dell’economia. Ci illudemmo di essere alla vigilia di una svolta risolutiva dell’urbanistica italiana, almeno quella di sinistra. Ma rapidamente tutto rientrò nella normalità, a Firenze furono riprese le proposte di prima con qualche aggiustamento e qualche mistificazione.

Dopo quasi vent’anni, la lottizzazione di Castello – intanto acquisita dal costruttore Salvatore Ligresti, dove sono previsti un milione e 400 mila metri cubi di nuova edificazione che comprendono la sede della regione e la scuola sottoufficiali dei carabinieri e circa 80 ettari di un parco-filtro ai margini dell’aeroporto – ha provocato una nuova gravissima crisi politica e giudiziaria. Sono stati inquisiti per corruzione il vicesindaco e un assessore, un altro assessore si è dimesso, si è dimesso anche il direttore de la Nazione a causa di compromettenti intercettazioni. Il piano strutturale (la prima parte del piano regolatore, secondo la legge urbanistica toscana) non è stato approvato. Il sindaco Domenici si è platealmente incatenato sotto gli uffici romani de la Repubblica per protestare contro alcuni articoli del quotidiano e del settimanale “l’Espresso” che criticano l’operato suo e dell’amministrazione fiorentina. Il tutto è cominciato nel settembre 2008, quando il patron della Fiorentina Diego della Valle ha presentato un progetto di Massimiliano Fuksas per un complesso di circa 80 ettari, battezzato cittadella dello sport, che comprende uno stadio da 50 mila posti, un centro commerciale, una galleria di negozi, un museo, un parco ricreativo del pallone, oltre ad attività ricettive e residenze. Dire di no al progetto sarebbe stato impopolare, ma dove trovare lo spazio disponibile? Comune e regione hanno proposto di utilizzare per il progetto Della Valle-Fuksas l’area destinata a parco nella lottizzazione di Castello, ma il consiglio comunale non ha approvato e tutto è stato rinviato alla prossima amministrazione, dopo le elezioni del giugno 2009.

Paolo Baldeschi ha scritto che “il caso Fondiaria è l’ennesima dimostrazione che a Firenze prima si stabilisce l’edificabilità di un’area in termini di metri cubi patteggiati con i privati e poi si cercano utilizzazioni che assicurino ritorni economici a breve termine. Da qui il balletto delle destinazioni dove predominano incoerenza e improvvisazione e un ingente spreco di denaro pubblico per progetti non realizzati” .

SALZANO - Veniamo alla capitale d’Italia. Roma ha sempre aperto strade alla pianificazione. Ricordo il Prg del 1962, che introdusse gli standard urbanistici e una prima sperimentazione del programma pluriennale d’espansione. E negli anni di Rutelli e Veltroni?

DE LUCIA - Il nuovo piano regolatore del comune di Roma, al quale si mise mano nel 1993, è stato approvato soltanto negli ultimi giorni dell’amministrazione di Walter Veltroni, alla vigilia delle elezioni del 2008 vinte da Gianni Alemanno. Nei tre lustri di governo del centro sinistra, la politica del Campidoglio è stata come quella di Milano, con l’aggravante dell’ipocrisia, si praticava la contrattazione contrabbandandola per politica di piano (pianificar facendo è slogan che ha accompagnato l’esperienza romana). Ma la colpa più grave dell’amministrazione capitolina è stata nel non aver posto alcun limite al consumo del suolo agricolo o in condizioni naturali, comunque non ancora urbanizzato. Roma perde abitanti da trent’anni, ma il nuovo piano prevede un incremento di circa 70 milioni di metri cubi (pari al 10 per cento del volume preesistente) e un’espansione di almeno 15 mila ettari (pari al 36 per cento del suolo precedentemente urbanizzato). Un’espansione quindi a bassa densità, in tutte le direzioni, che si salda ai comuni limitrofi. L’Agro romano, lo spazio che da sempre ha isolato Roma dal resto del Lazio, la più importante risorsa archeologica del mondo, è massacrato. Intanto il centro storico continua a espellere abitanti – che vanno a vivere in periferie sempre più lontane – cedendo spazio ad attività e servizi, in particolare turistici e commerciali, che hanno snaturato il cuore della città. Lavoro dentro, abitanti fuori, è questo il modello che si consolida ogni giorno di più, con conseguenze insostenibili in termini di tempo destinato agli spostamenti, di inquinamento, di stress, di malessere urbano.

Paolo Berdini ha raccontato e documentato compiutamente come si è sviluppata la vicenda romana : le aggiunte continue al piano in formazione, il ricorso agli accordi, alle intese, alle compensazioni, alle perequazioni, alla difesa di inesistenti diritti edificatori. È senza fine la lista degli istituti derogatori che si sono utilizzati per disseminare insediamenti in ogni dove, in genere anticipati da centri commerciali, sempre più grandi, negli ultimi anni se ne sono costruiti trentuno. Le critiche di Berdini sono state poi riprese e divulgate da un efficacissimo servizio di Report che ha sconcertato il mondo politico e l’opinione pubblica.

Accanto a Berdini e a Report, va ricordato il recente libro di Walter Tocci, vicesindaco di Roma dal 1993 al 2001 (sindaco Rutelli), poi autorevole parlamentare del partito democratico, che affronta le questioni cruciali della politica urbanistica della capitale, gli errori commessi, le occasioni perdute, la subordinazione agli interessi fondiari (“A Roma la forza unificante dell’economia del mattone ha sempre vinto sulle differenze degli ordinamenti politici”) . Secondo Tocci, a Roma si è formato “uno dei più grandi esempi di sprawl in Italia e per certi versi anche in Europa. È paragonabile a quello dell’area milanese e a quello del Nord-est, ma prende gli aspetti peggiori di entrambi, la forte gravitazione del primo e la bassa densità del secondo”. Il nuovo piano regolatore di Roma non è neppure un nuovo piano, ma un’ennesima variante di quello del 1962, di cui si condivide la forte geometria espansiva. “Attuare oggi quelle previsioni urbanistiche – scrive Tocci – è in un certo senso più grave che averle pianificate negli anni sessanta”: nessuno di noi, critici da sempre del piano di Roma, aveva osato arrivare a questa conclusione.

SALZANO - Torino mi sembra un caso un po’ diverso dai precedenti. Lì la pianificazione sembra essere ancora uno strumento adoperato con un certo rigore, sebbene anche lì ci sono molte critiche, sia nei confronti del Prg vigente sia, soprattutto, per la sua attuazione.

DE LUCIA - É vero, Torino è un caso molto diverso da quelli precedenti, ma vale la pena di parlarne soprattutto perché dimostra che la vigenza di un piano regolatore è comunque un fattore di garanzia e di trasparenza. Mi riferisco in particolare al modo in cui si è sviluppata negli ultimi anni la contrastata vicenda dei nuovi grattacieli proposti nelle aree centrali di Torino in contrasto con il piano regolatore approvato nel 1995. È un piano che aderisce dichiaratamente a un modello di sviluppo post-industriale, assumendo la produzione dei servizi come settore portante dell’economia cittadina. Prevede infatti il sostanziale azzeramento delle aree industriali, sostituite da quasi 900 ettari di attività terziarie. La cosiddetta Spina Centrale (un lungo corridoio in direzione nord-sud, a cavallo del passante ferroviario interrato) è il luogo privilegiato per l’insediamento di nuove abitazioni e di funzioni rare e di comando, con l’aspirazione ad assumere rilevanza simbolica a scala nazionale e internazionale. Non sono mancate contestazioni alla filosofia e alle scelte del piano L’assenza di riferimenti all’assetto dell’area metropolitana; il riconosciuto protagonismo della grande e piccola proprietà fondiaria; il rafforzamento del ruolo dominante del centro cittadino a svantaggio di un equilibrato rapporto con il territorio regionale; il ricorso a densità insediative abnormi: sono queste le critiche prevalenti e più convincenti .

Ma qui interessa porre in rilievo che, a differenza di Milano e di Roma, nell’esperienza del capoluogo piemontese non è mai stato in discussione il rispetto del piano, né si è fatto diffusamente ricorso a istituti derogatori. La lunga e partecipata discussione a proposito dei grattacieli si è sviluppata intorno alla necessità o meno di apposite varianti allo strumento urbanistico, senza scorciatoie. Il riferimento condiviso al piano regolatore è la ragione, secondo me, dei buoni risultati ottenuti dall’opposizione ai grattacieli. Com’è noto, l’unico per ora approvato è il grattacielo Intesa-San Paolo a Porta Susa (altezza 180 metri), a lato della Spina Centrale e le procedure seguite sono state quelle di un’ordinaria variante al piano regolatore (che limitava l’altezza a 70 metri). Il movimento sviluppato intorno al comitato “Non grattiamo il cielo di Torino” è esemplare e dispiace che qui possiamo ricordarlo solo con brevi cenni. A favore dei grattacieli si erano dichiarati il sindaco Chiamparino (“C’è chi vorrebbe vedere in città ancora pascolare le pecore”) e la presidente della giunta regionale Mercedes Bresso (“Chi è contrario pensa ancora ai dinosauri”) ma l’opposizione a mano a mano più vigorosa alla fine ha raggiunto risultati all’inizio impensabili. È stato ripetuto che la Mole Antonelliana, piaccia o non piaccia, fa parte della storia di Torino, e il suo rapporto con lo sfondo delle Alpi e con la città non possiamo “superarli” con una nuova immagine che oblitera quella che abbiamo ereditato. Non è nella disponibilità della nostra generazione, ce lo inibisce la nostra cultura: altroché sostenitori delle pecore in piazza San Carlo.

Grazie alla forza e alla qualità del movimento, dopo l’approvazione del grattacielo Intesa-San Paolo, il consiglio comunale ha accolto una delibera di iniziativa popolare di sostanziale moratoria sui progetti di grattacieli. Vi si legge infatti che “in tutto il territorio comunale, fatti salvi gli interventi già autorizzati con specifici provvedimenti (grattacielo San Paolo, n.d.r), non dovranno essere consentite nuove edificazioni, o sopraelevazioni, che superino l’altezza di m. 100, fatti salvi i limiti più restrittivi già previsti”. In un ambito più ristretto intorno alla Mole Antonelliana, sono consentite altezze massime di 80 metri.

SALZANO - Mi sembra che dal confronto con le politiche urbanistiche delle altre grandi città quella napoletana appare chiaramente come un’anomalia: un’anomalia positiva, una volta tanto. La prima domanda che scaturisce da questa analisi è: come mai nessuno sembra accorgersene? Come mai questa orrenda semplificazione, che di Napoli vede solo il brutto e lo sporco?

DE LUCIA - Non so se le informazioni raccolte nel paragrafo precedente sulle città italiane dove si pratica correntemente l’urbanistica contrattata sono note a coloro che criticano l’esperienza napoletana. Certo è che a quanti decantano le magnifiche sorti e progressive del modello romano o di quello milanese, a quanti si appassionano alla gara a chi il grattacielo ce l’ha più lungo o più storto: a tutti costoro una vicenda come quella napoletana, fondata preminentemente sulla correttezza amministrativa e sull’equilibrato rapporto fra imprenditori e uffici comunali, deve evidentemente apparire come affetta da arretratezza e da rifiuto della modernità.

Uno che dissente esplicitamente dall’urbanistica napoletana è il direttore del Corriere del Mezzogiorno, Marco Demarco. Sul suo giornale, commentando il crollo di un edificio a Montecalvario nel luglio 2008, ha scritto quanto segue.

“Sarebbe fin troppo facile, ora, polemizzare con quanti, nel tempo, si sono tenacemente opposti a ogni progetto di modernizzazione urbanistica della città, e in nome di una conservazione del patrimonio edilizio hanno favorito il dilagare del degrado e dell’abusivismo. Non è il caso di riaprire vecchie ferite. E tuttavia una questione va posta. Ed è la seguente. Da oltre un quarto di secolo un gruppo di urbanisti e di architetti rappresenta la continuità nel governo urbanistico della città. È quel gruppo definito, in un recente libro di Gabriella Corona, «I ragazzi del piano». Del piano regolatore, per intenderci. Da quando questo gruppo governa di fatto la città si sono succeduti sindaci comunisti e di pentapartito, Bassolino e Iervolino. Convinti della produttività economica e sociale dell’ambientalismo, i ragazzi del piano si sono strenuamente battuti perché non un mattone si eliminasse o si aggiungesse nel centro storico, e perché nulla prendesse forma a Bagnoli. A loro va posta una sola domanda: è questa la città che avevate in mente? Perché se è questa, è bene che si sappia che non è una bella prospettiva passare dai cumuli di immondizia ai cumuli di macerie” .

SALZANO - Perché dai tanta importanza a un intervento come questo? Espime in modo abbastanza piatto un’ideologia corrente: ciò che serve è la “modernizzazione”. Modernizzerebbero anche il Partenone. Non hanno capito niente dell’importanza della storia rappresentata nella materialità del territorio, ai fini della conosccenza del mondo in cui viviamo e della nostra capacità di trasformarlo. Bisognerebbe invitarli a leggere il bel libro di Piero Bevilacqua sulla “Utilità della storia”. Ripeto, perchè ti riferisci a questo brano?

DE LUCIA - Semplicemente perché Demarco enuncia critiche cir- costanziate e il suo testo possiamo assumerlo come rappresentativo del pensiero di altri detrattori dell’urbanistica napoletana che non perdono occasione per affermare che il piano ha «ingessato» napoli e in particola- re il centro storico. uno fra i più tenaci è paolo Macry, che talvolta se la prende personalmente con me. altri dichiarati avversari del piano sono gli economisti Mariano D’Antonio e Massimo Lo Cicero e l’attuale assessore regionale alla Cultura Claudio Velardi. Comunque, prima di replicare a Demarco, è bene ricordare che «i ragazzi del piano» sono un gruppo di tecnici, funzionari comunali, che cominciarono a lavorare insieme negli anni dell’amministrazione di Maurizio Valenzi (quando erano davvero ragazzi), e si deve a essi, come hai ricordato, il cosiddetto «piano delle periferie», approvato dal Consiglio comunale prima del terremoto del novembre 1980 e poi in larga misura realizzato con gli interventi per la ricostruzione post-sismica (di cui si occuparono gli stessi «ragazzi del piano»). Con la prima amministrazione Bassolino hanno partecipato alla formazione del nuovo piano regolatore e sono attualmente impegnati nella sua attuazione. rappresentano quindi un raro esempio di consolidata continuità tecnico-amministrativa, una delle ragioni dell’efficacia dell’esperienza urbanistica napoletana..

Torniamo all’articolo di Marco Demarco e proviamo a rispondere, punto per punto. In primo luogo, la conservazione del patrimonio edilizio, scrive Demarco, favorisce il dilagare del degrado e dell’abusivismo. Una tesi sbalorditiva, assolutamente infondata, l’abusivismo fiorisce laddove è tollerato dai pubblici poteri, indipendentemente dalle politiche di conservazione o di espansione. A Roma, dove, com’è noto, l’attività edilizia ha avuto uno sviluppo vertiginoso e i problemi della tutela del patrimonio storico sono affrontati con disinvoltura – basta ricordare il contestatissimo nuovo involucro dell’Ara Pacis sul lungotevere di Ripetta o lo sventramento del Pincio per ospitare un megaparcheggio (opera quest’ultima poi bloccata dal sindaco Alemanno) – a Roma, le domande del condono 1994-2003 sono state più di 85.000, una quantità inverosimile, quasi la metà dell’abusivismo nazionale, mentre, a Napoli, sono state circa ottomila.

In secondo luogo, Demarco sostiene che i ragazzi del piano si sono strenuamente battuti perché non un mattone si eliminasse o si aggiungesse nel centro storico. Ma abbiamo ricordato sopra che la maggioranza delle domande di atti abilitativi approvate in vigenza della nuova disciplina urbanistica (consistentemente aumentati rispetto all’ancien régime) riguardano il centro storico. Proprio quel centro storico che durante tutti i decenni di vita del vecchio piano regolatore del 1972 era rimasto, allora sì, del tutto bloccato. Perché Demarco non si informa? Primo requisito del buon giornalista non dovrebbe essere la completezza e la qualità delle sue informazioni?

Ed eccoci al progetto Bagnoli che, secondo Demarco, non prende forma sempre per colpa dei ragazzi del piano. Ma egli sicuramente sa che – dopo l’approvazione del piano particolareggiato redatto dagli uffici comunali – l’operazione Bagnoli è gestita da una società ad hoc, caratterizzata soprattutto dalla lentezza esasperante con la quale opera. Da almeno un lustro il parco di Bagnoli doveva essere una realtà, si continua invece a tergiversare. Secondo me, la verità è che, in fondo, aldilà delle dichiarazioni rituali, quasi nessun esponente del Palazzo condivide davvero il progetto Bagnoli e si cerca l’occasione buona per rimetterlo in discussione. Ben due autorevoli soggetti, il Cresme e Rothschild-Acb Group, furono incaricati di verificare se le previsioni del vigente piano particolareggiato fossero davvero vantaggiose per l’interesse pubblico, anche dal punto di vista economico e finanziario, e i risultati furono nettamente positivi. Ciononostante, ogni occasione è buona per proporre incrementi di cubatura. Negli anni passati, la Coppa America parve fatta apposta per rimettere in discussione il progetto. Una caterva d’incompetenti, economisti da passeggio, giornalisti e architetti in lista d’attesa, continuarono a ripetere che 120 ettari di parco pubblico a Bagnoli erano un’esagerazione, che quello spazio doveva essere dato a chi sapeva farlo fruttare, che il portafoglio viene prima del verde pubblico, che il comune di Napoli non può sprecare le poche risorse di cui dispone per contentare i capricci di qualche anima bella. Già in altra occasione ho ricordato che a Ferrara, città di circa centocinquantamila abitanti, è prevista ed è in attuazione la cosiddetta “addizione verde” (in pendant all’“addizione erculea” di Ercole d’Este), un parco territoriale di 1.200 ettari, dieci volte più grande del previsto parco di Bagnoli. Il quale non è un lusso, è un’infrastruttura essenziale perché Napoli sia una città moderna. Non meno della metropolitana. Se Napoli non recupera posizioni nella graduatoria della vivibilità, dell’efficienza e della trasparenza, non esiste alcuna prospettiva di progresso economico e sociale.

Sia consentito infine chiedere a Demarco – e voglia scusarmi se continuo a utilizzarlo come interlocutore di comodo – se non ritiene che sia sbagliato, e anche pericoloso, sottovalutare l’indiscutibile trasparenza con la quale è gestito, a Napoli, un settore di fondamentale importanza come quello dell’urbanistica e dintorni. Non pensa Demarco che, in una città strozzata dalla camorra, dove vasti apparati della pubblica amministrazione sono inquinati da presenze malavitose o squalificati da amministratori disonesti, in una città nella quale, insomma, la questione morale si pone come determinante, il buon governo urbanistico, quasi anomalo nel panorama nazionale, non dovrebbe essere più puntualmente e favorevolmente segnalato ai lettori e all’opinione pubblica?

SALZANO - Vorrei concludere facendoti due domande, che mi si sono affacciate più volte nel corso delle tue riflessioni. La prima. Come mai l’urbanistica napoletana ha potuto svilupparsi così positivamente, il progetto di città che avevate configurato nel 1994 con il documento preliminare e la strategia allora delineata hanno potuto svilupparsi così compiutamente nonostante il degrado politico e amministrativo che vi circondava? Come mai quella strategia ha potuto superare indenne le fasi critiche che pure si sono manifestate nel passaggio dalla prima alla seconda giunta Bassolino? Devo dirti che a Venezia ho vissuto un’esperienza del tutto diversa. Lì avevamo ottenuto l’adozione di un piano per la città storica, faticosamente redatto con con Edgarda Feletti e Gigi Scano, che al mutar del clima culturale (la maggioranza politica era rimasta la stessa) è stato travolto dalla deregolamentazione. Lì ci ha certamente indeboliti il fatto che non c’erano i “ragazzi del piano”, cioè una struttura pubblica altamente qualificata, fortemente motivata, resa coesa dalle esperienze accumulate insieme. Ma anche la scarsa capacità di aggregare attorno al nostro progetto interessi sociali, necessità dei cittadini, speranze degli abitanti realmente consistenti. Il nostro collegamento con la società passava quasi esclusivamente attraverso i partiti (anzi, il partito), e una unità politica più larga che abbracciava quasi tutte le formazioni politiche presenti su alcuni grandi temi. Ecco allora la seconda domanda: a quali condizioni pensi tu che l’esperienza napoletana possa proseguire positivamente?

DE LUCIA - Non vi è dubbio che il sostanziale isolamento nel quale si sviluppa l’esperienza urbanistica napoletana determina condizioni di fragilità e, alla lunga, spinge su un binario morto, esponendo quell’esperienza a ogni rischio. Come successe nel 2003, al tempo del piano territoriale di coordinamento della provincia. Che avrebbe potuto e dovuto riprendere e rafforzare le linee del piano regolatore di Napoli, affrontando soprattutto le questioni non risolvibili in ambito comunale. Imboccò invece la strada del sacco edilizio, riannodando i fili della peggiore tradizione cementifera. Adottato con il consenso di tutti i partiti del centro sinistra, il piano provinciale prevedeva l’urbanizzazione di aree agricole della penisola sorrentina, del Vesuvio, dei Campi Flegrei, delle isole del golfo, in totale ben 25 mila ettari. Ma qui interessa soprattutto ricordare che anche quei brandelli di spazio miracolosamente scampati al massacro dentro il comune di Napoli – a Posillipo, allo Scudillo, nel vallone S. Rocco, nella piana del Sebeto, nella conca di Agnano, nella zona delle masserie di Chiaiano – e che il nuovo piano regolatore destina a parco regionale, sarebbero finiti sotto il cemento e l’asfalto. La catastrofe fu sventata grazie al tempestivo intervento di Italia nostra e Wwf e alla determinazione di Antonio di Gennaro che raccolse anche in un piccolo libro la cronaca della tentata strage, con splendide immagini dei beni a rischio .

in conclusione riprendo la questione dell’anomalia e del controsenso dell’esperienza napoletana rispetto a ogni altra situazione nazionale di scala equivalente. Ho ascoltato al Città territorio festival di Ferrara un memorabile intervento di Raffaele Cantone, il giudice bravo e coraggioso, profondo conoscitore della malavita dei nostri paesi. Secondo lui, la corruzione meridionale risiede in larga misura negli apparati pubblici, più ancora che nel personale politico. Quest’ultimo è soggetto a cambiamenti frequenti, anche repentini, mentre i funzionari sono gli stessi per lunghissimi periodi di tempo. Ed è lì, e specialmente negli uffici che si occupano di edilizia e di urbanistica, che si annidano le collusioni con la camorra, che si favorisce l’abusivismo, che si allestiscono devastazioni e scempi. nel comune di Napoli tutto ciò non succede, però – ed è questo l’aspetto inquietante – la buona amministrazione urbanistica napoletana non ha generato eredi. nessuno dei comuni circostanti ha seguito l’esempio del capoluogo, che resta isolato, anzi accerchiato dal vasto hinterland nel quale la pianificazione non viene praticata. Le responsabilità della politica regionale sono innegabili. La Campania e il Lazio sono le uniche regioni in cui decine di comuni non si sono mai dotati di un piano regolatore e dove i piani vigenti sono in prevalenza vecchissimi e snaturati dalle varian- ti e dalla malaurbanistica. Sono due facce della stessa medaglia. il disastro della Campania (e dell’intero Mezzogiorno) è figlio della stessa cultura politica che non valorizza, o addirittura ignora l’esperienza urbanistica napoletana, mal sopportata da molti amministratori e accusata dalla stampa, come abbiamo visto, di inaudite responsabilità. Come se ne volesse la omologazione allo standard medio circostante.

Infine mi hai chiesto a quali condizioni penso che l’esperienza napoletana possa proseguire positivamente. Mi sembra che l’intera nostra conversazione abbia posto in luce il progressivo affievolimento dell’azione politica riguardo all’urbanistica di Napoli. Questa è ormai quasi tollerata e forse subita, comunque è affidata alla sola iniziativa del gruppo dirigente tecnico. Se non si torna a una stagione di autentica ripresa del protagonismo politico nel governo della città, e più in generale nella politica sociale ed economica, l’esperienza napoletana è destinata certamente a estinguersi. Ma forse, grazie agli sconvolgimenti provocati dall’attuale crisi dell’economia planetaria, tutto torna in gioco, e anche l’urbanistica di Napoli potrebbe avere un migliore destino.

Questo dialogo tra De Lucia e Salzano ha avuto luogo nell’ottobre del 2008, e quindi non tiene conto di sviluppi successivi molto rilevanti per le questioni trattate, in particolare non era stata ancora approvata dalla regione Campania la legge regionale che espone anche la città di Napoli al rischio di una nuova manomissione.

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29 Settembre 2010

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