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Edoardo Salzano
20100408 Italia, un Paese di commedianti
30 Luglio 2010
Interventi e relazioni
Un’intervista di Giovanni Pivetta, per la rivista online House, Living and Business, 8 aprile 2010

La voce critica di Eddyburg, Piano Casa, Housing sociale e progetti delle Archistar. - L'urbanistica democratica, gli abitanti hanno diritto a vivere in città possibili

Edoardo Salzano, professione urbanista. Una vita da intellettuale comunista, un cattolico laico che vive la politica come attivazione morale e che ha difeso, come amministratore, l’urbanistica dall’assalto di una politica senza più etica. Dal 2003, dopo aver redatto piani regolatori in tutta Italia e dopo aver insegnato all’Istituto Universitario di Architettura di Venezia per oltre due decenni, Salzano dedica la sua vita alla divulgazione di un’urbanistica del piano, soprattutto attraverso eddyburg.it, dove vengono lanciate anche campagne contro lo sfruttamento del suolo e il consumo dello spazio pubblico. Oggi, dopo il significativo contributo del 2007 con la pubblicazione di Ma dove vivi? La città raccontata - Editore Corte del Fontego, 2007 - ottuagenario ci lascia le sue Memorie di un Urbanista - Editore Corte del Fontego, 2010 - per ricominciare con nuovo slancio l’impegno della vita, è stato appena eletto presidente della Rete dei comitati e delle associazioni per la difesa del territorio e dell’ambiente del Veneto.

Lo hanno spesso etichettato quale illuminista giacobino insomma un ispiratore, in urbanistica, del Regime del Terrore - ma per dirla con Michel Foucault - Il terrore non esiste solo quando alcune persone comandano altre e le fanno tremare, ma regna quando anche coloro che comandano tremano, perché sanno di essere presi a loro volta, come quelli su cui esercitano il potere, nel sistema generale dell’obbedienza. A questo proposito vi invitiamo a leggere un illuminante articolo del 1992 Affari & Urbanistica. Gli strumenti urbanistici di Tangentopoli che ci racconta una storia attualissima dell’urbanistica italiana, un attraversamento guidato nell’Italia da prima delle “mani sulla città” allo “svillettamento” padano; dalla proposta di legge Sullo ( il disegno di legge Sullo è pronto nel giugno 1962) all’urbanistica contrattata; dall’idea di piano agli immobiliaristi, al pari del suo ultimo saggio Memorie di un Urbanista.

Ma chi è Edoardo Salzano, è un uomo che pensa il mestiere dell’urbanista come quello del diplomatico, non ammette l’esistenza di interessi privati. Ha un’idea precisa: la città, le decisioni sulle trasformazioni territoriali vanno sottoposte a processi decisionali pubblici. La stessa idea della pianificazione urbanistica è evaporata. Se l’am­biente continua a essere propizio al maturare di una nuova Tangentopoli e al suo rapido diffondersi, artificial­mente costruito mediante la delegittimazione dell’urbanistica, lo svuotamento della pianifi­cazione e la demolizione delle leggi della politica fondiaria. Occorre in primo luogo - il vulnus del pensiero di Salzano - che la pianificazione territoriale e urbana diventi il metodo ge­nerale che la pubblica amministrazione adotti, a tutti i livelli (comunale, provinciale e me­tropolitano, regionale, nazionale) per decidere quantità, qualità e localizzazione degli in­terventi sul territorio, secondo procedure trasparenti.

Professor Salzano che cos’è oggi la città? Che cosa sta diventando?

«Intanto bisognerebbe chiedersi che cos’è la città, perché ci sono diversi punti di vista possibili e varie definizioni. La città come nelle statistiche internazionali può essere un certo aggregato di popolazione, applicazioni, attività, quindi, è città tutto quello che supera una certa densità, intensità di relazioni interne, rispetto alle relazioni con l’esterno, che supera un aggregato di case, di abitanti e di negozi. Oppure città può essere qualcosa di diverso, cioè quello che la civiltà europea ha inventato e poi costruito. Una città come un organismo che funziona unitariamente, che di per sé è un oggetto dinamico ma concluso, che ha una struttura riconoscibile e distinguibile da un’altra nell’ambito della quale valgono determinate regole di convivenza, di accoglienza, di organizzazione dello spazio, di un primato del collettivo sull’individuale, organizzazione finalizzata agli interessi comuni di tutti gli abitanti. È città Babilonia ed è città Atene, Creta, Edimburgo. Ma sono la stessa cosa? Secondo me no. C’è una città della tradizione europea il cui significato più profondo è la piazza come luogo aperto al pubblico. Tutti si incontrano, tutti hanno parità di diritti. E c’è poi appunto la città che si espande sul territorio senza distinzioni. Questo è un modello che ormai raccoglie più della metà degli abitanti del pianeta ed è una città destinata a trionfare. Se intendiamo città quella che c’è nella tradizione europea, quella è una città a rischio per una serie di eventi complessi che non incominciano ieri, ma che in molti anni e in molti decenni hanno avuto una forte accelerazione».

Chi e cosa minacciano la città? Quale potrebbe essere un’esplosione di conflitti

«Privatizzazione, prevalenza degli interessi individuali sugli interessi comuni, prevalenza della sicurezza sull’accoglienza, prevalenza dell’artificiale sul naturale. Anche se la natura è conservata e protetta là dove serve a chi può permettersela e per il resto chi se ne frega.

Il rischio è la sostituzione del cliente al cittadino, dello spazio privato allo spazio pubblico, la sostituzione del luogo dove si entra solo per comprare alla piazza, al luogo aperto a tutti».

Un innovatore straordinariamente attuale come Gio Ponti, che ha sempre lavorato nel cuore dell’industria, diceva che da sempre un urbanista, un architetto, un artista, un medico, fa la politica del suo re, del suo committente, fa un’attività che è sempre monumentale, ma sta nel ruolo nell’essenza dell’intellettuale d’oggi e quindi sta nella perdita di senso dell’architetto, che si è dimenticato che cos’è, dell’urbanista, del sociologo… Perché lei parla spesso di pianificazione della città come se fosse un optional, della perdita di senso di opere, che senso non ne hanno e di grande monumentalità. Ma insomma gli architetti tendono a “fare”, come Giò Pomodoro, opere autoreferenziate… Qual’è il modello? Intellettuali come Branzi, Deganello ed altri ancora, dicono che non si può più ragionare su contestualizzare architettura e urbanistica, bisogna fare altro. Lei cosa ne pensa?

«Secondo me la città non la fa né l’architetto né l’urbanista. La città la fa il committente, il potere politico. Il potere politico è cambiato, non è più la democrazia ma è quello economico. Non è più la politica ma l’economia. Il potere non è più il tao master, non è più il sindaco, il consiglio municipale, non c’è più la polis. Esclusivamente, almeno nel nostro Paese, ma poi è un processo generale, c’è la sostituzione degli interessi immobiliari, se parliamo di città, sugli interessi dello stare insieme in cui l’eletto è il custode e garante. Chi è il committente? Io ho sempre ritenuto che il piano urbanistico non è il figlio del professionista che aiuta a realizzarlo. Mi sono sempre opposto quando si è parlato di piano Salzano o che so io. Ho sempre lavorato dentro le amministrazioni, ho sempre collaborato con le amministrazioni e ho sempre sostenuto che il piano è il prodotto dell’amministrazione. Oggi per occuparsi della pianificazione seriamente bisogna avere uno sguardo lungo. Quando io ho cominciato a lavorare il sindaco trionfava se alla fine del suo mandato aveva portato all’adozione un piano regolatore generale e quest’ultimo aveva coinvolto l’interesse dei cittadini. I cittadini erano soddisfatti se era raggiunto questo obiettivo. Oggi se il sindaco non ha costruito il giardinetto pubblico o non ha affidato all’archistar il grattacielo o il ponte di turno non è soddisfatto. Questo è quello che si rivende ai cittadini come risultato. Quindi è cambiata l’ottica, il punto di vista, lo sguardo del committente e lo stesso committente».

Mi conceda una puntualizzazione. Lei vive nella più bella città del mondo. Ha come sindaco il filosofo Massimo Cacciari - dopo le elezioni del 28/29 marzo, il nuovo sindaco della città è Giorgio Orsoni - Come ha disattuato i suoi principi questo sindaco?

«Nella cronaca spicciola bisogna per forza entrare, perché non è certo storia aver disattivato il piano regolatore precedente del centro storico che tutelava, rispetto ai cardini di destinazione d’uso, la residenza e impediva che diventasse solo luogo di alberghi o pizzerie e avere scelto di fare soluzioni che premiassero gli interessi immobiliari qua e là nel territorio».

Ma a quale scopo? Per salvaguardare quali interessi?

«In termini di dubbio socratico le dico che l’interesse è stato fatto. Si confonde nello sviluppo economico l’aumento dell’attività delle imprese, qualunque esse siano. Si confondono nello sviluppo economico e in quello del PIL. Per cui, se io incominciassi a costruire e poi demolisco, il PIL aumenta a sua volta, mentre le costruzioni aumentano le demolizioni. Il gioco sta qui, aver confuso lo sviluppo economico, per esempio, con la massa di turisti che arriva a Venezia. Venezia soffre di un eccesso di turisti, non di una carenza. Venezia è distrutta dalla massa di turisti, turismo usa e getta, turismo che distrugge senza lasciare niente alla città. La politica delle ultime giunte è stata quella di sfavorire l’aumento del turismo e della commercializzazione ulteriore della città al di là di ogni limite. Una politica promossa o tollerata dal sindaco. Il mio amico, ex sindaco di Grosseto tanti anni fa, quando gli chiedevo: Ma tu da che famiglia vieni, che cultura hai alle spalle, mi diceva: Il mì babbo faceva il ciabattino a Gavorrano, il paese dei minatori. Il suo babbo faceva il ciabattino, non era un filosofo lui, eppure era un buon amministratore della città, perché sapeva che le scommesse sul territorio si vincono sulla scadenza, non si vincono col Ponte di Calatrava Po, si vincono in un centro storico, restaurando, conservando i cittadini che ci sono nati, stimolando le attività economiche compatibili con quel sito, non inventando opere di architettura moderna quando c’è da mettere in valore l’architettura e l’urbanistica tradizionale, queste sono le scelte giuste».

Pianificare il futuro non dà alcun riscontro dal punto di vista elettorale?

«Beh guardi le trasformazioni sul territorio sono così, gli effetti si vedono solo dopo».

Allora come si costruisce il consenso?

«Una volta non era complicato. Perché una volta lo si otteneva il consenso? Perché Rubes Triva - sindaco di Modena dal 1962 al 1973 - vinceva le elezioni a Modena sempre su questa linea. Perché? Domandiamocelo. Perché una volta si era capaci di interessare i cittadini su scelte di lungo periodo. Si sapeva che le scelte modificavano la realtà nel lungo periodo. Se io ho una malattia e vado dal medico e il medico mi dice che può guarirmi in tre minuti, è un cialtrone. Io lo so, e quindi mi assoggetto a cure lunghe, in caso di certe malattie, non del raffreddore ovviamente. Se io voglio piantare un frutteto, so bene che il risultato non lo avrò la stagione prossima, ma quando gli alberi avranno le radici, si saranno acclimatati e saranno cresciuti. E così sono le trasformazione della città, agiscono nel territorio in generale, agiscono nel lungo periodo».

Grandi opere, “un’emergenza del Paese”, Expo 2015. Ora Milano avrà un sito dell’Expo, i nostri architetti italiani, uniti, lei direbbe, dagli interessi immobiliari, stanno per mettere in piedi un grande Barnum, che come direbbe Gae Aulenti, diventerà un luna park nel 2016. Altri vorrebbero invece che questa grande opportunità si sviluppasse con l’ampliamento di siti già esistenti e una diffusione sul territorio. Cosa ne pensa?

«Ma cos’è un’Expo secondo lei? Io ho seguito tanti anni fa la vicenda del tentativo di fare un’Expo a Venezia e ho continuato a riflettere. Che cos’era quando gli Expo sono nati alla fine del XIX secolo e gli inizi del XX? Si capisce nella logica dell’epoca nelle magnifiche sorti progressive».

Gli anni ‘30?

«Sì, ma anche prima. Interi quartieri a Roma sono stati costruiti con le esposizioni internazionali. Quando la città è in espansione, quando si credeva nel progresso continuo della scienza l’Expo era un’occasione per esibire i progressi della scienza e della tecnica e cogliere l’occasione per trasformare le città. Ora mi pare che la proposta iniziale di costruire l’Expo milanese sul rapporto con l’ambiente era sensata, ma mi sembra che le strade che si percorrono adesso sono radicalmente diverse».

«Senta io riesco ad essere patriota di nessuna città. Io le città le cerco forse per il mio mestiere o forse perché non sono particolarmente affezionato a nessuna, le vivo tutte insieme. Quindi che una città lotti per assorbire il maggior numero di interessi, di risorse e così via, mi fa subito venire in mente che la concorrenza non è amica delle città. Amica delle città è la collaborazione, vuoi questi episodi, vuoi l’Expo, vuoi le Olimpiadi, per cui ogni città cerca di strappare, alle altre, risorse, investimenti e ricchezza. Mi sembra un episodio che ricorda il cannibalismo».

Dopo il “Piano Fanfani” del ‘49 e la Legge 167 sull’edilizia economica e popolare del ‘62, oggi il Piano Casa.

«Beh! Più che un Piano Casa è un tentativo di stimolare la volontà di diventare un po’ più ricchi, allargando un po’ la casa che si ha, da parte di molti italiani, è un bricolage. Io ho conosciuto il Piano Casa, ho conosciuto la Legge 367, ho conosciuto la politica della casa messa appunto in Italia, secondo me la più avanzata nel mondo come quella che c’era negli anni ‘60 e ‘70 e, se devo confrontarlo con quello, mi sembra che tutto sia fuorché un piano casa. Un Piano Casa premia chi la casa non ce l’ha, chi non la trova o chi deve pagare gli affitti, a questo servirebbe un Piano Casa. Questo è tutt’altro, premia chi la casa ce l’ha già».

In Lombardia stanno partendo, con iniziative tra Fondazioni e Enti pubblici, molte iniziative di Housing sociale

«Non riesco a capire cosa sia l’Housing sociale. Secondo me era quello che si sosteneva quando si otteneva l’area a prezzo di appezzamento agricolo, si costruiva con investimenti pubblici o attivati dal contributo pubblico, quando le case rimanevano di proprietà di Enti che lo davano in affitto a condizioni più ragionevoli a chi ne aveva bisogno. L’Housing sociale che invece non chiamerei Housing sociale è un meccanismo che impiega risorse pubbliche per aiutare ad accedere ad un mercato largamente alimentato dall’industria immobiliare».

La rendita immobiliare non è in discussione, con la crisi la contro tendenza è quella dell’accorpamento della proprietà immobiliare. Il nostro Paese ha la vocazione all’investimento nel mattone, dal dopoguerra ad oggi la proprietà è un fenomeno diffuso e popolare. I giovani della generazione dei mille euro, domani potranno mai averla una casa di proprietà?

«Io abito in una casa in affitto e spero che la mia padrona mi lasci a un prezzo ragionevole il più a lungo possibile. Non vedo il bisogno di abitare in una casa di mia proprietà, ma questa può essere una discussione del tutto personale. Quello che dico è che oggi, io rimango legato ai vecchi principi dell’economia liberale, quella di Luigi Einaudi per intenderci, secondo la quale nelle tre componenti: reddito, salario, profitto e rendita, quest’ultima è la componente parassitaria. La rendita immobiliare, la rendita urbana, è una rendita che nasce per effetto degli investimenti e delle decisioni, è una scelta della collettività il cui frutto va al proprietario, una cosa distruggente per l’economia. In effetti l’economia italiana è pesantemente chiamata da questa condizione».

Professore se si mette nei panni di un cittadino di una classe che oggi non esiste più, diciamo un piccolo borghese, se riesce a metter via dei risparmi penserà di farlo nel mattone, non ha altri luoghi. Quindi il concetto di rendita diventa sempre più diffuso. Penserà di comprare una casa per i figli, una seconda casa per sè, non li metterà né in borsa né in Bot né in altro.

«Questa è la ragione per cui il degrado dell’Italia è cominciato molti anni fa. È cominciato precisamente, riesco anche a stabilirne la data, agli inizi degli anni ‘70: i due fratelli Agnelli, Gianni e Umberto, entrambi a poca distanza di tempo, dichiararono che la rendita urbana era un elemento negativo che andava contrastato. Dico loro, perché erano la grande industria italiana, l’industria moderna, avanzata, l’industria a livello europeo e Gianni Agnelli pochi mesi dopo questa dichiarazione diventò Presidente di Confindustria. Quando da questa decisione passarono a investire negli immobili anziché investire nello sviluppo dell’industria, in quel momento cominciò il declino dell’Italia. Declino della capacità innovativa, della ricerca del profitto, dell’accumulazione, cioè del reinvestimento nel processo produttivo».

Lei sta dicendo sostanzialmente che non esiste più il capitalismo perché non ci sono più i capitalisti?

«Forse in Italia non sono mai esistiti. L’Italia, per esempio, ha avuto un capitalismo assistito, come si trova un po’ in tutti i Paesi. Dalla crisi del ‘29 come si è usciti? Con la Seconda Guerra Mondiale. Non si è mica usciti solo con le politiche. Si è usciti quando le commesse belliche hanno optato all’industria e quest’ultima si è rimessa in pied»i.

Lei ha sempre scritto che la polis è delle esigenze comuni e della cittadinanza, questa domanda era anche rivolta, pensi al cittadino che ha messo via faticosamente degli euro, non che li ha nascosti in un’economia sommersa, se non li mette nel mattone dove li mette? Li perde?

«E chi glieli toglie questi?»

Questo ragionamento glielo sto ponendo perché questo comportamento, visto che l’economia è comportamentale e legata a delle logiche assolutamente psicologiche e non a degli schemi econometrici, è diventato diffuso. Quindi lei lo ritiene complessivamente la risultante del degrado di oggi?

«Certo, è il motore del degrado prossimo venturo».

Ma il senso di conservazione del risparmio è connaturato

«Nei Paesi giovani, moderni, che stanno a guardare avanti, si investe con rischio. E si sa che il capitalismo è rischio».

Come può un cittadino medio che non ha una cultura economica fare un rischio calcolato? Dopo gli scandali borsistici e bancari degli anni ‘80 e ‘90, le famiglie tendono a far confluire nel mattone i loro risparmi e vedono nella rendita l’unica possibilità. Questo è il motore del parassitismo, ma non c’è altra scelta.

«Non c’è altra scelta perché non si vuole scegliere. Io penso che la politica non dovrebbe soltanto seguire, ma dovrebbe anche guidare. Almeno una volta, quando io l’ho conosciuta, era così la politica. Oggi la politica guida nella direzione del mantenimento del consenso ai costi più facili».

Quindi la politica è panem et circenses?

«Assolutamente sì. Stimolare gli interessi più deboli, più modesti, voglio usare termini diversi. Per gli italiani: la pancia, al massimo, l’interesse immediato e credere al futuro».

Se è vero che abbiamo perso la visione della città greca, dell’urbs, della civitas… Su quella base antica come facciamo il nuovo? Non facendolo?

«Quella fase là è andata avanti fino agli anni ‘70 nel nostro Paese e nel resto del mondo. Non è mica una fase così lontana dai grandi quartieri costruiti in Emilia Romagna, dai parchi urbani. Poi questo processo è stato troncato».

Si tratta solo di aspettare?

«No, si tratta di riguardare criticamente il passato. Di ricordare che gli anni ‘70 sono stati gli anni di conflitto grave, nel quale il riformismo vero è stato bloccato dalle bombe, e che là è cominciato il declino».

Quindi oggi siamo in un periodo di basso impero?

«Bisogna attendere o che arrivino i nuovi barbari, oppure che gli italiani ricomincino a pensare, cosa che io vedo sempre più difficile, ma che non si può mai escludere».

Dove ci porterà questa crisi economica?

«La crisi economica è già gravissima. Noi la misuriamo con gli indici di borsa, ma se la misuriamo con quelli che perdono il lavoro, l’unità di misura è molto più grave. Non è ancora arrivata a compimento perché ancora la si sta digerendo, perché ancora i disoccupati, in parte, possono contare su una rete di assistenza familiare e parafamiliare diffusa, ma cominciano i suicidi, insomma».

A questo proposito abbiamo intervistato lo psichiatra Josè Mannu che asserisce –“ il brutto è il punto fondamentale anche di questo nuovo modo di costruire, per cui queste case moderne, di stampo lecorbusiano, piccole, anguste, prive di habitat sociale, portano al suicidio”. Stiamo dunque vivendo un periodo di lunga depressione

«Io dubito molto di questi studi, in Italia non si studia mai seriamente, non si approfondiscono mai le questioni, perché per approfondire questo tipo di problemi bisognerebbe compiere degli studi omogenei per un arco molto lungo, di anni, e nessuno lo fa. La ricerca non è mai stata pagata in Italia, quindi dubito fortemente di questi studi».

Nel senso che è pagata la ricerca pagata, cioè la ricerca condiscendente dice?

«Non so neanche se quella sia pagata, in Italia si improvvisa. Siamo dei grandi commedianti».

Io ho scritto dell’assenza degli intellettuali, oggi sembrano scomparsi, tra poco intervisterò Pierluigi Battista, che parla di conformismo. I nostri grandi architetti, da Gregotti a Portoghesi, a Botta, che non sono neanche nostri, oppure Zucchi, non si definiscono delle archistar. Ma chi sono le archistar veramente, perché nessuno dice di esserlo.

«Io tra tutti quelli che lei ha citato, l’unico per il quale ho un grande rispetto culturale, perché considero un intellettuale, serio, molto più bravo quando scrive, devo dire, che quando commenta, è Vittorio Gregotti, gli altri secondo me… si guardano troppo l’ombelico, si sentono artisti prima che collaboratori alla costruzione della città. Una cosa terribile, perché la città fatta di singoli episodi in ognuno dei quali tende ad affermarsi la volontà di rappresentazione di se stesso, l’architetto, è una città orribile. Basta guardare i tre grattacieli milanesi. Lo zoppo, lo sciancato e lo storto - I progetti di Zaha Hadid, Daniel Liebeskind e Arata Isozaki per CityLife».



Se ne parla sempre più, che cos’è la cultura dell’abitare secondo lei?

«Dei libri di architettura, quello che forse mi è piaciuto di più è la raccolta di lezioni di un mio vecchio amico, Carlo Melograni, bravissimo architetto che è stato preside alla Facoltà di Architettura Roma 3. Ha scritto un libro in cui ha raccolto le sue lezioni molto belle. Il titolo che ha dato è: Progettare per chi va in tram - Editore Bruno Mondadori, 2004 . A me, l’architettura che piace e il progetto di architettura che piace è quello pronto a soddisfare le esigenze dei cittadini e, nel far questo, contribuisce alla costruzione della città».

Condividiamo l’appunto mosso a Salzano da parte di Paolo Cacciari (fratello “cattivo” - dal titolo degli articoli di Gian Anronio Stella - di Massimo e autore di Pensare la decrescita - Editore Intra Moenia, 2006) di continuare ad affidare l’idea del pubblico, dei beni comuni e dell’interesse generale alle istituzioni statali come se fossero il luogo della sovranità democratica. Non è solo l’urbanistica pubblica ad essere regredita - sempre secondo Paolo Cacciari - è la stessa democrazia ad essere stata declassata al ruolo ancellare del mercato. Allora per uscire dalla demoralizzazione, bisognerebbe ripartire da un “oltre”, da quella “benedetta irrequietezza” (penso all’ultimo libro di Paul Hawken, Incontenibile moltitudine - Edizioni Ambiente, 2009) che serpeggia appena sotto la crosta della rappresentazione che politica e mezzi di comunicazione di massa (oramai sono la stessa cosa) forniscono della società. Bisognerebbe pensare anche per l’urbanistica ad una “urbanistica scalza”, post-normale, disegnata direttamente dalle popolazioni, senza mediazioni. Salzano dice quale potrebbe essere il punto di partenza e di arrivo: “zero consumo di suolo”. Una specie di negazione dell’urbanistica main-stream al servizio della valorizzazione fondiaria dei suoli. Una urbanistica, all’opposto, al servizio delle politiche di riconversione generale degli apparati tecno-produttivi, della megamacchina termo-industriale, in chiave della sostenibilità ambientale e sociale. Una urbanistica che prende in cura le risorse naturali, studia i bilanci dei flussi di materia e di energia impiegati nel “metabolismo sociale”, rispetta e fa rispettare i cicli biologici della vita sulla terra.

Come scrive Salzano, quindi, una urbanistica non solo trans-disciplinare, ma democratica, nel senso che pone al centro della disciplina il diritto degli abitanti (di tutti i residenti, presenti e futuri) a vivere in città salubri, ordinate, di qualità.

Milano, 9 aprile 2010

Giovanni Pivetta

HOUSE, LIVING AND BUSINESS

Qui il testo originale nel sito House living and business

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