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Andrea Rossi
Restituire potere alla pianificazione d'area vasta
2 Marzo 2010
Urbanistica, proposte
Restituire potere alla pianificazione d’area vasta e promuovere processi di pianificazione intercomunale. Due cardini per una politica ispirata al contenimetno del consumo di suolo.

Oggi nel nostro Paese tutti dicono di voler perseguire l’obiettivo dello “sviluppo sostenibile” e questo tema è entrato nelle agende politiche e nei vari incontri internazionali che hanno originato avanzati “protocolli d’intesa” (Kyoto). Tuttavia si assiste ancor oggi a pratiche che vanno nella direzione opposta per cui si continuano a dissipare fonti energetiche e beni naturali non rinnovabili e non disponibili in modo illimitato, tra cui il suolo. In particolare negli ultimi decenni, in nome dello sviluppo economico produttivo, abbiamo assistito ad una crescente cementificazione di suolo agricolo e di campagna conseguente a pesanti infrastrutturazioni per la mobilità, ad espansioni residenziali a bassa densità di piccoli e medi centri, alla realizzazione di poli per la logistica e di centri commerciali, alla costruzione di centrali termoelettriche e di discariche, ignorando il crescente impatto che tutto ciò ha sull’ambiente, sul paesaggio, sull’inquinamento e sulle attività agricole che sono state considerate come “residuali” rispetto alle altre attività umane. A favorire questa logica predatoria, in cui il terreno agricolo e la campagna sono ritenute una riserva per l’urbanizzazione, hanno concorso molteplici fattori tra cui l’affermarsi di modelli di pianificazione ispirati da politiche che subordinano l’interesse pubblico a quello privato.

Condivido quanto va dicendo da tempo Edoardo Salzano: ridurre significativamente il consumo di suolo non è un compito semplice, né una questione che possa essere affidata esclusivamente ai tecnici del territorio o dell’amministrazione poiché è una questione pienamente politica, nel senso che esige che l’arte del governo della società riprenda possesso di un tema che ai suoi sacerdoti (politici) spetta in primo luogo affrontare. Esso è un problema politico perché presuppone il governo di un “bene pubblico”, quale il territorio, in quanto esso è il luogo in cui la società si produce e si riproduce e che pertanto deve essere concepito come una pratica complessa in cui interagiscono molteplici fattori di natura sociale, economica, ambientalee culturale. Il territorio infatti è qualcosa di più complesso e sostanziale: è il contenitore non passivo di una comunità e dei suoi bisogni.Una complessità che però viene negata dal fatto che esso è stato ricondotto essenzialmente ad una merce da sfruttare per fini economici con la conseguenza che gli altri due aspetti fondanti che lo sostanziano vengono considerati come variabili secondarie. Per fare questo si è operato affinché gli strumenti, i luoghi e le pratiche della pianificazione del territorio venissero adattati e resi funzionali a tale scopo.

Scriveva Giorgio Ruffolo: “La pianificazione territoriale è lo strumento principale per sottrarre l’ambiente al saccheggio prodotto dal “libero gioco” delle forze di mercato. Alla logica quantitativa della accumulazione di cose, essa oppone la logica qualitativa della loro “disposizione”, che consiste nel dare alle cose una forma ordinata (in-formarle) e armoniosa. Non si tratta, soltanto, di porre limiti e vincoli. Ma di inventare nuovi modelli spazio-temporali, che producano spazio (là dove la civiltà quantitativa della congestione lo distrugge), che producano tempo (là dove la civiltà quantitativa della congestione lo dissipa) e che producano valore aggiunto estetico[1]

L’affermarsi negli ultimi decenni di politiche neoliberiste che affidano al mercato la gestione del territorio ha comportato la subordinazione della pianificazione al soddisfacimento degli interessi economici prevalenti, in particolare della rendita immobiliare ed urbana. Ciò è stato consentito da una legislazione nazionale e regionale che ha permesso di operare in deroga ai Piani Regolatori comunali e che ha indebolito progressivamente la pianificazione territoriale di vasta area a seguito della limitazione dei poteri delle province.

In un contesto politico come quello della Regione Lombardia, che ha assunto la deregolamentazione quale pratica per smantellare l’intervento pubblico nella gestione della società e favorire così gli interessi economici privati, che in nome di una stravagante interpretazione del principio di sussidiarietà devolve poteri e competenze verso l’anello più debole nella gerarchia amministrativa, si è così favorito l’affermarsi, anche in ambito della pianificazione territoriale, di una legislazione che depotenzia i luoghi della gestione della complessità (Province) per privilegiare invece quelli meno adatti (ossia i Comuni) a fornire risposte a problemi complessi che, per la loro natura sistemica, travalicano inevitabilmente i confini catastaliela dimensione locale.

In nome di una falsa contrapposizione ideologica tra “centralismo” e “federalismo” si è pertanto evitato di applicare correttamente il principio di sussidiarietà il quale richiede che l’attribuzione della responsabilità, delle competenze, dei poteri e delle risorse venga assegnato al livello più idoneo a rispondere ai problemi da affrontare. La scelta del livello giusto va infatti compiuta non in relazione a competenze astratte o nominalistiche, ma in relazione a due elementi precisi: la “scala” dell’azione (o dell’oggetto cui si riferisce) oppure i suoi “effetti”.

In questi anni i Comuni, da quelli piccoli a quelli maggiori, alleggeriti da vincoli di pianificazione sovraordinati e pressati dal taglio dei trasferimenti dello stato, per far fronte alla necessità di reperire altrove le risorse finanziarie per sostenere le gran parte spese correnti dei propri bilanci, hanno così utilizzato il territorio per fare cassa rispondendo alle sollecitazioni della rendita immobiliare ed urbana.

Nell’illusione di dare risposte ai bisogni locali, le Amministrazioni si sono così cacciate in circuito circolare “vizioso”, senza via di uscita: infatti se per incassare le risorse economiche necessarie a garantire i servizi alla comunità residente si favoriscono nuove espansioni che attraggono nuova popolazione e famiglie, si genererà inevitabilmente una domanda aggiuntiva di servizi e di infrastrutture a cui il Comune sarà chiamato a farvi fronte ricorrendo, stante il permanere di questa logica, a nuove urbanizzazioni fino a quando, giunti alla saturazione del proprio territorio, si troverà nell’impossibilità di dare le risposte agli impatti che derivano da politiche che hanno assunto a riferimento la crescita illimitata.

L’esperienza ha mostrato il fallimento di queste politiche e di questo modo di concepire il governo del territorio e la manifestazione più evidente di ciò è documentato dalle conseguenze connesse all’incessante sottrazione di suolo all’agricoltura ed alla campagna per l’urbanizzazione e per l’infrastrutturazione che vanno dal peggioramento della condizioni ambientali e climatiche al depauperamento del paesaggio.

Il Lodigiano non si è sottratto a questo contesto generale. Anzi, il fatto di essere strutturato su una pluralità di centri di piccole dimensioni ha accentuato questi processi.

A ciò si aggiunga il peso che hanno avuto, nel corso di circa quarant’anni, sulle reali capacità di porre sotto controllo Piani Regolatori comunali sovradimensionati, la ricerca dell’autonomia da parte del Lodigiano, le riforme introdotte dalla legislazione nazionale e regionale che hanno modificato l’ordinamento degli Enti locali, ridisegnato i poteri e le competenze dei vari livelli istituzionali e definito nuovi strumenti per l’urbanistica e per la pianificazione, i diversi modelli di piano adottati ed i diversi obiettivi posti in capo alla pianificazione di “vasta scala”.

Nonostante i lodevoli sforzi compiuti dalla Provincia di Lodi in questi anni, non ultimo quello profuso nel recente adeguamento alla L.R.12/2005 del Piano territoriale di coordinamento provinciale che, agendo tra le maglie della legge, ha cercato di arginare le dinamiche dissipative in atto ricorrendo a strumenti quali i protocolli perequativi, gli accordi di programma, la definizione di ambiti di concertazione e altri strumenti di copianificazione, tuttavia occorre non nascondere i limiti e le insufficienze che a mio avviso anche questo piano porta con sé ai fini di un organico governo del territorio. Limiti e insufficienze che traggono indubbiamente origine dalle competenze attribuite alla Provincia dalla Legge Regionale n. 12 del 2005 la quale relega il suo suolo alla tutela del paesaggio e dell’agricoltura strategica, alla infrastrutturazione viaria, alla tutela idrogeologica ed alla definizione di criteri minimi sui temi di carattere sovracomunale da prevedere nella redazione dei Piani di Governo del Territorio, aspetti importanti che pur tuttavia rimangono subordinati alle logica dominante di un sistema che privilegia la messa a valore economica del territorio.

Territorio e ambiente sono beni comuni, necessari, indispensabili e soprattutto finiti. Ed è propria la coscienza del loro limite che deve spingere verso un radicale cambiamento di rotta nella loro gestione ed organizzazione. Solo entro un processo di pianificazione del territorio e di ciò che interagisce con esso è possibile recuperare un equilibrio ecologico da tempo compromesso. Condizione indispensabile per poterli gestire e governare in modo virtuoso e consapevole è ridare centralità alla pianificazione pubblica. Un processo che deve essere necessariamente affidato al potere pubblico poiché solo in questo ambito è possibile ricercare le risposte ai problemi che minacciano il clima e la vita sul pianeta. Pubblico e partecipato perché si tratta di gestire in modo efficace, trasparente e condiviso risorse che appartengono alla collettività. Soltanto entro questo processo, che è anche un processo di apprendimento e crescita culturale, è possibile dare concretezza ad una diversa idea di società.

In questa ottica il PTCP della Provincia di Lodi è, a nostro avviso, da concepire come un laboratorio di sperimentazione da cui partire per conseguire obiettivi più avanzati in termini di contenimento del consumo di suolo, di tutela dell’ambiente e del territorio nel suo insieme, di sviluppo dei servizi pubblici al fine di pervenire ad un assetto strutturale del Lodigiano che, superando l’attuale frammentazione comunale e le visioni localistiche dei problemi ancora presenti, garantisca un futuro sostenibile degli Enti locali. Ciò significa far assumere alla pianificazione il ruolo di cerniera tra territorio e società per passare dalla competizione comunale territoriale alla solidarietà intercomunale.

Un passaggio che implica anzitutto da parte della politica e degli Amministratori uno sforzo per fare un salto culturale in cui il futuro venga concepito responsabilmente come componente ineludibile nelle scelte attuali e contingenti.

Di fronte alla necessità di dare servizi e rispondere ai bisogni della comunità superando pratiche insostenibili che usano il territorio per scopi meramente economici, è infatti necessario traguardare la dimensione locale e innescare politiche di integrazione e cooperazione tra territori che per vicinanza, conformità, problemi e bisogni interferiscono e interagiscono.

Ciò significa anzitutto pensare e predisporre piani intercomunali che interessino più realtà territoriali ed affrontare in questo modo le problematiche in una visione sistemica, come richiede del resto la natura e la scala delle problematiche stesse. Questa strategia politica diventa ancora più importante per i Comuni che hanno una piccola dimensione, ossia per quei Comuni per i quali è ormai divenuto insostenibile garantire servizi che hanno costi fissi elevati e che di conseguenza non possono essere sopportati dalle scarse entrate di bilancio. I Comuni verrebbero così chiamati a predisporre congiuntamente e contemporaneamente uno schema strutturale unitario (come già è previsto dalla Legge regionale dell’Emilia Romagna), a condividere scenari sostenibili di sviluppo urbano e territoriale, ad assumere le scelte strategiche del piano della Provincia (infrastrutture della mobilità, ambiti produttivi e insediamenti commerciali di rilievo sovracomunale, poli funzionali), declinandole e specificandole all'interno dei propri territori. Ciò consentirebbe di programmare con maggiore efficacia gli investimenti pubblici e privati, di rispondere più facilmente alle necessità funzionali di reti e servizi pubblici, di stipulare accordi perequativi per la distribuzione di oneri e vantaggi conseguenti ai nuovi insediamenti.

Agire in comune, pianificare insieme, mettere a sistema, in questo modo, è a nostro parere possibile raggiungere e godere di quelle economie di scale di cui godono i centri maggiori, evitando di legare necessariamente il bilancio comunale alle entrate derivanti da nuove urbanizzazioni..

Nell’ottica di mettere a sistema le realtà territoriali e superare la visione localistica dei processi, un’altra questione mi sembra di particolare importanza. Mi riferisco qui al ruolo e al potere delle istituzioni intermedie, degli organi preposti al coordinamento generale degli assetti territoriali alla scala vasta, ossia delle Province. In questo senso, al di la della bontà o meno degli strumenti urbanistici locali, diventa fondamentale la capacità dei Piani territoriali di coordinamento provinciali di fornire un quadro preciso di riferimento per le politiche di governo del territorio alla scala comunale attraverso strumenti e regole non negoziabili che indichino scenari e soluzioni alle problematiche e soprattutto definiscano un sistema di indicatori in grado di valutare gli impatti e le ricadute in termini di sostenibilità delle scelte urbanistiche operate alla scala comunale. Un esigenza questa che richiede un importante impegno non solo nell’individuare gli spazi che la legislazione vigente in materia consente di utilizzare ma anche una forte presa di coscienza dei limiti presenti negli strumenti a disposizione, della loro non neutralità e della necessità di attivare processi politici e sociali che permettano di intervenire in seno alla legislazione stessa.

Entro un sistema territoriale policentrico, come quello lodigiano, in cui sono presenti molteplici unità locali di varia dimensione, un ruolo centrale va assegnato agli “ambiti territoriali”, quali associazioni di più Entilocali che condividono un comune progetto e che sono chiamati con la Provincia a sviluppare azioni di copianificazione e programmazione del territorio. Essi si configurano come un livello della pianificazione a rete che consente di superare la polverizzazione comunale e le diseconomie e sprechi conseguenti, di ridurre la competizione atomistica e conseguire, grazie alla cooperazione e concertazione tra Comuni, sinergie di varia natura che vanno a vantaggio dei centri interessati ma anche dell’intero territorio.

L’ambito territoriale rappresenterebbe pertanto, per i Comuni associati, la dimensione adeguata per realizzare un maggior controllo sul proprio territorio e sulle spinte delle rendite fondiarie ed immobiliari, per dotarsi di una qualificata capacità progettuale comune sia rispetto al territorio di competenza che alle opere pubbliche da realizzare, di darsi maggiori capacità gestionali del patrimonio pubblico, di poter assicurare ai cittadini maggiori servizi e di migliore qualità, di sviluppare politiche solidali superando gli atteggiamenti competitivi dei singoli enti, di conseguire un maggior potere contrattuale nell’accesso al credito, di poter disporre di apparati tecnico-amministrativi capaci di farsi carico di procedure complesse per accedere ai fondi dell’Unione Europea.

La pianificazione territoriale per ambiti dovrebbe quindi rappresentare il laboratorio entro il quale sperimentare e consolidare forme di cooperazione intercomunale che stimolino l’attivazione di un processo che permetta di superare assetti di tipo volontaristico e contingente, quali sono i Consorzi di Comuni e traguardare così verso forme Istituzionali stabili (unione dei Comuni, fusione di Comuni), che la legislazione nazionale e regionale già incentivano, e che consentono di unificare i bilanci dei vari Enti locali, di ridurre i costi connessi ai servizi ed ai mezzi impiegati, di darsi maggiori poteri contrattuali per l’acquisto di beni e servizi, di ottimizzare le risorse, ecc. Entro il processo di pianificazione territoriale, l’ambito “istituzionalizzato” potrebbe a sua volta costituire punto di riferimento per la costituzione di un nuovo ambito allargato ad altri Comuni contermini.

Restituire potere alla pianificazione d’area vasta, promuovere processi di pianificazione intercomunale per superare logiche localistiche e superare i forti limiti e rischi connessi alla frantumazione del territorio attorno a centri di piccola dimensione, sono a mio avviso i due cardini di una politica territoriale virtuosa che consenta non solo di contenere il consumo di suolo ma anche di dare un futuro sostenibile agli Enti locali.

Andrea Rossi, dottore in Pianificazione territorale urbnistica e ambientale, è cnsigliere provincale del Prc e collabora all'organizzazione dele Rete lmbarda dei comitati territrio e ambiente

[1]G. Ruffolo, Il carro degli indios, in “Micromega”, n. 3/1986.

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