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Tito Boeri
Una tassa sul privilegio
5 Gennaio 2010
Eddytoriali 2006
Come e perchè applicare il sempre disatteso principio di progressività della pressione fiscale. Da la Repubblica, 3 gennaio 2010 (m.p.g.)

Proviamo a crederci: il 2010 sarà "l’anno delle riforme", come annunciato solennemente dal nostro Presidente del Consiglio. Ma quali? Uscendo dalla crisi più dura del Dopoguerra non si può che pensare prioritariamente all’economia.

Sin qui le uniche misure economiche calendarizzate dall’esecutivo sono quelle rimaste fuori dalla Finanziaria, gli incentivi per i consumi e i bonus per la rottamazione di automobili, elettrodomestici e cucine. Per chiamarle riforme ci vuole, Ninetta mia, tanto, troppo coraggio. Prima della pausa natalizia, il ministro Tremonti ha tuttavia annunciato che «è arrivato il tempo di pensare alla riforma fiscale». Evviva.

Vuol dire che non è più tempo di interventi estemporanei e fra di loro contraddittori sul nostro sistema tributario, è finita l’era in cui si cambiano solo i nomi delle imposte (dall’Irpef all’Ire, dall’Irpeg all’Ires) e in cui le tasse si moltiplicano, di legislatura in legislatura. Nell’attesa di conoscere il progetto del Ministro, vorrei proporre un criterio molto semplice cui ispirare la riforma: bisogna tassare di più i più ricchi e meno chi lavora a bassi salari. È un principio, quello della progressività del sistema fiscale, scolpito nella nostra Costituzione, ma sin qui largamente inapplicato. Non è gradito al Ministro (che nel Libro Bianco del 1994 sosteneva che «la progressività ha effetti negativi sull’offerta di lavoro e causa la propensione ad evadere»). Quindi bene spendere due parole sul perché è giusto farlo e poi interrogarsi sul come farlo.

Negli ultimi trent’anni le disuguaglianze dei redditi in Italia sono aumentate soprattutto ai piani più alti. Si è parlato spesso (sovente a sproposito) di impoverimento, ma il fatto di gran lunga più marcato e rilevante accaduto alla distribuzione dei redditi in Italia è l’esplosione delle disuguaglianze fra la parte più ricca della popolazione. La quota di reddito detenuta dallo 0,1 per cento di persone più ricche è quasi raddoppiata dagli inizi degli anni ‘80 al 2004, l’ultimo anno per cui si hanno informazioni, grazie al paziente lavoro di ricostruzione di fonti sui redditi più elevati svolto da Elena Pisano, che ha appena conseguito un dottorato alla Sapienza.

Soprattutto nel nuovo Millennio la bassa crescita del Paese è stata appannaggio quasi esclusivo dei piani alti della distribuzione: nel 2004 il millesimo di popolazione più ricco, si tratta di circa 4500 persone, guadagnava in media il 20 per cento in più di solo 4 anni prima, circa il tre per cento del reddito nazionale, mentre il resto degli italiani era al palo. Questa crescente concentrazione delle risorse è andata di pari passo a una riduzione delle tasse per i più ricchi: l’aliquota più alta dell’Irpef è scesa dal 72 al 45 per cento negli ultimi trent’anni, il cuneo fiscale complessivo più elevato (tasse più contributi sociali a carico del lavoratore) è diminuito anch’esso di un terzo, dal 91 al 63 per cento, proprio mentre saliva quello dei salari più bassi.

La riduzione delle imposte sui più ricchi non è un fenomeno solo italiano. Al contrario, è comune a tutta l’Europa continentale. Negli Stati Uniti e nel Regno Unito è addirittura iniziata prima, nella seconda metà degli anni ‘70, sotto Ronald Reagan e Margareth Thatcher. Come si spiega questo fenomeno generalizzato? Non solo con il crescente potere politico di questa fascia di popolazione. Il fatto è che si temeva, non sempre a torto, che tasse alte per queste fasce di popolazione avrebbero finito per ridurre il gettito fiscale. Per due motivi: primo, queste persone possono trasferirsi altrove; secondo, quando non possono trasferirsi altrove, possono comunque spostare altrove i propri capitali in modo più o meno legale. Un esempio fra tutti. Tra i plurimiliardiari ci sono molti calciatori ed è stato documentato come il regime fiscale di vantaggio istituito in Spagna per attrarre campioni stranieri (la famosa legge Beckham) abbia in effetti indotto una consistente migrazione di star calcistiche verso la penisola iberica. A parte la delusione dei tifosi, questa migrazione ha portato con sé decine (se non centinaia) di milioni di tasse da lì in poi pagate altrove.

Ma oggi la Spagna, il cui disavanzo fiscale è esploso durante la recessione, è stata costretta ad abolire la legge Beckham. E il Regno Unito porterà nel 2010 l’aliquota più alta sui redditi dal 40 al 50 per cento mentre gli Stati Uniti, su cui grava anche il debito futuro, legato alla riforma sanitaria di Obama, non potranno che seguire a ruota passando dal 35 al 50 per cento nel giro di pochi anni. Il clima è cambiato anche per quanto riguarda i paradisi fiscali. La lotta contro di loro è stata un diversivo di governi incapaci di affrontare alla radice i problemi da cui è scaturita la crisi. Ma servirà ora a rendere efficaci tasse più alte per i più ricchi, volte a ridurre l’enorme debito pubblico accumulato nella recessione. Quindi oggi, a differenza anche di soli due anni fa, è possibile tassare di più i più ricchi aumentando il gettito.

Posto che sia giusto, nel senso di equo, tassare di più i più ricchi, come farlo? Al Ministro non piace la progressività delle tasse perché ritiene che riduca l’offerta di lavoro. Si sbaglia perché in un paese come il nostro, dove molti non lavorano, tasse più basse per i poveri e tasse più alte per i ricchi aumentano la quantità di persone che lavorano. Le tasse più alte sui redditi da lavoro dei ricchi possono, tuttavia, ridurre la quantità di ore lavorate da ciascuno di loro. Ma non c’è nessun bisogno di tassare di più il lavoro dei ricchi per tassarli di più. Teniamo pure le aliquote Irpef al 45 per cento, ma aumentiamo la tassazione dei redditi non da lavoro, portandola almeno al livello dell’aliquota Irpef più bassa, vale a dire al 23 per cento.

Quanto raccoglieremmo in questo modo? Purtroppo è impossibile stabilirlo con precisione perché gli unici dati disponibili sui redditi dell’un per cento più ricco della popolazione sono di proprietà esclusiva del Ministro dell’Economia che farebbe molto bene, nell’avviare il confronto, a renderli pubblici. Ma una cosa è certa sin d’ora: l’innalzamento della tassazione delle rendite finanziarie renderebbe il sistema più progressivo perché tasserebbe soprattutto i più ricchi: almeno un terzo dei redditi dichiarati dallo 0,01 per cento più ricco proviene da redditi da capitale (la quota è molto più alta, dato che è possibile solo risalire a quelli dichiarati con l’Irpef nel 2004 che includevano al massimo il 40 per cento dei dividendi). Sappiamo anche che il 90 per cento delle azioni è detenuto in Italia dal 7 per cento più ricco, nelle cui mani si trova quasi un terzo del reddito nazionale.

Quindi aumentando anche solo del 5 per cento il prelievo su questa fascia di popolazione, si farebbe affluire all’erario circa 25 miliardi. Che potrebbero essere utilizzati per aumentare le detrazioni sul lavoro dipendente o fiscalizzare i contributi sociali a carico di chi guadagna appena al di sopra del salario minimo. Una ragione in più per istituire anche da noi una paga oraria al di sotto della quale non si può andare. È un principio quello di tassare di più i più ricchi che dovrebbe prevalere anche nel disegnare il fisco federale, ripristinando l’imposta sulla prima casa, almeno al di sopra di un certo livello di patrimonio, ricordandosi che la distribuzione delle case di proprietà è ancora più diseguale di quella dei redditi. Insomma, ci sono molti dettagli da discutere. Ma prima bisogna accordarsi sui principi. Cosa ne pensa il Ministro dell´Economia? E cosa ne pensa l´opposizione?

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