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Marta Ragozzino
L'Aquila spezzata. Terremoti fra storia e eredità
13 Agosto 2009
Terremoto all'Aquila
Mille problemi aperti per il restauro della città colpita dal terremoto (mentre l’impegno del governo è volto all’incensamento di B. e alla costruzione di nuovi ghetti). Il manifesto, 13 agosto 2009

A causa di una lunga serie di scelte sbagliate, a cui si sommano interventi di restauro non rispettosi delle prescrizioni su criteri e materiali, il terremoto dell'aprile scorso ha colpito un patrimonio culturale estremamente fragile. All'Aquila e nel resto del territorio hanno avuto la peggio chiese e edifici che da sempre rappresentano i picchi di vulnerabilità dell'intera area

Nella Cronica di Buccio di Ranallo, il più importante scrittore aquilano del XIV secolo, si racconta in versi la storia della città dell'Aquila, la cui fondazione risale alla prima metà del Duecento, quando furono riuniti in un solo centro gli abitanti di numerosi castelli sparsi sull'altipiano (novantanove secondo la leggenda, come le cannelle della famosa fontana). Da questa unione tra le genti derivò l'impianto originario dell'Aquila: tanti rioni uno accanto all'altro, ciascuno con una piazza, una chiesa, una fontana, le case.

Ferite nel tempo

Tra i fatti più salienti che Buccio richiama nelle sue quartine, spicca il terremoto del 1349, che solo all'Aquila fece più di ottocento morti, distrusse le mura, le case e le chiese e costrinse, come oggi, la popolazione a abbandonare l'abitato. Gli scienziati e gli storici hanno potuto ricostruire che quel funesto terremoto ebbe un'intensità pari al grado 6.5 della scala Richter e produsse danni valutabili attorno al decimo grado della scala Mercalli. Valori dunque leggermente superiori a quelli del terremoto che il 6 aprile scorso ha colpito l'Abruzzo, provocando, oltre alle vittime e ai gravissimi danni, anche nuove e forse insanabili ferite al patrimonio culturale.

Inventariando queste ferite, per valutare i costi e le possibilità di un intervento di recupero ancora tutto da progettare, osservando lo strazio e le macerie delle chiese, dei palazzi e dell'edilizia minuta, che insieme componevano il tessuto abbastanza compatto del centro storico aquilano, è inevitabile notare che mai come in questo caso la tragedia consumata fosse prevedibile se non addirittura annunciata. E non per lo sciame sismico che ha preceduto le scosse del 6 aprile o per i timori del ricercatore Giuliani. Lo prova il quadro delle lesioni e dei crolli del patrimonio culturale, che ricalca quello generato degli eventi sismici precedenti. Ma gli esperti della Protezione civile, che si erano riuniti proprio all'Aquila il 31 marzo per rispondere in modo tecnico alle preoccupazioni crescenti, avevano stigmatizzato l'allarmismo senza approntare alcun piano di sicurezza. Nessuna precauzione, benché L'Aquila sorga in uno dei territori a maggior sismicità della penisola e la sua storia sia profondamente segnata dai continui terremoti ricordati dalle fonti. Ripercorrere l'elenco è istruttivo: 1315, 1349, 1389, 1455, 1459, 1461 (che rase al suolo il paese di Onna e fu analogo per intensità a quello del 1349), 1501, 1646, 1672, 1762, 1789, 1848 1874, 1895, 1915 (che provocò più di 33.000 morti nella sola Avezzano) per arrivare a quelli più recenti.

Cattedrali in pericolo

Il più grave di tutti fu probabilmente il terremoto del 1703, che contò circa ottomila morti e che venne anticipato da un lunghissimo sciame sismico, proprio come oggi. Le violente scosse (6,7 della scala Richter con danni superiori al decimo grado della scala Mercalli), già in gennaio fecero crollare molte chiese: i cronisti ricordano in macerie san Quinziano, san Pietro di Sassa e san Pietro di Coppito, viste in frantumi anche oggi. A febbraio, un'altra scossa diede il colpo di grazia, facendo crollare anche le capriate del tetto della chiesa di S. Domenico, che rovinò sopra a centinaia di fedeli raccolti per la funzione. Oggi la chiesa di S. Domenico sta collassando di nuovo, anche per colpa degli interventi di restauro che hanno appesantito la copertura e irrigidito la sommità delle murature con un cordolo in cemento armato. Allora vennero giù le chiese di San Bernardino che oggi ha perso il campanile ed è lesionata nella zona absidale; San Filippo, la Cattedrale, Sant'Agostino, S. Francesco: le principali chiese della città, che abbiamo visto cedere nuovamente sotto i colpi del sisma di aprile. La cattedrale in particolare, apparentemente integra, rivela al suo interno la rovina del transetto.

Dall'altro lato della piazza, tra le più grandi e belle d'Italia, si affaccia la chiesa di santa Maria del Suffragio o delle Anime Sante, costruita dopo il terremoto del 1703 anche con il concorso di Valadier, che ne progettò la cupola. Proprio la cupola non ha resistito al trauma e versa in pietose condizioni, parzialmente recuperate da un tecnologico intervento di messa in sicurezza coperto da un leggerissimo ombrello, destinato a diventare uno dei simboli della macchina dei soccorsi guidata, in questi quattro mesi, soprattutto dagli ingegneri, che hanno anche progettato le puntellature dei vigili del fuoco. Invece, la grave e ininterrotta storia sismica dell'Aquila avrebbe dovuto produrre particolare attenzione nelle scelte costruttive e di restauro, negli indirizzi politici e culturali e, soprattutto, nella prevenzione del rischio: fatta di saggia valutazione della vulnerabilità, di opportuni presidi e di continua e paziente manutenzione. Ma la città, classificata fin dal tempo del terremoto del 1915 tra quelle più sismiche del paese, era stata in anni recenti declassata dalla zona 1 di massima pericolosità alla zona 2 di sismicità media, alla quale si attribuisce minor rischio e conseguenti minori limitazioni, soprattutto dal punto di vista costruttivo. Diminuire il grado di rischio comportava costi più bassi per l'edilizia e consentiva criteri diversi, assai più permissivi, ad esempio riguardo all'altezza dei nuovi edifici, subito cresciuti anche nelle zone meno sicure della città (l'area di Fossa ad esempio, dove si sono polverizzati i palazzi più recenti, tutta cava all'interno, come d'altronde dice il nome stesso).

Forse anche in ragione di queste scelte (a cui si sommano interventi di restauro non rispettosi delle prescrizioni su criteri e materiali), il terremoto di aprile ha colpito un patrimonio culturale estremamente fragile sia all'Aquila che nel resto del territorio dove, come sempre, hanno avuto la peggio gli edifici storici scarsamente conservati e le chiese che, nella maggior parte dei casi, rappresentano, per ragioni strutturali e morfologiche, i picchi di vulnerabilità dell'intera area. Nonostante gli sforzi individuali e collettivi, la solidarietà e la partecipazione, il sisma ha rivelato, purtroppo, anche i limiti e l'impreparazione delle istituzioni deputate alla tutela del patrimonio. A fronte del ripetersi, quasi secondo copione, dei terremoti nel nostro paese, il ministero per i beni e le attività culturali non è riuscito a strutturare nel tempo un modello di gestione del patrimonio culturale nell'emergenza sismica. Facendo, ad esempio, tesoro delle esperienze passate, come quella del terremoto del 1997 in Umbria e nelle Marche.

Solidarietà e limiti istituzionali

Da anni si ripete che ci sarebbe bisogno di una squadra operativa aggiornata, cresciuta sul campo nel corso delle precedenti emergenze, pronta a entrare in gioco al fianco della Protezione civile al momento del bisogno e in grado di trasmettere rapidamente istruzioni e competenze ai tecnici presenti sul territorio colpito, depositari, viceversa, di conoscenze indispensabili per affrontare la specificità della situazione. Ma questo non è mai stato fatto e ogni volta si riparte da zero, senza le preziose competenze ma con la contrattazione sindacale che permette a tutti, esperti e no, di partecipare al «progetto sisma». Specialmente in questa occasione, tanto pervasivamente gestita dalla Protezione civile, che ha monopolizzato ed occupato fisicamente ogni spazio, anche quelli di pertinenza del Mibac. Anche nel campo dei beni culturali, infatti, si sta compiendo, nel laboratorio emergenziale dell'Aquila, l'esautoramento delle istituzioni pubbliche, statali e non, a favore del corpo scelto della Protezione civile, che prende in carico tutto: le scelte calano dall'alto, non c'è partecipazione diretta del ministero deputato alla tutela, tantomeno delle soprintendenze locali che presidiano il territorio. Per la prima volta il vicecommissario straordinario per i beni culturali non è nei ruoli del Mibac ma dipende direttamente dalla Protezione civile. D'altronde anche il ministero sta subendo la stessa sorte di lenta ma progressiva dismissione, tra commissariamenti e drastiche riduzioni di risorse. Per l'ufficio del vicecommissario lavorano sia i tecnici delle Soprintendenze abruzzesi che quelli degli altri uffici del ministero che a turno contribuiscono alla prima speditiva valutazione dei danni, che ha l'obiettivo di fornire anche un'indicazione economica di massima, utile a prevedere le coordinate del piano di recupero.

Ma nessuno ha un quadro completo, neppure settoriale: secondo una logica eterodiretta, si procede in maniera puntuale, senza aver chiari gli obiettivi generali, se pur ci sono. Anni luce di distanza dalla necessaria multidisciplinarietà sperimentata ai tempi del Gruppo nazionale difesa terremoti del Cnr, quando si discuteva dell'opportunità di protocolli operativi e schede di rilevamento danni anche per il patrimonio artistico (beni mobili e apparati decorativi fissi) e non solo, come adesso, per i contenitori architettonici, le chiese ed i palazzi. Manca il confronto, sotto il tallone di ferro della Protezione civile, e la partita è grande e davvero difficile.

Scelte tragiche

Non si tratta, naturalmente, di restituire L'Aquila così com'era ai suoi cittadini, come ha promesso il presidente del consiglio, bensì di studiare un piano di ricostruzione che conservi il più possibile ma non si accanisca terapeuticamente sugli edifici crollati: abbia il coraggio di demolire con coscienza laddove inevitabile. All'opera ci dovrebbero essere non solo gli ingegneri ma squadre di architetti, pianificatori, urbanisti, restauratori e storici dell'arte, che potrebbero, in tempi rapidi, progettare insieme la nuova città.

Il problema vero e critico riguarda infatti i centri storici (soprattutto quello aquilano, ma il discorso vale anche per il territorio), in cui le emergenze monumentali e gli edifici vincolati non sono isolati, bensì connessi da una fitta trama di edilizia minore. Questo è il punto chiave di cui non parla nessuno. Forse si potrà restaurare la cupola delle Anime Sante ma certo non l'edilizia storica minuta, costruita con materiali poveri malamente conservati. La partita da giocare è quella della ricostruzione e riconnessione del tessuto storico: il rapporto tra architettura contemporanea e ferite aperte della città, progetto e memoria. Nel centro storico vi saranno, inevitabilmente, dei buchi che dovranno essere studiati e riempiti senza ripetere gli errori del passato.

Per far questo bisognerebbe unire tutte le forze. Invece, mentre da un lato vertici centrali dell'amministrazione che tutela il patrimonio culturale consegnano la gestione dell'emergenza alla Protezione civile, dall'altro il mondo dei musei si è mosso in autonomia. Il presidente dell'International Council of Museum (Icom) Italia ha chiesto a tutti i soci solidarietà con l'Abruzzo e i suoi beni culturali colpiti. Sulla base di un protocollo di intesa con Legambiente, che già in passato si è distinta con interventi in favore del patrimonio culturale danneggiato dal sisma, Icom indica ai soci la strada maestra del volontariato. Legambiente, intanto, si propone e viene accreditata dalla Direzione che coordina, solitamente, l'attività locale delle Soprintendenze.

Dove il ministero fatica a mandare personale qualificato, l'associazione supplisce e entra in gioco con le sue strutture di volontari con la pettorina gialla (finora 300) che si lanciano al recupero e messa in sicurezza dei beni mobili danneggiati (circa 1300). Straordinario l'impegno dei ragazzi, dei quali qualcuno avrà ben valutato le competenze, che sostituiscono operativamente gli specialisti e i tecnici.

Alla fine i volontari vuotano chiese, palazzi e musei mentre i funzionari si impegnano a schedare i beni vincolati coinvolti (a oggi circa 1600 schede) per valutare il danno e fornire cifre di riferimento alla Protezione civile, secondo indici previsti dagli ingegneri delle università accreditate, che si occupano di danni sismici. Che poi sono le stesse che producono i progetti della messa in sicurezza e, a lungo andare, anche del recupero dei monumenti. Ma quali monumenti? La prospettiva della ricostruzione cozza contro gli ostacoli e i tempi lunghi imposti dalla smisurata messe dei danni. Il Presidente del Consiglio, rifiutando sulle prime gli aiuti internazionali, aveva detto che gli stati stranieri avrebbero potuto adottare uno dei monumenti colpiti. Da parte sua, il ministro Sandro Bondi ne aveva subito individuati quarantacinque, in pessime condizioni, anche per colpa di poco opportuni interventi di restauro recenti, basti osservare la fiancata della chiesa di San Marco, che si sta aprendo come un fiore e dentro è un cumulo di rovine, per capire come i carichi di cemento armato abbiano contributo al dissesto. L'edificio sarà ingabbiato da un ponteggio, frutto della donazione del Veneto. Solo l'intervento di messa in sicurezza costerà 240.000,00 euro: i restauri chi lo sa, magari venti volte tanto.

Il calcolo, a spanne, di quanto servirà per restaurarli parla di 450 milioni di euro, che non si sono ancora trovati, nonostante gli impegni a parole. Su queste cifre bisognerebbe cominciare a riflettere, date le precedenti esperienze di mala gestione dei finanziamenti per la ricostruzione. Chi realizzerà i restauri? Chi valuterà i progetti? Chi gestirà gli appalti, in regime di ordinanza? E, soprattutto, quanti anni ci vorranno?

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