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La terra trema
7 Giugno 2009
Terremoto all'Aquila
La cronaca amara e i primi commenti ad una tragedia che la cattiva politica e la cattiva edilizia hanno reso ancora peggiore. Emiliani, Stella, Valentini su L’Unità, Corriere, la Repubblica del 7 aprile 2009 (m.p.g.)

La terra impazzita e i giuramenti mai mantenuti

Gian Antonio Stella – Corriere della Sera

"Bare. Mandate altre bare". "Ancora? ". "Ancora". Alle quattro del pomeriggio, tra i ciliegi e i meli in fiore di Onna, l’antica Villa Unda nota al papa Clemente III, è già chiaro che non bastano, tutte quelle casse di legno chiaro fatte arrivare a più riprese fin dalla mattina e allineate da una parte, sotto il tronco di una robinia. Un poliziotto stende sull’ultimo poveretto estratto dalle macerie, infagottato tra coperte e lenzuola, un pezzo di nastro adesivo da pittori. Ci scrive un nome col pennarello.

Non c’è un passero che voli, nel cielo azzurro di Onna. Non una rondine che sfrecci. Non una cinciallegra che canti. Solo il silenzio. Un silenzio gonfio di disperazione. Rotto solo dal pianto di qualche parente e dal rumore dei caterpillar che affondano le pale tra le rovine tirando su enormi cucchiaiate di quotidianità annientata. Frigoriferi sepolti sotto tonnellate di pietra con una confezione di uova rimaste miracolosamente intatte che si rompono rotolando via nella polvere. Stufe a gas. Credenze dai vetri scoppiati coi bicchierini del vermouth della domenica rovesciati tutti da una parte. Spalliere di ottone che emergono tra i travi e i mattoni luccicando gialle sotto il sole.

Silvio Berlusconi, che si è precipitato nel cuore di questo Abruzzo ferito annullando il viaggio in Russia dove era in programma una missione a fianco degli imprenditori, ha un maglioncino nero, la faccia nera e assicura che "nessuno verrà lasciato solo" ma la situazione è davvero pesantissima: "Per quanto riguarda il centro storico di L'Aquila c'è inagibilità assoluta: tutti gli edifici pubblici sono inagibili".

Invita "gli abitanti a non restare nelle case lesionate: se si ha la possibilità di portare famiglia e bambini da amici e parenti, è meglio dislocarsi altrove". Ammette che no, "non c'è nessuna possibilità di effettuare previsioni: non c'è nessuno che può dire che non ci saranno scosse nelle prossime ore o nei prossimi giorni".

Gli aquilani del centro storico e delle frazioni vicine si accoccolano spossati sui sedili delle auto parcheggiate il più lontano possibile dalle case e sospirano come don Mauro, il parroco della contrada di Sant’Elia dove il campanile si è piegato tutto da una parte e minaccia di cadere sulla canonica e la chiesa dedicata a San Lorenzo pare colpita da una granata che abbia buttato giù l’intera facciata a destra del portone e sventrato l’interno risparmiando solo la statua del santo, bianca come un fornaio.

"Si dovrà capire, poi, questa storia dell’esperto. Si dovrà capire perché non gli hanno dato retta". Ecco il dubbio che ronza nella testa di tutti: perché non è stato ascoltato Giampaolo Giuliani, il ricercatore che nei giorni scorsi aveva lanciato l’allarme avvertendo che sarebbe arrivato uno scossone devastante? "L’avevano perfino denunciato", borbotta don Mauro, sistemandosi il colletto bianco rigido slacciato, "Perfino denunciato. E invece aveva ragione lui".

Un vigile del fuoco sfatto di fatica tiene al guinzaglio un cane che tira di qua e di là annusando la morte. L’uomo si toglie la mascherina, risponde al cellulare, cerca di mettere insieme l’ennesimo bilancio. Cento morti, forse. Forse di più. Forse centocinquanta. Più di centocinquanta. A L’Aquila, dove si è accasciata la Prefettura e si è piegata tutta da una parte la Casa dello studente e si è schiantato su se stesso un condominio che svettava su un sereno giardino di pini il cui profumo si fa largo con un soffio, appena c’è un refolo di vento, tra la polvere sollevata dalle ruspe. A Paganica, la patria di Sallustio ai piedi del massiccio del Gran Sasso dove passava la via romana Claudia e dove è crollato il monastero di San Chiara ed è stata devastata la Chiesagrande.

A San Pio delle Camere, che sta adagiato ai piedi del monte Gentile e prima di finire sui giornali il giorno in cui il suo paesano Franco Marini diventò presidente del Senato, era famoso per lo zafferano, che è così delicato ed esposto ai capricci del tem­po che "un anno t’arricca e uno ti spianta". La vecchia signora Rita viveva in via Massale, ai bordi di Onna. Una casetta come tante, a due piani. Prima di andare a letto, aveva accomodato ordinatamente la camicetta e la gonna su una sedia posata contro il muro della camera. La casa è venuta giù ma la sedia è rimasta lì. Al suo posto. Salda su un orlo del pavimento rimasto miracolosamente aggrappato alla parete azzurra. Do­ve spiccano un crocefisso e il quadretto di una madonnina. La ruspa scava sotto gli occhi dei figli, che assistono inebetiti. A un certo punto un pompiere fa un gesto. La ruspa si ferma. Un vigile si china e tira su una coperta. Poi una trapuntina. Poi un lenzuolo. Ci siamo, forse. "Indietro! Per favore, indietro ", chiede un poliziotto. "È lei?" "È lei".

Il parco giochi della scuola materna, coi suoi castelletti e gli scivoli e i tavolini e i recinti gialli e rossi e verdi e blu è rimasta l’unica cosa colorata della contrada. Tutto il resto, nella devastazione che ha annientato in pochi istanti due terzi del paese sfregiando l’ultimo terzo con crepe e finestre accecate e cornicioni precipitati al suolo, ha assunto un uniforme colore grigiastro. Il vecchio Giuseppe, il viso segnato dal san­gue di una ferita alla fronte che non è anco­ra riuscito a lavare via, mostra la distruzione della cascina e del cortile e delle tettoie dove teneva le macchine agricole: "Io e mia moglie ci siamo salvati per un pelo. Fortuna. Vuol sapere la cosa più assurda? Si è sentito uno schianto e ci tremava la terra sotto i piedi e venivano giù le pareti e io mi sono trovato a imprecare: "Le scarpe! Dove ho messo le scarpe?"".

Suor Lucia, che con le consorelle si è si­stemata su alcune seggiole davanti a ciò che resta del "Pontificio Istituto Maestre Pie Filippini", si lagna per la gamba. Si è buttata sulle ginocchia una coperta ma dice che non è servita a molto. Dolori. Dolori forti. "Siamo qui da stanotte. Ormai sta scendendo la sera e non abbiamo idea di cosa fare". Dalla vicina Casa dello studente, quando già comincia a calare la luce, salgono urla di gioia. Hanno trovato i ragazzi che erano sotto. Vivi. Si rivelerà un’illusione, ma per un po’ sembra un miracolo. Suor Lucia pensa che è merito anche delle preghiere di santa Lucia Filippini, che è riuscita a rimanere dritta sulla sua colonnina mentre tutto intorno crollava e si è guadagnata un posto accanto al buon Dio grazie al fatto che, come dicevano i santini di un tempo, "scansava le amicizie delle compagne cattive che avvelenano coi loro vizi le anime innocenti e si guardava dalla vanità ".

Quel che è sicuro, a girare per le strade del capoluogo e dei borghi dei dintorni e a vedere come sono andati giù anche certi edifici costruiti dieci o venti anni fa, è che un Paese come il nostro non può affidarsi a santa Lucia o a sant’Emidio, protettore dai terremoti. Sull’elenco telefonico di Los Angeles appena aperto, come ricordò un gior­no Giorgio Dell’Arti, c’è una frase: "Ci saranno sempre terremoti in California". A seguire, tutte le istruzioni su come compor­tarsi: tenere a portata di mano torce e radio con batterie, una valigetta con il materiale minimo di pronto soccorso, dieci litri d’ac­qua… Certo, tutto ciò non basta quando la terra, per usare la frase sentita ieri ad Onna in bocca a una ragazzina che trema come una foglia al ricordo, "comincia a sbattere come la coda di un drago impazzito".

Ma i morti sì, possono essere limitati. I danni sì, possono essere contenuti, quando le case sono costruite con i progetti giusti e gli accorgimenti giusti e i materiali giusti. E nessuno dovrebbe saperlo meglio di noi italiani. Che viviamo in una terra tra le più in­quiete di un mondo in cui avvengono ogni anno un milione di terremoti piccolissimi e tra questi almeno un centinaio del quinto grado della scala Richter, cioè uno ogni tre-quattro giorni e ogni tanto ne arriva uno che sconquassa tutto. E per giorni giurano tutti che basta, occorre cambiare le re­gole e bisogna adottare una volta per tutte i sistemi che aiutano a limitare i danni per­ché è stupido spendere i soldi come per decenni ha fatto lo Stato che secondo i dati del Servizio geologico nazionale è riuscito a spendere solo dal 1945 al 1990 per tamponare i danni di catastrofi naturali varie ol­tre 75 miliardi di euro e cioè quasi 140 mi­lioni di euro al mese. Più quelli spesi dal 1990 in qua per il sisma nella Sicilia Orien­tale nel dicembre 1990 e per quello nell’Umbria e nelle Marche del settembre 1997 e per quello a San Giuliano di Puglia dell’ottobre 2002… Tutti lutti seguiti da una pro­messa solenne: mai più. E presto dimenticata sotto la spinta di nuovi condoni, nuove elasticità urbanistiche, nuove regole più generose… Mentre cala la notte, nei paesi sotto il Gran Sasso la terra, ogni tanto, dà un nuo­vo scossone. Piccolo. Leggero. Sinistro. Così, tanto per ricordare chi comanda.

Piano Casa? Meglio un piano terremoto

Vittorio Emiliani – l’Unità

Domenica scorsa ho scritto sull’Unità del proposito governativo di abolire le autorizzazioni preventive per le nuove case nelle zone a bassa sismicità e di allentarle (magari solo successive e "a campione") in quelle a medio e alto rischio. "Da rabbrividire", commentavo, in Paese per circa due terzi mediamente o altamente sismico. Cosa dovremmo dire oggi, dopo la tragedia aquilana? Che non si può incentivare una ripresa edilizia "comunque" e dovunque, sfidando i vincoli paesaggistici, quelli idrogeologici e sismici. Tutta la filosofia delle misure del piano famiglia e poi del piano casa (attendiamo testi definitivi) poggia sull’abbassamento della soglia dei controlli tecnico-scientifici pubblici, a cominciare dai pareri delle Soprintendenze "non più vincolanti". Nel caso i Beni culturali riuscissero a darli in tempo, l’amministrazione locale "può procedere ugualmente al rilascio motivando specificamente sul dissenso". Incredibile.

Dunque, meno controlli preventivi, tecnici e mirati, dello Stato, e più mano libera ai privati, grandi e piccoli. Una "filosofia" che il terremoto aquilano boccia inesorabilmente. Il nostro (esclusa la Sardegna e una parte delle Alpi). è un Paese quasi ovunque a rischio sismico Ha subito almeno 30.000 fenomeni di rilievo dal 461 avanti Cristo ad oggi e 560 terremoti "forti, fortissimi o catastrofici". Il volume, tremendamente attuale, dello scienziato Enzo Boschi e del giornalista Franco Bordieri, "Terremoti d’Italia" ha un sommario durissimo: "Il rischio sismico, l’allarme degli scienziati e l’indifferenza del potere". Di qualunque potere.

Entrata in vigore nel 1989 la legge n.183 per la difesa del suolo, ventitre anni dopo le alluvioni di Firenze e Venezia, e nove dopo il terribile sisma irpino, venne poi creata l’Agenzia di Protezione Civile, diretta da Franco Barberi. Non potenziata dal governo Prodi e chiusa dal secondo governo Berlusconi: per far confluire anche le sue competenze sismiche nel mare magno della Protezione Civile, licenziando lo stesso Barberi e colpendo con un assurdo spoil system Roberto De Marco, responsabile del servizio sismico. Guido Bertolaso doveva essere a capo di tutto, sostenuto anche da forze del centrosinistra. Si indeboliva così una cultura specifica quanto mai utile nei drammatici frangenti che si ripetono spesso in Italia senza che nulla insegnino (se non agli studiosi): per esempio che le costruzioni in cemento armato sono le più rigide e quindi le meno antisismiche (nell’Aquilano vedo in tv un ospedale di quindici anni fa sbriciolato, una costruzione ancora nuova collassata su se stessa divenendo una trappola). O che è molto meglio investire miliardi veri nella prevenzione antisismica, nella lotta alle frane (un flagello), nel controllo delle cave, spesso abusive, e delle case non meno abusive, piuttosto che piangere dopo: nel 1970 la commissione De Marchi chiedeva 10.000 miliardi di lire, concessi in minima parte; fra il 1970 e la metà degli anni ’90 ne vennero però spesi oltre 60.000 soltanto per tamponare le falle. Senza contare le povere vite umane perdute, quelle sì senza prezzo. Ma, si sa, i miliardi destinati a questi scopi non fanno "parata elettorale".

Le colpe del Malpaese

Giovanni Valentini – la Repubblica

Non è certamente colpa di nessuno, tantomeno del governo in carica, se scoppia un terremoto nel cuore della notte e devasta un'area sismica già censita nelle mappe della paura, provocando una dolorosa catena di rovine, morti e feriti. Quando l'instabilità del territorio si combina purtroppo con la violenza della natura, il cataclisma diviene inarrestabile e l'uomo non può che arrendersi alla fatalità.

È doveroso ora far fronte all'emergenza, soccorrere le vittime, assistere i sopravvissuti, ripristinare al più presto condizioni di vita normali e dignitose per tutti. Ed è senz'altro opportuno accantonare per il momento qualsiasi polemica contingente, per concentrare gli sforzi in un impegno comune di solidarietà. Ma subito dopo sarà necessario anche compilare l'inventario delle responsabilità, remote e recenti, non solo per accertare che sia stato fatto davvero tutto il possibile per prevenire un evento di tale portata, quanto per impedire che possa ripetersi in futuro o perlomeno per contenerne eventualmente l'impatto.

Non vogliamo riferirci qui tanto alla "querelle" fra il tecnico che nei giorni scorsi aveva lanciato l'allarme e l'apparato della Protezione civile, sostenuto dall'establishment del mondo scientifico, secondo cui un terremoto non si può mai prevedere. Sarà pur vero che i sintomi registrati dai sismografi o da altre apparecchiature non consentono di predisporre per tempo un intervento funzionale, cioè un'evacuazione di massa delle case, dei paesi e delle città. È altrettanto vero, però, che in questo caso i segnali sono stati evidentemente trascurati e sottovalutati, fino al punto di mettere sotto inchiesta l'incauto tecnico in virtù di un paradosso giuridico che prende il nome di "procurato allarme".

La questione fondamentale è un'altra e si chiama piuttosto "cultura del territorio". Vale a dire conoscenza e rispetto della natura; sensibilità e cura per l'ambiente; tutela del paesaggio e ancor più della salute, della vita umana, di tanti destini in carne e ossa che in quel territorio incrociano la propria esistenza. Non c'è pietà per le vittime e per i sopravvissuti di questo o di altri terremoti, come di ogni disastro naturale, senza una consapevolezza profonda di un tale contesto e senza una conseguente, concreta, quotidiana assunzione di responsabilità.

Fuori oggi da una sterile polemica politica, non si può fare a meno tuttavia di registrare l'enorme distanza - propriamente culturale - fra un approccio di questo genere e il cosiddetto "piano-casa" recentemente varato dal governo di centrodestra, nel disperato tentativo di rilanciare l'attività edilizia. In un Malpaese che trema distruggendo - insieme a tante speranze e a tante vite - abitazioni, palazzi, ospedali, scuole e chiese, e dove ancora aspettano di essere ricostruiti gli edifici crollati nei precedenti terremoti come quello del Belice di quarant'anni fa, la priorità diventa invece la stanza in più, la mansarda o la veranda da aggiungere alla villa o alla villetta, in funzione di quel consumo del territorio che si configura come un saccheggio privato a danno del bene comune.

Non saranno magari le fughe di gas radon emesse dalla terra in ebollizione - come predica l'inascoltato ricercatore abruzzese - a permetterci di prevedere i terremoti, ma verosimilmente una rigorosa prevenzione anti-sismica può aiutarci a ridurre al minimo i danni e soprattutto le vittime. Tanto più nelle regioni e nelle zone dove il rischio è notoriamente più alto. Ecco una grande occasione per rilanciare l'attività edilizia nell'interesse generale, non già al servizio della speculazione immobiliare ma semmai in funzione di un investimento umano e sociale sul territorio.

Con i 150 morti finora accertati, i mille e cinquecento feriti, i settantamila sfollati, i diecimila edifici crollati o danneggiati, il triste bollettino di guerra che arriva dall'Abruzzo interpella una volta di più le ragioni di un "ambientalismo sostenibile": cioè, pragmatico, costruttivo, effettivamente praticabile. Di fronte al primo cataclisma del nuovo millennio, quello schieramento composito e trasversale che vuole difendere l'immenso patrimonio naturale, storico e artistico dell'Italia dagli egoismi individuali, è chiamato a misurarsi più che mai con la sfida della concretezza. Superata l'era delle vecchie ideologie, rosse o verdi che fossero, ora c'è da impugnare la bandiera del realismo civile.

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