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Marvi Maggio
Standard urbanistici fra tempi e spazi
3 Febbraio 2009
Spazio pubblico
Dal “Laboratorio sugli spazi” del sito Tempi e spazi della città riprendiamo l’intervista sugli standard urbanistici. In calce una nota informativa

1) Per quali ragioni, a tuo avviso, l’iter parlamentare delle proposte inerenti il governo del territorio e l’urbanistica è accompagnato da un così gran silenzio? Manca la coscienza diffusa del ruolo determinante che città e territorio sono chiamati a svolgere per il benessere di tutte e tutti? Oppure nessuno crede più che il destino di questa risorsa collettiva così preziosa ed esauribile possa essere salvaguardato dalla mano pubblica?

Una legge ma non solo

Oggi siamo di fronte ad una forte e diffusa consapevolezza che territorio e insediamenti nelle loro diverse espressioni, sono un bene comune e che tutte le trasformazioni del territorio progettate e volute oppure prodotto indesiderato o semplicemente non previsto, hanno sempre un effetto sulle vite di chi quei territori li abita o in qualche modo li attraversa. E c’è anche la consapevolezza del diritto di tutte le persone coinvolte in qualità di abitanti, a partecipare ai processi decisionali e quindi alle scelte. Assunzione del territorio come bene comune e partecipazione alle decisioni da parte degli abitanti “subalterni”, è possibile solo e soltanto se si modificano i rapporti di forza e le regole del gioco, visto che esistono gruppi sociali, quelli definiti forti, che decidono in base ai propri interessi personali o di gruppo, arrivando spesso a nasconderli dietro falsi interessi comuni. Esiste quindi una domanda diretta o indiretta, esplicita o implicita, di nuovi esisti territoriali e quindi di nuove regole del gioco. Come modificare i rapporti di forza e le regole non è tuttavia scontato. Infatti la mano pubblica ha delegato e sta delegando in modo diretto o indiretto il governo della cosa pubblica e in particolare del territorio a enti e agenzia private, quando non addirittura a consorzi di imprese (privatizzazione del governo del territorio). Nessuno sembra responsabile e le leggi tendono a rendere flessibile e negoziabile l’assunzione di responsabilità da parte delle istituzioni. La flessibilità dei piani urbanistici e la discrezionalità delle scelte è da sempre lo strumento principe della valorizzazione immobiliare. Infatti la mancanza di regole a favore della razionalità sociale (contrapposta a quella economica) rende scontato l’esito: vincerà l’intervento più lucrativo, quello presentato dai soggetti imprenditoriali che di volta in volta (spesso sono sempre gli stessi) si dimostrerà il più forte. La pratica della vittoria del più forte viene congelata nella legge attraverso la flessibilità e la discrezionalità: da strapotere e connivenza diventa legalità, si trasferisce alla legge.

Siamo di fronte ad un dilagare di leggi sul governo del territorio inutili, non cogenti e anche di piani urbanistici e territoriali molto flessibili che lasciano le decisioni a chi di volta in volta, fra gli imprenditori, avrà più forza, come dire che sono i rapporti di forza che scelgono quali trasformazioni urbane avverranno, non certo la giustizia. Insomma le regole che dovrebbero proteggere i beni comuni se esistono possono essere stracciate, in base al solito diverso peso e diversa misura. Oppure si possono elaborare regole che rendono lecito e legale quello che non lo era. Certe descrizioni di cosa sia la governance assomigliano in modo sconcertante alle procedure proprie degli accordi illeciti di tangentopoli, come dire una legalizzazione dell’illegale. Non c’è limite all’asservimento di certi pseudo-intellettuali.

Tutto questo credo crei poca fiducia nella redazione di una legge. Un altro limite di ogni legge è che qualsiasi generalizzazione e inclusione di istanze sociali in una legge, sconta il fatto che il particolare viene ridotto e tagliato, svilito, quando diventa universale-generale, e molto viene perso. Questo non vuole dire che le leggi e i piani se opportunamente elaborati non possano contribuire a modificare i rapporti di forza e le regole del gioco. Leggi e piani possono essere usati per salvaguardare e far crescere i beni comuni, solo che dobbiamo essere noi “tecnici” a tradurre le istanze in norme e piani e dobbiamo essere noi (che conosciamo tanti trucchi) a farli diventare chiari e stringenti, fastidiosi per gli speculatori e i cacciatori di profitti e rendite, mai così intrecciate ed indissolubili come oggi. In questo contesto sta a noi essere chiare sulla posta in gioco e sui suoi limiti. Sta a noi definire come una legge sul governo del territorio possa assumere queste domande sociali di partecipazione e di qualità urbana e territoriale decisa e prodotta collettivamente.

Le lotte dei tanti comitati dei cittadini contro l’ennesima speculazione immobiliare, le lotte contro la TAV e la base USA al Dal Molin di Vicenza, decise in modo dittatoriale, alla faccia di tutte le false chiacchiere sulla democrazia e sulla partecipazione, mostrano quali problemi vanno affrontati; quali carenze sono presenti sui nostri territori e cosa manca. Le leggi devono inscrivere quelle norme che rispondano a quei bisogni e impediscano risultati socialmente deleteri.

2) Condividi, del tutto o in parte, l’idea che la scrittura della legge urbanistica nazionale potrebbe offrire una occasione per ribadire la responsabilità pubblica in materia di dotazioni territoriali minime e nel contempo per riflettere sui limiti degli standard urbanistici (spesso non applicati o applicati solo come mera quantità, senza nessuna attenzione alla qualità dei servizi, alla loro localizzazione, diffusione, accessibilità, tempi di realizzazione, ecc.) al fine di ridefinirli radicalmente anche alla luce dei cambiamenti che hanno attraversato la nostra società?

Le infrastrutture sociali del territorio: ovunque e dappertutto

Le dotazioni di infrastrutture sociali obbligatorie ed inderogabili devono essere riconosciute come elementi di qualità del territorio: nella legge sul governo del territorio, nella cultura e nelle pratiche delle pubbliche amministrazioni. Una responsabilità pubblica inderogabile. Gli standard urbanistici prescritti dal DM 1444/68 hanno costituito per molte amministrazioni un fastidioso obbligo da assolvere: spesso in modo formale e non sostanziale, come vincolo e non come servizio effettivamente predisposto. “Ho gli standard” per molti comuni significa averli sulla carta e non nella realtà, come se uno abitasse nell’immaginario e non nel territorio concreto.

Alcuni aspetti della normativa del DM1444/68 vanno modificati. E non mi riferisco agli standard per esempio delle scuole, in nome del fatto che nascerebbero meno bambini: una previsione, falsa e tendenziosa, visto che alcune amministrazioni le scuole se le sono vendute per far cassa e ora si rende necessario costruirne delle altre. Previsione smentita quindi, e che comunque non tiene conto del bisogno di istruzione permanente. Si potrebbero usare le scuole anche per altri utenti ed altre funzioni. I discorsi sulle prestazioni dei servizi e degli spazi collettivi residenziali avrebbero dovuto servire anche a questo: a capire che ci possono essere usi contemporanei, se sono compatibili, e che solo per fare un esempio, spazi usati al mattino e al pomeriggio dagli studenti possono essere usati da altri la sera. Le scuole possono essere pluri-funzionali, ed essere utilizzate anche per l’istruzione permanente, e le palestre, e le sale riunioni potrebbero essere utilizzate anche di sera. E non va dimenticata la grave carenza, rispetto alla domanda, di asili nido e scuole materne.

Nel DM 1444/68, va eliminata la differenziazione nell’obbligo di rispettare gli standard (rapporti massimi tra gli spazi destinati agli insediamenti residenziali e gli spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi) fra zone omogenee A (agglomerati urbani storici), B (aree totalmente o parzialmente edificate, diverse dalle zone A) e C (aree destinate a nuovi complessi insediativi). Infatti tutte le zone devono garantire i minimi di legge, anche le aree A e B. L’articolo 4 del DM prevede che le aree a servizio, per gli interventi in zone A e B, cioè in aree edificate del tutto o in parte, siano computati in misura doppia rispetto a quella effettiva, per rispondere ad una presunta difficoltà a reperire spazi per gli standard per esempio in un centro storico. Questo poteva avvenire “qualora sia dimostrata l’impossibilità – per mancata disponibilità di aree idonee…”. Se una qualche giustificazione poteva darsi in certe condizioni certo non è vera adesso, quando si liberano aree dismesse produttive e terziarie nelle aree edificate e gli interventi speculativi coprono tutto lo spazio disponibile e quello per i servizi pubblici alla persona non si trova mai. E’ successo che si liberasse spazio negli stessi centri storici ma invece di utilizzarlo per gli standard sono stati concessi nuovi interventi abitativi, uffici, commercio mentre i servizi sono stati spostati altrove, in zone meno appetibili e pregiate.

Va eliminato il “di norma” che precede la ripartizione delle quantità degli standard (“tale quantità va, di norma, ripartita”; art.3 secondo comma) che ha permesso ai comuni di limitare i servizi a parcheggi e verde magari sulla copertura del parcheggio, lasciando gli abitanti privi della qualità urbana di cui dovrebbero aver diritto. In una logica di stato non confessionale, le chiese vanno eliminate dagli standard: non solo perché ce ne sono già davvero tante, ma anche perché in base a questa norma la chiesa cattolica riceve dai comuni i fondi derivanti dagli oneri di urbanizzazione, quando mancano servizi essenziali come quelli per gli anziani (autosufficienti e non autosufficient) e i centri sociali e culturali pubblici. Gli edifici delle diverse confessioni vanno costruite a spese dei loro credenti. Compito dello stato è offrire gli spazi e i servizi universali cioè per tutti.

Ma abbiamo bisogno anche di nuovi spazi per servizi, oltre a quelli elencati nel DM, ed escluse come già detto chiese ed oratori. Case per anziani con lavoratori contrattualizzati cioè con orari di lavoro definiti e con tutti i diritti fondamentali da statuto dei lavoratori: anche assumendo le badanti straniere che così non si troverebbero da sole di fronte ai datori di lavoro, né sarebbero soli gli anziani, costretti ad andare al supermercato per vedere qualcuno. Luoghi di cura e di incontro per gli anziani nel mezzo degli insediamenti urbani per favorire l’incontro con gli altri di tutte le età: mai più soli.

Creare le nuove cattedrali laiche della cultura, della comunicazione, dello spettacolo, totalmente pubbliche. Imparare, insegnare, comunicare, discutere, decidere, progettare, assistere a spettacoli e guadare mostre, guardare gli altri, leggere, non da soli. Le scuole per tutti, lo spazio per l’istruzione permanente. Uso pubblico delle palestre. Centri sociali e case delle donne come spazi pubblici gestiti dai fruitori. Servizio alla persona universale significa che tutti devono poter accedere e che bisogna rompere la logica del servizio costruito dall’impresa privata che è disponibile a realizzare solo i servizi che rendono. Basti pensare al project financing che prevede siano attuati solo i servizi in grado di produrre reddito per ripagare che li realizza (e così si realizzano e sono davvero obbligatori solo i parcheggi a pagamento). Anche i mezzi pubblici e gli spazi pedonali fanno parte delle infrastrutture sociali urbane da rendere obbligatorie.

3) Il movimento delle donne ha già da tempo indicato la strada per ampliare il contributo dell’urbanistica alle politiche di welfare, andando ben oltre l’approccio delle “dotazioni territoriali minime”. Per quali ragioni, a tuo avviso, le tematiche legate alla qualità dei tempi e degli spazi di vita (le cosiddette politiche spazio-temporali) così come quelle relative alla sicurezza urbana, rimangono un ambito di riflessione, ricerca ed azione di alcune reti circoscritte ed animate soprattutto da donne?

Non ci sono tempi senza spazi. Tanta fatica per nulla: il problema non è facilitare l’assolvimento del ruolo ma liberare dai ruoli imposti. Solo per libertà.

Non ci sono tempi senza spazi. Senza nuovi servizi non ci possono essere politiche spazio temporali che rompano le discriminazioni. Le politiche su tempi e spazi che si focalizzano sulla conciliazione dei tempi rischiano di congelare e di dare per scontata una divisione dei compiti che non ha nulla di naturale né di immodificabile. Per qualcuno la politica di genere sembra sia caratterizzata dall’accorgersi delle discriminazioni e dei lavori delegati alle donne, ma invece di incidere con politiche efficaci su questa ingiustizia, si usano palliativi per rendere meno oneroso il doppio lavoro, senza cercare di superarlo e di individuare modi concreti per superarlo. Questo approccio lascia la dicotomia dei compiti attribuiti in base al genere a sé stessa e non propone altro che di “far correre meglio” di qua e di là le donne, ma non pensa minimamente che certi compiti dovrebbero essere una funzione sociale, attribuita a servizi pubblici. La famiglia viene incensata mentre le vengono attribuiti compiti abnormi rispetto alle sue forze: la cura degli anziani anche non autosufficienti, solo per fare un esempio, in nome della solidarietà, ma in realtà in nome del risparmio sul welfare. Un risparmio attuato per liberare risorse per un eccesso di autostrade e opere pubbliche non sempre così necessarie (alta velocità), oppure finalizzate allo sviluppo economico, di cui sarebbe più logico si facessero carico direttamente imprese e aziende che di quelle infrastrutture hanno bisogno per i loro spropositati profitti/rendite.

Le politiche spazio temporali hanno senso se se ci sono spazi da connettere e se ad essere connessi sono opportuni luoghi per nuovi servizi altre a quelli tradizionali, invece mancano elementi fondamentali di infrastruttura sociale come gli spazi pubblici e collettivi per l’incontro e la cultura. E ogni scusa è buona per eliminare quei pochi che ci sono. Se gli spazi da connettere sono solo i negozi, quelli, per vendere sono disposti ad essere aperti a qualsiasi ora. Allentare la rigidità dei tempi dei servizi, se i servizi non ci sono, non ha un gran senso.

Bisogna liberare gli spazi perché possano accogliere ed ospitare la creatività individuale e collettiva. Liberare gli spazi significa affrontare il nodo della rendita fondiaria e dei profitti immobiliari. Se non si cambia logica da quella del valore di scambio al valore d’uso, dalla razionalità economica a quella sociale, non avremo spazi da connettere, ma solo brandelli, sempre più piccoli di spazio privato (più piccoli perché i prezzi fanno ridurre lo spazio abitativo consentito).

Se la preoccupazione dei tempi riguarda le corse per far convivere lavoro domestico, di cura, la riproduzione, con il lavoro retribuito, fino a che sono le donne a farsene carico, chi altro dovrebbe occuparsene?

Altri problemi nel regolare i tempi attengono al fatto che il tempo di lavoro e la stessa occupazione tende ad essere sempre più flessibile. Come si fa a regolamentare? Il tempo di lavoro è sempre più faticoso: flessibile per i datori di lavoro, rigidissimo per noi. Tempi di lavoro e tempi di vita devono essere compresi e affrontati insieme. Altrimenti di chi e di che cosa stiamo parlando?

Quanto alla sicurezza urbana, il problema è che questo termine mette insieme significati troppo diversi, che creano gravi fraintendimenti. Una accezione di sicurezza, quella che ci interessa in una prospettiva di genere, è che le donne devono poter girare dappertutto, anche di notte, senza rischiare molestie, intimidazioni e violenze: il termine “sicurezza” non descrive questo bisogno di libertà di usare la città e il diritto alla inviolabilità e all’autodeterminazione delle donne. Infatti sicurezza urbana significa anche altro: per esempio ordine pubblico, spesso ingiusto, cioè debole con i forti e forte con i deboli. Non credo di dover fare degli esempi. Bisogna imparare ad usare i termini corretti per esprimere un concetto, in altri termini chiamare le cose con il loro nome, e sicurezza urbana non ha in sé la capacità di rappresentare la libertà delle donne nel muoversi nello spazio urbano. Anzi il rischio dell’uso del termine sicurezza urbana è che fa sembrare che la nostra libertà di donne si ottenga espellendo gli emarginati dallo spazio pubblico, mentre molti nostri nemici (sessisti) hanno soldi e sono apparentemente “per bene”, nessun vigile o poliziotto li fermerebbe mai per un controllo di ordine pubblico.

4) Cosa si potrebbe e/o dovrebbe fare perchè questo tipo di politiche, che peraltro sono state oggetto di alcune buone legge regionali, siano finalmente assunte da donne e uomini come politiche centrali da inserire con forza nelle scelte e nell’azione del nuovo Governo nazionale, contribuendo a ridisegnare le coordinate di un nuovo sistema di sicurezze e garanzie sociali (il cosiddetto welfare)?

Servizi pubblici e collettivi e la costruzione della città in comune

Una legge sul governo del territorio deve essere in grado di modificare i rapporti di forza e le regole di trasformazione urbana in favore di chi esprime un uso sociale delle città come bene comune. Bisogna liberare lo spazio dalla logica immobiliare e sviluppista, nel senso che deve prevalere il suo uso sociale su qualsiasi ipotesi di sfruttamento. Solo escludendo gli usi che producono rendita fondiaria – profitto immobiliare in favore di quelli di cui c’è davvero bisogno, potremo avere spazi in grado di ospitare nuovi modi di abitare, spazi comuni, collettivi, pubblici in cui possa svilupparsi la creatività sociale. Da un lato quindi va ottenuto spazio per quelle funzioni che sono oggi carenti nelle città: abitazioni a prezzi commisurati ai redditi (flessibili e fluttuanti) da lavoro e al mancato reddito dei disoccupati, servizi alla persona, spazi per l’istruzione permanente e per la cultura…

Ma un vero stato sociale, che in Italia non è mai esistito in pieno, oggi non può non porsi il problema del reddito per tutti. Se non c’è lavoro per tutti, tutti hanno bisogno di vivere. Luciano Gallino nel libro del 1998 “Se tre milioni vi sembran pochi. Sui modi per combattere la disoccupazione” afferma che in Italia esiste una vera e propria “miniera di lavoro” che non viene sfruttata. Le aree di crescita occupazionale secondo lui sono molteplici: la difesa del suolo e dei cittadini, i beni culturali, i trasporti, la formazione e la ricerca. La strada che Gallino individua non è quella di moltiplicare gli oggetti da tenere in casa o in ufficio o addosso, ma bensì di creare lavoro finalizzato al miglioramento della qualità della vita. Quante attività di cura sono necessarie e quanto bisogno hanno le città e le metropoli di una riqualificazione ed infrastrutturazione sociale che non è fatta solo di spazi ed edifici pubblici e collettivi ma anche di persone che danno loro senso e contenuto. Il lavoro di riproduttivo, di cura delle persone, deve diventare centrale, ma deve essere retribuito in modo diretto o indiretto. Se ho il reddito di cittadinanza posso fare lavoro sociale e di cura, ma anche culturale ed artistico senza sottostare alle logiche elitarie e segreganti del mercato capitalistico.

Non solo produzione ma anche riproduzione, non tanto produzione di oggetti ma produzione di relazioni e di cultura, e perché no, di felicità. Ricordate? Un salto di paradigma.

Nota

Il sito Tempi e spazi, Laboratorio sugli spazi , ospita un servizio a cura di Fanny Di Cara e Silvia Macchi (marzo 2007) su “Standard urbanistici fra tempi e spazi: verso quali scenari di welfare urbano?”.

In esso:

- un contributo di Marisa Rodano , che ha traccia “la storia del percorso intrapreso dal movimento organizzato delle donne, in particolare dall’Unione Donne Italiane, fra la fine degli anni ’50 e inizio anni ’60, per dotare le città di un minimo obbligatorio di servizi e per renderle rispondenti alle esigenze reali della popolazione”,

- le risposte di Patrizia Colletta, Marvi Maggio, Rossella Marchini, Anna Marson, Angela Scarpano alle domande sul tema: “Standard urbanistici fra tempi e spazi: verso quali scenari di welfare urbano?”

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