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Anna Marson
Due modelli di sviluppo per il Nord-Est italiano
1 Dicembre 2008
2009 Città bene comune, vertenza europea
Il testo della relazione al convegno “Città come bene comune, vertenza europea”, Venezia, 24 novembre 2008

Nel 2006, intervenendo a un convegno organizzato da Oscar Mancini sul Ptcp di Vicenza (Marson in Mancini.2007, pp.45-51) prefiguravo con funzioni euristiche due possibili scenari di riferimento possibili per il territorio veneto.

Il primo vedeva l’area centrale veneta attrezzata come luogo di transito e interscambio di persone e merci tra Est e Ovest (corridoio 5), tra vie di mare e Padania, tra Europa continentale e Italia centromeridionale. Nuove infrastrutture prevalentemente stradali e ulteriore urbanizzazione di suoli agricoli in prossimità delle stesse. Rischi degli investimenti scaricati sugli enti pubblici, impianti che generano rischi ambientali nei territori marginali.

Il secondo ipotizzava un restauro del territorio come patrimonio di collettivo, luogo di vita e di produzione di qualità, e cura delle eccellenze produttive e sociali. L’uno offerto da gran parte dei documenti ufficiali relativi allo sviluppo auspicabile per la Regione, il secondo da una molteplicità di esperienze di resistenza (alle distruzioni della memoria e del paesaggio, agli effetti del neoliberismo, ecc.) e innovazione (nelle relazioni sociali, nella produzione).

Mi chiedevo inoltre perché non si discutesse maggiormente di come fossero in prospettiva ripartiti, nell’uno e nell’altro scenario, i costi sociali, di genere e d’età, e i profitti. Ovvero perché non si chiarisse maggiormente, anche per i non addetti ai lavori, perché l’uno dovesse eventualmente essere preferito all’altro.

Nel frattempo, e in particolare negli ultimi mesi di questo anno 2008, si è resa manifesta la crisi della finanza creativa e delle economie da essa dipendenti. Con rare eccezioni, come l’incontro di oggi, non mi sembra tuttavia che se ne siano tratte le logiche conseguenze – nel dibattito politico ed culturale, meno che meno nel dibattito economico – per ciò che concerne i potenziali disastri del perseverare con un’urbanistica creativa (nel senso deteriore del termine) che continua a ignorare l’interesse collettivo.

Immagini presentate nei documenti ufficiali di pianificazione regionale, come quella del “terzo Veneto”, che ammiccano a un futuro non più agricolo né artigianal-industriale, non più città né campagna, mi sembrano riproporre un visioning conciliatorio di tutte le antinomie presenti, con la finalità di legittimare tutto e il contrario di tutto. Linguaggio creativo che copre operazioni spregiudicate, grazie al venir meno non solo di un quadro di regole generali, ma addirittura di una qualsivoglia coerenza linguistica. Si può dire una cosa e praticare l’esatto contrario, oppure dire cose contrarie a distanza di poche ore: la memoria collettiva sembra non svolgere più una funzione di selezione dell’attendibilità politica, o forse per funzionare ha bisogno di istituzioni che non esistono più, che sono state di fatto cancellate.

Nella stessa disciplina della pianificazione, in realtà, ho sempre più la sensazione che noi stessi docenti abbiamo contribuito – ancorché il più delle volte con inconsapevole buona fede – a produrre esiti fisici, concreti, non desiderabili per esserci eccessivamente persi nel considerare le dimensioni economiche e sociali nella loro generalità, anziché nelle ricadute specifiche sulla materialità dei nostri territori di vita quotidiana.

Territorio per noi è sì l’insieme degli attori e delle loro politiche, ma con riferimento alle piazze, alle case e alle campagne che ne vengono prodotte, e che anche attraverso la loro forma, la loro localizzazione, la loro dimensione rendono la nostra vita più o meno sociale, più o meno sostenibile, più o meno civile.

Il concetto di “civile” sintetizza a mio modo di vedere abbastanza bene la riflessione culturale (ebbene sì, innanzitutto tale) che dovremmo compiere rispetto ai disastri prodotti dal perseguire crescita e sviluppo, piuttosto che ricercare la giusta misura, una misura sostenibile e quindi sobria (garantire il necessario, esattamente il contrario dell’incitamento ai consumi diffuso anche stamattina dal Presidente del Consiglio italiano).

Non posso dunque esimersi dal criticare in qualche modo anche il titolo della relazione che mi è stata attribuita, anche se vi è chi argomenta che lo sviluppo non coincide necessariamente con la crescita, in quanto lo sviluppo può essere aggettivato come politico, sociale, e così via.

Mi sembra dunque opportuno mettere in guardia comunque dall’uso di questo termine, se vogliamo comunicare effettivamente qualcosa di nuovo.

“I discorsi sullo ‘sviluppo’, come nota Gilbert Rist (1996), traggono la loro forza dalla seduzione che esercitano, in tutti i sensi del termine: attrarre, piacere, affascinare, illudere, ma anche abusare, deviare dalla verità, ingannare…E si può dire che siano un elemento caratterizzante la ‘religione moderna’, una sorta di mitologia programmata” (Marson 2008, p.31).

La congiuntura attuale, di decrescita non programmata ma comunque in atto, può rappresentare una drammatica ma fertile occasione per riflettere su quali assetti del territorio siano sufficientemente civili per consentirci di vivere dignitosamente anche in condizioni di stagnazione, se non di vero e proprio declino esponenziale.

Non si tratta semplicemente di ripristinare gli “orti di guerra” o “le coltivazioni dei metalmezzadri”, che comunque male non fanno e anzi ci richiamano l’estrema utilità che ogni insediamento abbia una sua campagna di pertinenza, ma di riscoprire ciò che nel tempo lungo, attraverso vicissitudini economiche e sociali mutevoli, ha funzionato contribuendo alla riproduzione della vita e della convivenza civile.

E’ a questo punto forse superfluo chiarire come lo scenario che io ritengo auspicabile, lo scenario al quale dedico le energie di cui dispongo, sia il secondo fra quelli menzionati, dal momento che il primo è più espressione della finanza che investe in rendita fondiaria che di prospettive economiche seriamente fondate (Hesse 2006). Per rendere più possibile l’attuazione del secondo scenario cerco dunque di chiarire quali siano le mosse che è a mio avviso possibile mettere in campo.

Ho trattato di tutto ciò in un libro appena pubblicato, che si intitola “archetipi di territorio”. Non posso ovviamente riassumerlo nel tempo breve di questo mio intervento. Posso tuttavia cercare di richiamarne alcuni passaggi essenziali rispetto alle questioni fin qui menzionate e pertinenti rispetto al caso del Veneto.

Apparentemente si tratta di questioni poco pertinenti rispetto alla pianificazione e all’agire collettivo intenzionale. D’altronde, rispetto a questi aspetti, sarebbe doverosa e sufficiente una rivalutazione ed eventualmente un adattamento all’oggi delle politiche socialiste municipali di circa un secolo fa, e una riconsiderazione delle rivendicazioni sui servizi sociali come salario indiretto maturate a cavallo fra anni ’60 e ’70.

In realtà, ciò che mi appresto a richiamare rappresenta a mio avviso, me ne sono convinta nel tempo, dopo aver inutilmente sperimentato le vie del riformismo pianificatorio, un passaggio essenziale per riattivare energie sopite, per attivare riflessioni ed azioni non necessariamente basate su un’idea del Leviatano risolutore, dello Stato come risposta ai problemi collettivi, ma sulla responsabilizzazione anche individuale.

La prima questione è quella della perduta dimensione religiosa della terra, proprio in una regione che viene descritta come addirittura bigotta: terra divenuta suolo funzionale, dunque edificabile, inquinabile e quant’altro. Comportarsi civilmente nei confronti della terra (per esserne ricambiati con pari moneta, come si suole dire) significa riservarle il rispetto che si deve a una madre, prendersene cura, provarne empatia attraverso l’attenzione al paesaggio, la riduzione del ‘consumo’, la riscoperta delle terre comuni e dei beni che da essa ci possono essere regalati senza scambio monetario.

La seconda questione ha a che fare con le acque, di cui il Veneto è straordinariamente ricco. Tutte le nostre maggiori città sono cresciute in stretto rapporto con le acque: Venezia, ma anche Padova, Treviso, Vicenza, Verona, Rovigo e moltissime altre città minori. Acque oggi maleodoranti, spesso irraggiungibili, scarsamente utilizzabili, considerate un rischio anziché un dono. E le nostre sorgenti di risorgiva? Commercializzate dalla Nestlé. Perché mai dovremmo prendercene cura: per aumentare i profitti delle multinazionali? Che fine ha fatto la civiltà delle municipalizzate che circa un secolo fa garantiva a tutti gli abitanti l’approvvigionamento idrico? Sarebbe più facile convincere gli abitanti d’un luogo a prendersi cura delle proprie acque, se le sapessero loro.

E ancora, saltando altre questioni altrettanto importanti, i confini. Qui si tratta di affrontare un tabù della modernità, acquisendo consapevolezza che la perdita dei confini collettivi (la città infinita veneta) va necessariamente di pari passo con la moltiplicazione dei confini individuali, dei recinti di proprietà privata, che essendo privati possono essere difesi solo con le armi. Che ciò ci piaccia o meno. E l’assenza di confini, fa evaporare il centro, il luogo in cui posso confrontarmi con chi detiene il potere di rappresentarmi, lasciando solo i centri commerciali nei quali l’unica alternativa possibile è tra il consumare e l’astenermi dal farlo.

I sestieri veneziani, piuttosto che le parrocchie di qualsiasi nostra città, contribuivano a promuovere un senso d’appartenenza a una comunità proprio perché erano limitati, erano definiti a misura d’interazione sociale, avevano dei confini. Così come le città, i cui confini più che dalle mura (recinti sacri per tenere insieme la comunità, prima che per difenderla dai nemici) erano definite dalla campagna e dalle terre comuni.

Se i confini sembrano dunque un’esigenza imprescindibile della natura umana, una continuità della storia lunga, civili sono i luoghi che si danno dei confini collettivi, dei confini che responsabilizzano coloro che ci vivono nei confronti degli altri individui, non confini individuali entro i quali faccio ciò che mi pare, uscendone protetto dalla corazza dell’automobile.

La possibilità di andare a piedi, è civile: ma provate a percorrere a piedi le circonvallazioni urbane, le rotonde o gli svincoli che portano agli ipermercati! Sempre più costretti dalla necessità, dai fooddesert o da ciò che tende ad avvicinarsi ad essi. Un trasporto pubblico efficiente è civile: ma come si fa a servire con il trasporto collettivo un territorio urbanizzato in modo così diffuso? E poi bisogna crederci, nelle dotazioni collettive, e manutenerle (altrimenti gli scambi ferroviari sono sempre rotti, e i soffitti delle scuole crollano).

In questo nostro Veneto sempre più individualizzato, sono state erose anche attraverso le nuove forme delle urbanizzazioni quelle istituzioni sociali che generavano fiducia e sostegno sociale, all’origine del miracolo economico degli anni Settanta. Gli individui che sentono che tutto ciò non funziona, non produce benessere, non hanno oggi luogo dove ritrovarsi con loro consimili. Ben venga dunque il progetto delle Camere del lavoro di diventare luoghi di rete, di contaminazione, di riaggregazione della frantumazione sociale in essere.

Potremmo, e dovremmo, continuare a dialogare a lungo, con riferimento a territori specifici, a evidenze “sul campo”, per capire insieme quali siano i beni comuni, ovvero gli archetipi della convivenza civile, che anche in una prospettiva economica incerta e comunque sempre più drammaticamente polarizzata ci possono essere oggi e domani di supporto per vivere meglio, se non addirittura essenziali per sopravvivere, per dare forma e concretezza a una visione alternativa a quella che immagina il territorio quale supporto per lo sfruttamento dei differenziali di costo delle merci e degli esseri umani.

Riferimenti bibliografici

Hesse, Markus (2006) “Logistik Immobilien: von der Mobilitaet der Waren zur Mobilisierung des Raumes”, disP 167 (4), pp.41-51

Marson, Anna, “Scenari futuri per l’assetto del territorio veneto”, in O.Mancini (a cura di), Più piazze, meno cemento, Ediesse, Roma 2007

Marson, Anna (2008) Archetipi di territorio, Alinea, Firenze 2008.

Rist, Gilbert (1996),Le Développement. Histoire d’une croyance occidentale, Presses de Sciences Po, Paris

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