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Gustavo Franco; Zagrebelsky Cordero
Due commenti su B. e la Costituzione. Per entrambi si torna indietro di 4 secoli
12 Dicembre 2008
Articoli del 2008
Intervistati da Federica Fantozzi per l’Unità e da Giuseppe D’Avanzo per la Repubblica (12 dicembre 2008), due maitres à penser espongono la loro diagnosi sull’ultima tentata soperchieria del signor B.

l’Unità

«Cambiare la Costituzione? Così è pirateria istituzionale Vuole pm sottomessi»

di Franco Cordero

Giurista, autore di pamphlet polemici e docente di procedura penale, Franco Cordero commenta con disincanto l’intenzione del premier di modificare la Costituzione da solo, salvo referendum confermativo: «Sul piano tecnico c’è poco da dire: rispettando l’articolo 138 la maggioranza può fare ciò che vuole. Ma è pirateria politica. Un gesto di eversione mascherato legalisticamente osservando i requisiti costituzionali».

Un atto fuori dalla normalità istituzionale?

«Prima che emergesse Berlusconi non era concepibile che la Carta fosse modificata o solo emendata senza il consenso di tutte le parti. Ma siamo nel campo dell’onestà, della moralità, della fisiologia politica».

Per i costituzionalisti è una scelta legittima però inopportuna.

«Un gesto simile sarebbe autentica soperchieria. Equivale a dire: ho i numeri grazie ai quali faccio quello che voglio. Nessun giurista con la testa sul collo e sufficiente cultura può dire che una riforma così nasce invalida. Nasce vergognosamente combinata».

Fini, alleato di Berlusconi, ha evocato il cesarismo.

«È una formula debole rispetto a ciò che il premier ha in mente. Cesare e Ottaviano non agivano così. Ottaviano era rispettoso dell’autorità del Senato, non si arrogava poteri abnormi. Gli veniva riconosciuta auctoritas: prestigio politico, autorità morale, carisma. Ben lontano dalla fenomenologia che abbiamo sotto gli occhi».

Berlusconi non vuole ostacoli alla sua riforma della giustizia. La separazione delle carriere è utile o dannosa?

«È una formula eufemistica sotto cui vuole costruire il pm come ufficio investigativo che riferisce al Guardasigilli. Quindi le procure lunga mano del governo. È chiaro che salta il concetto di obbligatorietà dell’azione penale».

È un obiettivo realizzabile?

«Se anche si togliesse di mezzo questo aspetto, e l’articolo 112 fosse amputato, non si avrebbe un pm manovrato dall’esecutivo. La Carta non è fatta di norme disarticolate come atomi separati. È un sistema con nessi interni. Dunque la questione si invelenirebbe».

Fino a che punto?

«Nel delirio di onnipotenza Berlusconi punterebbe a una revisione radicale per fondare la signoria che di fatto già esercita. Il presidente eletto, investito di consenso carismatico che rende irrilevante il conflitto di interessi perché il popolo sovrano lo ha assolto. Discorsi da ignorante di logica costituzionale moderna».

Quali sono i pericoli?

«Quest’ottica implica una regressione di 7 secoli, al regime di signoria selvaggia. Un terrificante passo indietro fatto in una logica stralunata».

Sono proclami o si arriverà davvero a questo scenario?

«Politicamente il referendum è un grosso rischio. Se fallisse Berlusconi ne uscirebbe colto in flagrante debolezza. Credo che cercherà di acquisire, con metodi in cui lo sappiamo esercitatissimo, i consensi parlamentari che gli servono. Ma resta lontano dalla maggioranza dei due terzi che gli serve».

In questa legislatura il Parlamento non lavora a vantaggio del consiglio dei ministri. Un’altra anomalia?

«Decide lui con i suoi. Ha un concetto piratesco pure dei decreti legge. È una forma condizionata a presupposti di necessità e urgenza: in più casi il governo ne ha fatto un uso visibilmente abusivo».

Berlusconi usa la questione morale contro il centrosinistra. Ha qualche fondamento?

«Le regole morali valgono per tutti e l’affare Unipol non è stato edificante. Ma la sua logica è: tra noi e voi non esiste differenza antropologica, siamo tutti uguali in un paese dove i giudici non applicano equamente le leggi e i cittadini non hanno la moralità nel sangue, quindi non seccatemi. Ovviamente non è così».

Cosa dovrebbe fare l’opposizione ora che il dialogo è defunto?

«L’alternativa di una collusione non sarebbe stata molto più virtuosa. Se i contenuti della riforma restano lontani dall’ortodossia costituzionale, meglio che il premier vada da solo piuttosto che condividere un gesto soperchiatorio».

la Repubblica

"La Carta non è strumento di potere così Berlusconi torna a Cromwell"

di Gustavo Zagrebelsky

A Gustavo Zagrebelsky, costituzionalista e presidente emerito della Corte costituzionale, Repubblica chiede di riflettere ad alta voce sul significato e il valore dell’annuncio di Silvio Berlusconi: il premier vuole riformare, con la sua sola maggioranza, il Consiglio superiore della magistratura; separare in due diversi ordini la magistratura giudicante dalla requirente (i pubblici ministeri); un referendum popolare dovrebbe poi confermare entro tre mesi il disegno.

«Prima di discutere il merito - dice Zagrebelsky - qualcosa va detto sulle riforme mancate, sulle colpe, le responsabilità dei riformatori finora mancati. Mi definisco un conservatore costituzionale. Penso che il lavoro compiuto all’inizio di un ciclo politico sia sempre più apprezzabile, migliore, di un’attività in corso d’opera. E tuttavia non è che non veda come un grave deficit non aver adeguato i meccanismi di garanzia della Costituzione alle trasformazioni del sistema politico. Ne è un esempio proprio l’articolo 138?».

L’art. 138 della Costituzione regola le leggi di revisione della Costituzione.

«Appunto, l’art. 138 prevede che le riforme costituzionali debbano essere approvate con un ampio consenso raccogliendo il voto della maggioranza e di una parte dell’opposizione».

Qual era il significato di questo consenso qualificato?

«Che la Costituzione, la sua manutenzione, le sue modifiche non dovessero essere appannaggio della pura maggioranza. Poi però le leggi elettorali hanno cambiato il sistema politico, polarizzandolo su due sponde e ora chi ha il sopravvento nella competizione elettorale e conquista la maggioranza si fa da sé le riforme costituzionali».

Salvo poi sottoporle a referendum popolare, come ha ricordato Berlusconi.

«Berlusconi ha fatto un discorso piano. Prende atto della disciplina costituzionale, si fa votare la sua riforma con la maggioranza che il sistema elettorale attuale gli ha dato, chiede al referendum l’approvazione definitiva. Anche se ineccepibile, però, questo metodo cambia profondamente l’essenza stessa della Costituzione».

Perché, se quel metodo è previsto dalla stessa Costituzione?

«Perché ci sono due nozioni di Costituzione. La prima considera la Costituzione come strumento di chi governa. Per Cromwell, la Costituzione, è appunto Instrument of Government. Siamo qui alla presenza di Platone, Aristotele, Hobbes, Schmitt. Per venire al presente o al passato prossimo, non c’è in Sud America vincitore di elezioni, capo-popolo o colonnello, che non abbia e annunci un suo progetto costituzionale: è lo strumento di cui intende servirsi per esercitare il potere».

Qual è la seconda nozione?

«E’ la nostra. Qui il riferimento è John Locke. La Costituzione è inclusiva. Non è scritta da chi vince contro gli sconfitti. La Costituzione non si occupa di chi sia il vincitore. Scrive principi per tutti, garantisce i diritti di tutti. Noi siamo figli di questo costituzionalismo. La nostra Carta fondamentale è nata con la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo delle Nazioni Unite del 1948, con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà del 1950. La Costituzione italiana si colloca in questa tradizione. E’ nata per essere inclusiva, per valere per tutti. Non è uno strumento di potere ma di garanzia contro gli abusi del potere. Berlusconi invece vuole fare il Cromwell. Può essere ancora più chiaro se ritorniamo al 138. Quell’articolo prevede che anche un accordo politico ampio possa essere bocciato da una minoranza del corpo elettorale. Come si sa, il referendum costituzionale non ha il quorum e, se vanno a votare il 20 per cento degli italiani, l’11 per cento può bocciare la nuova legge. Il progetto di Berlusconi capovolge questa logica. Non riconosce al referendum un potere distruttivo, ma pretende che sia confermativo della riforma votata soltanto dalla coalizione di governo. Diciamo che la manovra, di tipo demagogico, manomette la Costituzione, annullando lo spirito di convivenza che la sostiene, e la trasforma in strumento di governo, in strumento di potere».

Si può dire che la riforma annunciata non fa che accentuare quella «china costituzionale» di cui lei spesso ha scritto: indifferenza per l’universalità dei diritti, per la separazione dei poteri, per la dialettica parlamentare, per la legalità.

«Sì. Un regime liberale-democratico adotta come principio ciò che dice l’articolo 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789: "Ogni società in cui la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri determinata, non ha costituzione". Una Costituzione che diventa strumento di potere contraddice la separazione dei poteri. E’ quel che sta accadendo. Abbiamo già un Parlamento impotente dinanzi a un governo che impone le sue scelte con il voto di fiducia. Ora è il turno della magistratura».

Lei condivide la previsione che la separazione del pubblico ministero dal giudice anticipa la sottomissione della magistratura requirente all’esecutivo?

«Ci sono molti aspetti discutibili nella divisione del Consiglio superiore della magistratura in due, ma uno è chiaro fin d’ora. Se un pubblico ministero non è un magistrato a pieno titolo, che cos’è se non un funzionario dell’esecutivo? E evidente allora che, secondo logica, quel funzionario dovrà dipendere da un’autorità di governo, così pregiudicando l’indipendenza della funzione giudiziaria e cancellando la separazione dei poteri. Mi chiedo: che bisogno c’è?».

E’ inutile nascondersi che è lo spettacolo offerto dalla magistratura, con il conflitto tra due procure, ad aprire spazi a questi progetti di riforma.

«Lo spettacolo è sgradevole e la situazione in cui versa la magistratura italiana è certamente insoddisfacente. Ma mi chiedo: le proposte che si avanzano eliminano le difficoltà e i difetti o li aggravano?».

Qual è la sua opinione?

«Per quel che ho letto, dalle inchieste di Catanzaro sono emersi collegamenti della magistratura con ambienti politici, finanziari, malavitosi. La soluzione che propone il governo - l’attrazione del pubblico ministero nell’area della politica governativa - rafforza quei legami e non elimina quindi le cause delle disfunzioni, mentre bisognerebbe lavorare per rendere effettiva l’autonomia della magistratura dai poteri economici, amministrativi, politici e, naturalmente, criminali. Il disegno di riforma, codificando una dipendenza, avrà un solo effetto: eliminerà la notizia di quei legami, non la loro esistenza. Continueranno a esserci, ma non si vedranno».

Quali sono le responsabilità della magistratura in questa crisi?

«Il sistema costituzionale assegna alla magistratura il massimo dell’indipendenza e non sempre questa posizione è stata usata con la responsabilità necessaria. Se le cose funzionano, il merito è della magistratura. Se non funzionano, bisogna dirlo, è della magistratura il demerito».

Quali sono le ragioni o le prassi o le convinzioni che inceppano l’autogoverno della magistratura?

«Non c’è dubbio che la formazione di correnti, che all’inizio è stata favorita da un confronto culturale (culturale era il dibattito su come si dovesse interpretare la Costituzione), ha finito per diventare strumento di promozione e di carriera. E’ una degenerazione. Se non hai una corrente alla spalle non assurgi a un incarico direttivo. Solo una corrente può proteggerti quando verrai giudicato per i tuoi errori. Mi sembra che l’autonomia non sia stata gestita nel senso per il quale è stata prevista».

Forse anche per questo è largo il consenso per una riforma.

«Ci sono le istituzioni e gli uomini. La migliore Costituzione può essere corrotta da uomini mediocri. Una mediocre Costituzione può funzionare bene con uomini capaci. Credo che la magistratura debba fare un severo esame su se stessa. Se il sistema non funziona, non ne porta anch’essa la responsabilità?».

Lei crede che questa riforma costituzionale alla fine si farà davvero?

«Si può sperare che nella maggioranza ci sia qualcuno che si renda conto della delicatezza delle questioni. Sono in gioco le garanzie, i diritti, i principi e l’eguaglianza del cittadino di fronte alle legge. Perché se la giustizia è controllata dalla politica, la funzione giudiziaria diventa strumento di lotta politica. Mi appare incredibile che si vada avanti su una strada così pericolosa e non ci siano voci responsabili che denuncino il pericolo, anche all’interno della maggioranza».

Se il governo, come dice Berlusconi, tirasse diritto?

«Siamo in una situazione tristissima. Penso che occorrafar breccia nelle convinzioni collettive, spiegare all’opinione pubblica che non si buttano via da un giorno all’altro secoli di storia e di v

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