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Eric Tello
Venticinque idee e qualche proposta per una nuova cultura del territorio
18 Ottobre 2008
Paesaggio (e territorio, e ambiente)
Una riflessione dalla Catalogna: definizioni, tesi e proposte per la rivista I frutti di Demetra

1. Il primo obiettivo della gestione territoriale dev’essere quello di conservare e migliorare il funzionamento ecologico della matrice territoriale intesa come un tutto e non unicamente quello di conservare una serie di spazi naturali isolati o di specie singolari ed emblematiche. Questo principio, che dovrebbe condizionare tutti gli altri usi delle risorse naturali al mantenimento del suo buon stato ecologico, è già stato accettato, almeno sulla carta, dalla Direttiva quadro per l’azione comunitaria in materia di acqua dell’Unione Europea nel 2000. Sebbene nello stesso anno sia stata lanciata a Firenze la “Convenzione Europea del Paesaggio”, ispiratrice in alcuni paesi o regioni europee delle prime leggi sul Paesaggio, come per esempio quella approvata nel 2005 dal Parlamento della Catalogna, questo criterio non è riuscito tuttavia ad aprirsi una strada nella gestione e ordinamento del territorio. Affinché ciò accada bisogna spingersi molto più in là di una mera condizionalità paesaggistica superficiale, situando la salute degli ecosistemi come priorità reale di tutte le decisioni che riguardano il territorio (dai piani di bacino idrografico,con la delimitazione e l’inventario delle masse d’acqua, ai piani di portata della nuova politica idrologica; dai piani quadro di politica forestale, con le direttrici di connettività ecologica, le strategie di salvaguardia della biodiversità o la rete Natura 2000, passando per una politica globale dell’agricoltura e della pastorizia, per la progettazione delle infrastrutture e di qualsiasi altro provvedimento della pianificazione territoriale: dalle politiche abitative fino ai Piani Regolatori o alla valutazione ambientale strategica dei piani e dei programmi urbanistici). Dobbiamo renderci conto che le risorse e i servizi territoriali sono un patrimonio comune insostituibile, con una capacità limitata che non potrà mai sostenere una crescita illimitata, né tantomeno venire rimpiazzata una volta subiti danni irreversibili.

2. Così come afferma la “Convenzione Europea del Paesaggio” del 2000, da cui deriva la legge catalana recentemente approvata, tutto il territorio è paesaggio: dagli spazi urbani e periurbani, ai poligoni industriali e le infrastrutture, fino agli spazi naturali protetti, passando per i mosaici agricoli, orticoli e forestali. Gli uni e gli altri devono potersi combinare e convivere secondo una scala diversificata della presenza e dell’intervento umano, mantenendo il funzionamento dei sistemi naturali di tutto il territorio in un buon stato ecologico al fine di garantire la continuità dei servizi ambientali che ci forniscono. Perciò qualsiasi azione settoriale che concerne il territorio deve porsi come primo obiettivo il mantenimento e la miglioria del suo buon stato ecologico (includendo sia gli aspetti intangibili, come per esempio la bellezza, sia quelli più materiali e tangibili).

3. Le politiche dirette alla conservazione della natura sviluppate nell’ultimo mezzo secolo in tutto il mondo sono giunte a un vicolo cieco. Questo cul de sac obbliga a mettere in discussione due idee fondamentali, una implicita e l’altra esplicita alla filosofia tradizionale della conservazione ambientale. La prima idea che bisogna abbandonare è la erronea convinzione secondo la quale la protezione degli spazi deve consistere nel ritiro di qualsiasi forma d’intervento o di presenza umana negli stessi, col fine di restituirli a un ipotetico stato “naturale” primogenito. La seconda è un effetto perverso, e chiaramente non desiderato da chi durante molti anni ha abbracciato onestamente questa filosofia della conservazione: il presupposto che, oltre la frontiera degli spazi “naturali” protetti, le azioni umane sul resto del territorio possono svilupparsi senza limiti né precauzioni, dato che la “preservazione” della diversità biologica è già garantita. La Strategia Mondiale della Conservazione già dal 1980 fa distinzione tra un concetto di mera “preservazione” del tipo guardare ma non toccare e il vero concetto di conservazione che implica invece un uso sostenibile, prudente e responsabile delle risorse e dei servizi ambientali del territorio. Tuttavia questa filosofia della conservazione non è ancora giunta ad essere pienamente compresa da chi assume le decisioni politiche pubbliche dei paesi e delle regioni europee, e ancor meno ad essere messa in pratica come si dovrebbe. Il superamento di queste vecchie convinzioni che l’esperienza pratica della gestione ambientale, e l’elaborazione teorica dell’ecologia del paesaggio, hanno dimostrato essere profondamente erronee, ci porta a porre come nuovo obiettivo della conservazione il mantenimento e la miglioria del buon stato ecologico del territorio come un tutto.

4. L’indicatore più chiaro del buon stato del territorio è la salute dei suoi ecosistemi e la biodiversità che possono accogliere. Tuttavia non è facile capire che cos’è la biodiversità, troppo spesso confusa con una specie d’inventario patrimoniale ex situ della diversità biologica. Ciò che più importa non è solo quante specie diverse si trovano in uno spazio, ma come queste si combinano in diverso modo e interagiscono tra di loro in ogni luogo concreto. Così come la ricchezza della comunicazione non proviene solo dal numero di lettere dell’alfabeto ma dalla loro combinazione in parole diverse che acquisiscono significati diversi, la ricchezza della biodiversità sorge dalle combinazioni della diversità biologica che danno differenti espressioni al territorio, generando una gran varietà di paesaggi. È per questo che la biodiversità va strettamente correlata con la diversità dei biotopi o con la molteplicità di ecotoni. La chiave per favorire e conservare la biodiversità risiede nella struttura e nella connettività eco-paesaggistica dell’intera matrice territoriale. Per mantenere il buon stato ecologico del territorio è necessario che la struttura del suo mosaico di pezzi o tasselli diversi offra un habitat a un ampio ventaglio di specie animali e vegetali, e che la loro ricerca di opportunità alimentari e di interazione non venga ostacolata da barriere insormontabili che ne isolino le popolazioni.

5. Tra i due estremi rappresentati dalle zone urbane o industriali da un lato e gli spazi naturali protetti dall’altro, sono gli spazi agricoli e forestali a occupare una proporzione maggiore della matrice territoriale. La moltitudine di specie considerate emblematiche che trovano rifugio negli spazi protetti per nidificare e riprodursi sono responsabili di un intenso sfruttamento trofico degli spazi agricoli, orticoli e forestali umanizzati, dove vivono e si riproducono anche molte altre specie. Dallo stato dei mosaici agroforestali dipende pertanto la qualità ecologica della matrice territoriale come un tutto.

6. Una delle difficoltà più gravi per sviluppare una nuova cultura del territorio, orientata a mantenere e migliorare il suo buon stato ecologico, risiede nel fatto che l’agricoltura, la pastorizia e la silvicoltura sono diventate nei paesi sviluppati attività economiche sempre più residuali, che generano troppo poco valore aggiunto al mercato e che offrono una occupazione remunerata a una popolazione lavoratrice sempre più ridotta e invecchiata. Allo stesso tempo però lo stato attuale e futuro della maggior parte del territorio continua a dipendere da una popolazione attiva agraria rimpicciolita e impoverita. Non si tratta solo di una perdita di braccia o di “attivi”, ma del pericolo di estinzione di molte subculture agricole, pastorizie e forestali tradizionali, con una grande diversità di conoscenze empiriche e pratiche o di professioni che si svilupparono per tentativi ed errori durante la millenaria coevoluzione delle differenti agricolture nelle diverse bioregioni del pianeta. Ma proprio quando le vecchie culture contadine sono più necessarie a un mondo sottoposto a un cambiamento globale incerto, esse si trovano in serio pericolo d’estinzione. Questa è una delle contraddizioni più profonde di un mondo sottoposto a un processo di globalizzazione mercantile insostenibile, come denunciano le piattaforme delle organizzazioni rurali, recentemente anche in Spagna con la Declaración de Somiedo sobre culturas campesinas y biodiversidad (Dichiarazione di Somiedo sulle culture contadine e biodiversità). Nella Convenzione sulla Biodiversità e nella Convenzione dell’UNESCO del 2003 per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale si parla della necessità di conservare le “conoscenze ecologiche tradizionali” delle vecchie pratiche e mestieri. Il World Heritage Center dell’UNESCO ha dato vita infatti a una Banca Mondiale dei Saperi Tradizionali (World Bank on Traditional Knowledge) per promuovere la preservazione e lo scambio fra quelle vecchie culture agrarie diventate sagge nella gestione ambientale del territorio. Parchi agricoli come quello approvato in Catalogna nel Baix Llobregat o quello del Gallecs nel Vallès (Barcellona) sono solo l’inizio di un gran movimento che dovrebbe abbracciare tutto lo spazio agricolo per dare futuro e vitalità al mondo rurale. I nuovi approcci della politica agraria e dello sviluppo rurale dell’Unione Europea potrebbero favorirlo sempreché vengano intesi come un vero cambiamento di paradigma e non solo come un mero complemento accessorio di certe pratiche agricolo-pastorizie insostenibili.

7. Il degrado delle qualità ambientali del territorio proviene da un lato dalle dinamiche che intensificano gli usi umani su una piccola parte dello stesso infarcendolo di spazi urbanizzati, attività industriali, infrastrutture e attività agricole e pastorali intensive fino a limiti insostenibili. Mentre dall’altro lato tale degrado è originato dalle dinamiche socio-ambientali derivate dall’abbandono del mondo rurale nella maggior parte del territorio. Il degrado ambientale proviene quindi sia dall’ecceso come dal ritiro dell’intervento umano nel territorio. Ciò è particolarmente rilevante per i paesaggi mediterranei.

8. Per gli effetti sugli accidentati rilievi di determinate precipitazioni e di certi corsi fluviali molto irregolari, combinati a una forte insolazione, i paesaggi mediterranei si caratterizzano in modo naturale per una elevata diversità di cellule territoriali ed ecotoni o zone di transizione differenti, sottoposte a forti variazioni nello spazio e nel tempo. Il solatìo contrasta con l’abacìo, le pianure con le montagne, i fiumi con i torrenti intermittenti, le piogge torrenziali e le grandi piene con i periodi di intensa siccità e così via. Questo è il segreto dell’elevata biodiversità di questa particolare regione della Terra. Nel corso dei millenni l’attività agraria tradizionale ha lavorato con questo tratto distintivo della matrice territoriale mediterranea, e ha imparato per tentativi ed errori a coevolvere con essa cercando diversi equilibri dinamici tra sfruttamento e conservazione attraverso la localizzazione nello spazio di anelli o tasselli di presenza e attività umane territorialmente diverse. Il risultato è stato la magnifica varietà di mosaici agro-forestali che hanno configurato i nostri paesaggi tradizionali nel Mediterraneo, in cui l’intervento umano nell’ambiente ha teso generalmente a incrementare o mantenere l’agrodiversità e la biodiversità come garanzia di stabilità.

9. Ma la grande trasformazione sperimentata dall’agricoltura con quella che viene erroneamente definita “rivoluzione verde”, diffusa su grande scala dopo il 1950, ha generato una gravissima scompensazione territoriale dell’attività agraria che ha portato alla fine della vecchia gestione integrata del territorio. L’allevamento intensivo ingrassa razze di animali allogene mediante mangimi importati e inquina gravemente molti dei paesi dalla Catalogna con un eccesso di escrementi. La produzione agricola e ortofrutticola si concentra in una parte limitata del territorio più facile da meccanizzare, dove l’applicazione massiva di fertilizzanti sintetici, irrigazione, pesticidi ed erbicidi, e certe sementi ad alta produttività, acquistati alle imprese multinazionali e funzionali allo sfruttamento monocolturale, ha trasformato l’agricoltura in una importante fonte d’inquinamento diffuso (mentre agricoltori e pastori si trovano sempre più prigionieri delle catene agro-alimentari industriali che accaparrano la maggior parte del valore aggiunto vandendo loro semi, fertilizzanti e agro-chimici da un lato e commerciando i loro prodotti dall’altro). Il resto dell’antico spazio agrario ha perso ogni tipo di funzione economica dando luogo a un processo di riforestazione frutto dell’abbandono delle antiche agricolture di versante. L’architettura del paesaggio pazientemente costruita dal lavoro contadino, con una infinità di terrazzamenti sostenuti da muri a secco e un esteso reticolo di sentieri di ogni lunghezza, spesso molto ben disegnati, dà forma a un patrimonio culturale che sembra condannato a sparire in un tempo così breve da non consentirne la mappatura, l’inventario e la catalogazione.

10. Lo scompenso territoriale dei flussi materiali ed energetici che muove questa attività agraria sempre più insostenibile, ecologicamente ed economicamente, e che nonostante tutto continua a occupare la maggior parte del territorio, ha originato una drastica semplificazione dei paesaggi agricoli e forestali. L’antico mosaico agro-forestale mediterraneo è stato sostituito nelle pianure da appezzamenti sempre più grandi ed uniformi di monocoltivi intensivi, dove appaiono fattorie industriali d’allevamento all’ingrasso territorialmente disintegrate, mentre lungo le pendenti dei versanti proliferano masse continue e uniformi di boschi giovani, monospecie, eccessivamente densi, molto vulnerabili e non sfruttati.

11. Questa duplice dinamica di intensificazione e abbandono è all’origine di due delle tre patologie ambientali più gravi del nostro territorio: il degrado in quantità e qualità delle acque superficiali e sotterranee —che in Catalogna per esempio riguarda l’insieme dei bacini interni e il tratto finale del bacino dell’Ebro— da un lato, e dall’altro la crescente diffusione di incendi forestali che —di nuovo in Catalogna ma come in tanti altri luoghi d’Europa e del Mediterraneo— hanno la loro principale origine nel fatto che attualmente ci sono quasi più boschi che in qualsiasi altro periodo del millennio precedente, ma si tratta tuttavia di un bosco lasciato a se stesso per la sua mancanza di redditività economica, poiché quasi tutti gli usi legati alla raccolta multipla tradizionale sono spariti (l’unica rilevante eccezione in Catalogna è costituita dai funghi, in quanto il valore economico di quelli che crescono nelle superfici forestali supera il valore della vendita del legname e della legna da ardere, senza che i proprietari o i comuni ne ricevano alcun beneficio). I pochi boschi cedui maturi che restano alla Catalogna si sono trasformati nell’unica fonte di reddito, anche se il loro sfruttamento può comportare una grave perdita della biodiversità che custodiscono.

12. Molta gente continua a credere erroneamente che il bosco aumenta la disponibilità d’acqua, senza rendersi conto che pure ne consuma. I boschi hanno certamente un ruolo importante nella protezione del suolo, nella stabilità dei versanti, nella regolazione dei bilanci idrici e nella riduzione dei rischi idro-geologici delle piene (che costituiscono di gran lunga il primo rischio naturale del nostro paese). In questo senso, molti boschi di montagna sono protettori nel senso più letterale del termine. Però è altrettanto vero che in molti casi l’aumento della evapotraspirazione cui dà origine la crescita del bosco può eguagliare o superare gli effetti che ha sull’incremento delle precipitazioni e sulla regolarizzazione del corso d’acqua nel bacino. Perciò, —e specialmente nella bioregione mediterranea— avere più boschi può voler dire, molto spesso, avere meno acqua. Parte della perdita di molte delle antiche fonti ha infatti questa origine, così come la riduzione della capacità di molti fiumi e torrenti (in Catalogna parte di questa perdita nel Delta del Ebro non può essere imputata all’incremento delle estrazioni dei poligoni di irrigazione, alle città o agli usi industriali lungo il corso del fiume).

13. Lo stress idrico che caratterizza la bioregione mediterranea implica inoltre che a causa della mancanza di umidità le popolazioni di microrganismi o di insetti saprofiti non possono scomporre tutta la biomassa morta che genera la crescita del bosco. Le parti legnose secche con maggior contenuto di legnina tendono infatti ad accumularsi nelle superfici forestali, finché un lampo, o qualsiasi altra fonte incendiaria, provoca la loro scomposizione attraverso il fuoco. Questa è la ragione ambientale per cui il fuoco è sempre stato un fattore della dinamica evolutiva dei boschi mediterranei ed anche delle forme tradizionali di adattamento umano a questo ambiente. Le culture contadine tradizionali della Catalogna hanno fatto per esempio un ampio uso della pratica dei «formiguers» e delle «boïgues». Con i «formiguers» si raccoglieva nei boschi le frasche per bruciarle nei campi in pile ricoperte di terra per poi fertilizzarli con le ceneri ottenute. Le «boïgues» catalane, o «rotes» di Maiorca, aprivano invece nei boschi delle radure in cui venivano piantati vigneti o seminati cereali come coltivazioni temporanee e, una volta completato il ciclo, il terreno veniva restituito al bosco. I fitti boschi attuali sono farciti di «sitges» o «places» (NdT piazze da carbone o ial) dove nel corso dei secoli erano bruciate svariate carbonaie. Si è dato anche un abbondante consumo del sottobosco o strato arbustivo specialmente in forma di fascine d’erica arborea e corbezzolo, e di «costals de brancada» chiamati anche «torrat de pi», (NdT fascine di rami e tronchi di pino) che per la loro forte infiammibilità costituivano gli acciarini abituali di tutti i focolari domestici e di tutti i forni: quelli per il pane, le ceramiche, le terracotte, le tegole e piastrelle, ecc. Inoltre lo sfruttamento dei pascoli naturali per il bestiame locale o transumante e l’uso dei tratturi mantenevano aperte molte radure in spazi forestali non sempre a forestati.

14. Per molti secoli i boschi mediterranei sono coevoluti con le pratiche delle «boïgues» e dei «formiguers» catalani, con il taglio del legname o la fabbricazione di carbone, la raccolta di fascine, la pastura di ghiande, l’estrazione del sughero e la raccolta della legna, delle castagne e delle pigne, delle piante medicinali, degli asparagi selvatici, dei funghi o del fogliame impiegato come fertilizzante, oltre a tutti gli altri molteplici usi che la cultura contadina faceva del bosco e che richiedeva il mantenimento di una infinità di sentieri aperti. Questi usi agro-forestali e pastorizi includevano anche un certo ricorso selettivo e puntuale al fuoco per mantenere la frontiera tra lo spazio forestato e il pascolo. L’origine del carattere epidemico degli incendi forestali è quindi la combinazione dell’abbandono di tutti quegli usi multifunzionali del bosco della cultura contadina tradizionale, con una crescita disordinata delle masse boscose sempre più grandi, uniformi e abbandonate a loro stesse. Sempre più esperti affermano che l’alternativa ai fuochi incontrollati è il ritorno al “fuoco verde”, controllato e diretto a riaprire radureper stabilirci uno sfruttamento pastorizio estensivo che aiuterebbe inoltre allo sviluppo della biodiversità (così come ha già cominciato a fare il Centre de la Propriété Forestière nella zona mediterranea della Francia e come raccomanda il Nuovo Piano Direttivo di Politica Forestale della Generalitat de Catalunya).

15. L’agricoltura e la pastorizia ecologica sono i primi grandi alleati della nuova cultura del territorio, che deve trovare soluzioni integrali alle gravi disfunzioni ambientali di un modello agro-pastorale diventato totalmente estraneo all’ambiente che utilizza e che è ecologicamente ed economicamente insostenibile. Le tecnologie agricole di quella che viene erroneamente definita “rivoluzione verde” hanno fatto il loro corso e il loro superamento ci conduce a un punto di svolta decisivo. Le “soluzioni” transgeniche che vogliono imporre le stesse imprese multinazionali, che già controllano una gran parte della catena alimentare mondiale, non presuppongono altra cosa che dare un altro giro di vite a un modello agro-pastorale insostenibile, indifferente nei confronti del territorio, tale da distruggere la diversità agraria e minare la biodiversità. Se la volontà democratica della cittadinanza e la ribellione dei consumatori e consumatrici consapevoli non sbarra il passo all’imposizione dei prodotti transgenici, non ci potrà essere futuro nemmeno per una nuova agricoltura e pastorizia ecologiche che ritornino a lavorare con la natura attraverso sistemi territorialmente integrati.

16. Le disfunzioni ambientali che il territorio soffre e la risoluzione dei conflitti che esse generano richiedono soluzioni integrali. Se non apriamo la strada a opzioni territorialmente sinergetiche, ogni problema parziale trattato in modo isolato non potrà trovare valide vie d’uscita. Mentre sussiste ancora un discorso che afferma che il Mediterraneo in generale, e la Catalogna in particolare, è un paese povero in risorse energetiche, e che per tanto è necessario importare elettricità nucleare francese o prolungare la vita utile delle centrali nucleari del nostro territorio, la maggior parte dei boschi che crescono negli antichi spazi agrari abbandonati rimangono senza nessun tipo di sfruttamento e mantenimento. Una buona gestione ambientale del territorio, orientata a migliorarne lo stato ecologico e a fomentarne la biodiversità, reclama recuperare la vecchia pratica della «boïga» riaprendo radure e cammini di accesso al bosco, e approfittare del disboscamento selettivo come una fonte addizionale di energia rinnovabile attraverso piccole piante di biomassa integrate con i paesi vicini. Quando il discorso ufficiale afferma ancora adesso che non esistono alternative a una pastorizia intensiva scollegata funzionalmente dallo spazio coltivato, e che solo ricerca soluzioni in extremis al problema dell’accumulo d’escrementi, quegli spazi del bosco selettivamente aperti potrebbero accogliere una nuova pastorizia ecologica estensiva che offrra al mondo rurale nuove opportunità per generare valore aggiunto fornendo alimenti di qualità insieme al miglioramento dello stato ambientale del territorio. Mentre le politiche agrarie ignorano ancora l’immenso patrimonio dei versanti terrazzati a fasce e ronchi, o affermano che il loro mantenimento è economicamente insostenibile, un buon ordinamento del territorio dovrebbe aprire prioritariamente radure proprio dove si trovano le terrazze e i sentieri da recuperare. Quando molta gente identifica ancora lo sviluppo eolico o lo sviluppo degli orti solari con il degrado del paesaggio, una ricerca di soluzioni territorialmente sinergetiche può trovare nelle zone ventose un luogo adeguato per gli aereogeneratori e per i pannelli fotovoltaici in molti di quei nuovi spazi dediti alla pastorizia o agro-forestali diradati dove si dovrebbero aprire nuove vie d’accesso o, ancora meglio, recuperare quelle antiche andate perse. Sbloccare questo falso conflitto tra lo sviluppo delle energie rinnovabili e il mantenimento di un buon stato ecologico dev’essere una priorità della nuova cultura del territorio. Dobbiamo trovare soluzioni integrali basate nella sinergia territoriale.

17. Le masserie e le comunità rurali hanno portato avanti per molti secoli una accurata gestione integrata del territorio indotta dalla necessità: dipendevano dagli animali per ottenere concime e forza da traino, e solo attraverso una ragionevole integrazione dell’allevamento del bestiame con gli altri usi agricoli e forestali del territorio era possibile contrarrestare la considerabile perdita energetica che comportava la loro alimentazione. Facevano un uso efficiente del territorio proprio perché erano poveri di energia e di materiali di origine inorganica. Con l’arrivo del consumo di massa di combustibile fossile e di fertilizzanti chimici, la gestione integrata del territorio ha smesso di essere una necessità. Ma la fine di quella necessità doveva essere anche la fine delle sue virtù? La risposta è: non necessariamente. Una pianificazione e gestione ordinata del territorio avrebbe potuto rilevarla.

18. Non è un caso che la pianificazione regionale e urbana sia stata una scoperta che si è avuta, in Catalogna come in tutta Europa, nello stesso momento storico in cui le vecchie culture agrarie cominciavano a perdere la loro millenaria capacità di gestire il territorio in modo integrato. Se nel nostro paese abbiamo patito fino a oggi un vuoto così grande nella pianificazione territoriale e un eccesso così sproporzionato nello sfruttamento del suolo a fini speculativi, tutto ciò ha molto a che fare con la mancanza di democrazia o con il basso livello di quella che abbiamo conosciuto realmente. Per rendersene conto basta attraversare i Pirenei e confrontare i paesaggi rurali e urbani che troviamo in direzione nord con il grave disordine del nostro territorio. Dai grandi e innovatori urbanisti come Ildefons Cerdà (1815-1876) e Cebrià de Montoliu (1873-1923), fino a Nicolau Rubió i Tudurí (1891-1981) e Santiago Rubió i Tudurí (1892-1980) o il GATCPAC (1928-1939) (NdT gruppo d’archittetti della Barcellona repubblicana ispirato ai principi di Gropius e Le Corbusier), in Catalogna circolavano proposte molto chiaroveggenti e innovatrici circa la pianificazione urbana e l’ordinamento territoriale. È stata proprio la mancanza delle libertà politiche e l’enorme impoverimento culturale durante la dittatura di Franco a creare un gravissimo vuoto di pianificazione, tale da lasciare una impronta molto visibile nel degrado di tutto il litorale, delle città, dei quartieri, dei poligoni industriali, delle zone turistiche o delle aree rurali abbandonate. È ora ormai che i piani territoriali parziali e i piani direttivi urbanistici integrino tutte le richieste e i condizionanti di una valutazione ambientale strategica rigorosa.

19. Dopo tre decenni di istituzioni democratiche, l’ordinamento territoriale è ancora una questione irrisolta e lo sfruttamento del suolo a fini speculativi continua a imporsi troppo spesso sulla volontà cittadina e sugli interessi generali del paese. Il vuoto di pianificazione territoriale ha ancora molto a che fare con il basso livello di democrazia derivante da una transizione politica post franchista niente affatto esemplare. L’avanzata di una nuova cultura del territorio, che ponga il mantenimento del buon stato ecologico al centro dell’ordinamento degli usi del suolo, ha bisogno di una democrazia più partecipativa e di maggior qualità deliberativa di quella attuale.

20. Il compito più urgente dei movimenti sociali che si sono sollevati contro la speculazione privata del suolo e la mancanza per molti anni di politiche pubbliche di regolazione del territorio all’altezza delle circostanze è stato ed è ancora quello di bloccare i nuovi progetti di edilizia residenziale e turistica nelle zone del litorale già saturate fino a estremi assurdi, di nuove autostrade e strade in aree già circondate da grandi arterie al servizio del trasporto motorizzato, di campi da golf, di linee d’alta tensione o di altre infrastrutture aggressive, spesso innecessarie o persino controproducenti per il nuovo modello territoriale di cui abbiamo bisogno. La cultura del “qui no”, di cui si lamentano molti poteri di fatto, non è altra cosa che la reazione a questa mancanza di deliberazione, partecipazione e pianificazione democratica del territorio. Allo stesso tempo, per avanzare realmente verso un nuovo modello territoriale che mantenga in buono stato il suo funzionamento ecologico è necessario che la protesta venga accompagnata alla proposta di soluzioni innovatrici e coerenti del problema dal punto di vista socio-ambientalmente a tutti livelli (locale, regionale, nazionale, statale, europeo e globale). Queste soluzioni devono essere territorialmente sinergetiche. Cioè devono contemplare allo stesso tempo tutti i versanti correlati della questione (rurale e urbana, energetica ed eco-paessagistica, materiale e culturale, tangibile e intangibiile, ecc.).

21. La terza gran patologia ambientale del nostro territorio è fatta di cemento e asfalto e consiste nell’avanzata forsennata di una urbanizzazione speculativa. Per effetto della moltiplicazione della rete viaria pubblica al servizio di automobili e camion privati, le regioni metropolitane di Barcellona, Girona e Tarragona stanno sperimentando un processo di conurbanizzazione dispersa che invade alcuni dei migliori terreni del territorio annullandone le funzioni ambientali, distrugge spazi liberi e possibili connettori biologici, tende a segregare socialmente le persone nello spazio a seconda dei livelli di reddito e/o dell’origine sociale o culturale, incrementa la distanza tra luogo di residenza e lavoro o servizi, e moltiplica esponenzialmente la dipendenza dall’automobile, la produzione di residui urbani, la spesa energetica, il consumo d’acqua e le emissioni disperse di gas serra per abitante. Una nuova cultura del territorio deve avere come massima priorità frenare questa febbre costruttrice di suburbi dispersi, e riorientare la crescita urbana verso un altro modello basato su una rete di città e centri più densi, misti e polifunzionali, socialmente integratrori, dove diventi possibile far la pace con la natura.

22. In molte province ha preso piede un discorso sommamente ambiguo che attribuisce “alla città” o “a Barcellona” tutti i mali di cui soffre il territorio. Questo discorso mette sotto silenzio, in primo luogo, le patologie ambientali originate da un modello agricolo e pastorale insostenibile, che è divenuto una delle principali fonti del degrado paesaggistico e dell’inquinamento diffuso. In secondo luogo, nasconde che anche nelle altre province non barcellonesi la maggior parte della popolazione vive e lavora in città e centri dove il consumo di energia e di acqua per abitante e le emissioni di gas serra sono uguali o spesso superiori a quelle degli abitanti delle regioni metropolitane. Tuttavia l’errore più grave di questo discorso è non capire che la città dev’essere una parte sostanziale delle soluzioni alle disfunzioni ambientali che soffriamo. Solo l’alleanza tra una nuova agricoltura e pastorizia ecologiche, e una rete di città, villaggi e paesi realmente impegnati nella sostenibilità, potrà rendere fattibile una nuova cultura del territorio.

23. Per l’ecologia umana la città è stata una gran scoperta evolutiva poiché permette di moltiplicare le opportunità di interazione, riducendo al minimo possibile le necessità di trasporto e di consumo del suolo. Ampliando le capacità di scelta della gente, la città può diventare uno spazio molto importante per lo sviluppo umano. Le città vere, basate su una densità e mescolanza adeguate agli usi, possono venire anche concepite come una risorsa rinnovabile in cui la ristrutturazione dei tessuti già esistenti può diventare una alternativa al consumo orizzontale del territorio. Purtroppo però le nostre città attuali non realizzano questo sviluppo umano sostenibile. La prova più evidente di ciò è rappresentata dalle gravi difficoltà di accedere a un alloggio degno ed economico, che nell’attuale boom della speculazione immobiliaria pregiudicano gravemente un numero sempre più grande di giovani o di famiglie con lavori precari e bassi redditi. Questa privazione del diritto più elementare alla casa e alla città è uno degli ingranaggi dell’attuale esplosione metropolitana sotto forma di conurbazione dispersa, che segrega socialmente le persone nello spazio e moltiplica l’impronta ecologica del suo metabolismo sociale. Fermare la speculazione e garantire realmente il diritto costituzionale alla casa per tutti sono compiti urgenti e prioritari di una nuova cultura del territorio, che deve andare di pari passo con il cambiamento in direzione di tipologie costruttive di minor impatto ambientale. Né le città attuali né tantomeno i suburbi dispersi a bassa densità, sono in grado di soddisfare le necessità della gente in modo sostenibile: ovvero senza compromettere lo sviluppo umano delle altre persone o dei territori del presente o delle generazioni future. Ma il suo fallimeno circa la capacità di promuovere lo sviluppo umano o la sostenibilità ha a che vedere con il modello imperante di città. La conurbazione dispersa deteriora il funzionamento ecologico del territorio distruggendo allo stesso tempo la propria città. Non è quindi la città il problema ma il suo stesso fallimento.

24. Ben lungi dal comportare un qualche tipo di riequilibrio territoriale, l’attuale processo di dispersione della popolazione dalle attuali concentrazioni metropolitane fino ad anelli concentrici sempre più lontani moltiplica esponenzialmente tutti i problemi socio-ambientali del territorio. Il principale riequilibrio territoriale di cui ha bisogno adesso la Catalogna, come tante altre regioni dal Mediterraneo, riguarda la riduzione dei dislivelli dell’attuale gerarchia urbana all’interno della rete reale di città e paesi che inglobano tutto il territorio. Ciò significa incrementare il peso relativo delle città piccole e medie in detrimento dei grandi centri metropolitani di Barcellona, Girona e Tarragona già troppo saturate. Bisogna fare nuovi ampliamenti nelle città intermedie, come si fece un secolo e mezzo fa a Barcellona o Sabadell. L’alternativa a una estensione disordinata delle conurbazioni disperse è quella di costruire una rete basata sul reticolo urbano tradizionale che il territorio catalano ha ereditato dal passato di città e paesi densi, polifunzionali e socialmente integranti, uniti da un sistema efficiente di trasporto ferroviario o collettivo e separati da diversi cinturoni o anelli verdi di spazi orticoli, agricoli e forestali vivi che, insieme al sistema di spazi naturali protetti e uniti da corridoi biologici viabili, mantengano un buon funzionamento ecologico di tutta la matrice territoriale.

25. Per avanzare verso un modello territoriale che sia localmente e globalmente più sostenibile le città, cittadine e paesi della Catalogna —come di qualsiasi altro luogo del mondo sviluppato— devono ridurre significativamente l’impronta ecologica del loro metabolismo collettivo. Oggi tutte le città, cittadine e paesi del nostro paese devono importare materiali ed energia da luoghi molto lontani. Tutti vivono in un luogo del territorio, ma nessuno vive in modo esclusivo del piccolo territorio in cui abita. I criteri d’efficienza, sufficienza e giustizia ambientali devono applicarsi alla ricerca di soluzioni a tutto tondo tenendo conto della molteplice dimensione, locale, regionale, nazionale, statale, europea e internazionale del problema.

Queste 25 idee, e gli orientamenti e proposte che ne derivano, possono riassumersi in una sola nozione centrale: il paesaggio è la percezione umana del territorio, e la sua configurazione diviene l’espressione territoriale del nostro metabolismo sociale. Per una nuova cultura del territorio tutti i paesaggi devono venir intesi come uno specchio che riflette la gamma di relazioni che la nostra società mantiene con la natura. Se non ci piacciono i paesaggi che abbiamo, dobbiamo cambiare la nostra forma di vivere e convivere.

L’autore è direttore del Dipartimento di storia ed istituzioni economiche dell’Università di Barcellona, membro del Consiglio di redazione della rivista Global Environment

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