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Adriano Prosperi
Cosa dare agli studenti
21 Ottobre 2008
Articoli del 2008
Distruggono la scuola pubblica perché vogliono formare il “personale tecnicamente preparato e civilmente incolto richiesto dal sistema produttivo”. La Repubblica, 21 ottobre 2008

Dobbiamo prendere atto di una realtà: l’analfabetismo civile della società italiana è un fenomeno gravissimo. E non è per caso che lo scontro sociale si sta riaccendendo intorno alla scuola. I giovani, le famiglie, gli insegnanti stanno prendendo coscienza di quello che li aspetta: una scuola pubblica pesantemente impoverita nei servizi, nel personale, negli edifici e nelle attrezzature. A cui si aggiunge una università di infimo livello, fabbrica di lauree ridicole e di docenti senza qualità. Il tempo è giudicato maturo da chi comanda per liquidare la pesante struttura della scuola pubblica e per affiancare all’università pubblica in via di smantellamento fondazioni private capaci di velocizzare la fornitura del personale tecnicamente preparato e civilmente incolto richiesto dal sistema produttivo.

La giustificazione che regge la proposta è quella dello stato di crisi delle finanze pubbliche, aggravato oggi dalla tempesta mondiale delle banche. Ma la voce che si leva dalle piazze e che trova la via dei fax e delle mail per raggiungere il Quirinale dice che, accanto alle banche, prima e più delle banche, c’è ancora chi vuole salvare la formazione dei giovani e la qualità del nostro sistema della ricerca universitaria. È urgente affermare che qui si gioca una partita strategica essenziale. Prenderne coscienza è fondamentale. Lo stanno facendo le famiglie, gli studenti, i docenti, con proteste e richieste di interessi diversi, non sempre componibili tra di loro. Alle famiglie la riforma minacciata per decreto renderà più complicato raggiungere scuole accorpate, più ridotto il tempo dell’affidamento dei figli, più povera l’offerta culturale. Agli scolari e agli studenti toccherà in sorte un luogo di rafforzata disciplina esteriore negli abiti, nella condotta, e di inadeguata offerta per la crescita civile e culturale. Queste economie tagliate con l’accetta sul sistema scolastico ricordano quel Procuste che segava le gambe ai clienti per adattarli alla dimensione dei suoi letti.

La scuola è il pilastro fondamentale della società civile in una democrazia vitale, il luogo della socializzazione e dell’avvio a una cittadinanza consapevole, l’unico mezzo efficace per eliminare le discriminazioni di religione e di etnia, per assorbire l’impatto dei flussi migratori mondiali abituando a crescere negli stessi ambienti coloro che, da adulti, si troveranno fuori dalla scuola a convivere nella stessa società. La rivelazione della stupefacente crescita numerica della popolazione italiana ci ha fornito i numeri di quel che è accaduto negli ultimi anni, ma ha fatto anche di più: ha dimostrato implicitamente quello che i risentimenti, le chiusure, i pregiudizi e le paure seminate a piene mani cercano di nascondere, il fatto cioè che ciascuno di noi conta per uno e che tutti insieme facciamo la somma paese. Democrazia e demografia debbono andare di pari passo. L’idea di istituire classi differenziate è sorella di quell’altra balorda idea delle impronte digitali da prendere ai bambini rom.

Riuscirà la protesta degli studenti a frenare la deriva italiana? La giovinezza e la speranza di cambiare in meglio il mondo sono sorelle. Speriamo, dunque. Quanto ai compagni di strada che i giovani in agitazione e le loro famiglie stanno incontrando, la loro solidarietà non potrà esimerli da qualche esame di coscienza. Sulla protesta dei sindacati gravano quei limiti corporativi che tanto hanno pesato in passato nell’ostacolare l’avanzata dei docenti migliori e la rimozione dei peggiori e nel sostituire pressioni e contrattazioni alla logica del concorso pubblico senza limitazioni, senza fasce protette o categorie riservate. Ma è ai docenti e al sistema che governa l’università come luogo di insegnamento e di ricerca che oggi si chiede una prova speciale di credibilità. Ne saranno, ne saremo capaci? C’è da dubitarne. Un fatto recente rafforza i dubbi.

Se il clan dei casalesi compie una strage in un centro abitato in pieno giorno, nessuno vede, nessuno denunzia, nessuno testimonia. Precisiamo: nessun italiano. La "vittoria dello Stato" di cui nel caso di Castel Volturno si è gloriato il ministro dell’Interno è dovuta a un immigrato, l’unico salvatosi dalla strage. Un uomo solo, terrorizzato, sfuggito alla morte, ma capace di un atto di coraggio elementare, di una domanda di giustizia che non è giunta da nessun’altra parte. Ma parliamo dell’università. Qui le stragi ci sono ma non si vedono. Sono stragi di speranze e di intelligenze. Ogni anno in questa stagione il saldo demografico dell’università si chiude in negativo: i giovani migliori vanno all’estero, i pochi che vengono in Italia da fuori vi arrivano da paesi più poveri e più incolti del nostro. Anche qui è stato un immigrato, un raro esempio di "ritorno dei cervelli" a fare una radiografia impietosa e documentata del sistema universitario. Il professor Roberto Perotti, già docente alla Columbia University di New York, oggi alla Bocconi, ne L’Università truccata (edizioni Einaudi) ha denunziato le malattie dell’Università e ha avanzato proposte. Pagina dopo pagina leggiamo nomi e cognomi. Una tabella a pagina 22 ricostruisce il sistema di parentela che domina la facoltà di economia dell’Università di Bari come pure quelle di Medicina e Chirurgia di Bari e della Sapienza di Roma. E una tabella fittissima di ben cinque pagine illustra il meccanismo dei "concorsi dei rampolli". Le regole della parentela sono elementari nelle popolazioni primitive studiate dal grande antropologo Claude Levi-Strauss. Lo sono anche nelle tribù accademiche italiane. Qui basta un padre Magnifico Rettore a determinare l’irresistibile entrata dei membri della sua famiglia nell’università che governa e nel suo stesso dipartimento. Naturalmente il problema non è la consanguineità dei professori ma il blocco degli studi e la penalizzazione dei giovani migliori che la logica mafiosa dominante nei concorsi ha prodotto con la scomparsa tendenziale delle università italiane dalla parte alta della comunità scientifica internazionale.

Le pagine di Perotti fitte di nomi e cognomi potevano scatenare una tempesta di querele e di proteste, riempire le aule dei tribunali di dignità offese. Non è accaduto niente. Le toghe infangate e svergognate hanno continuano a coprire magnificenze fasulle abbarbicate a cattedre e rettorati. Si diceva una volta: "Calunniate, calunniate, qualcosa resterà". Viene voglia di dire oggi: criticate, criticate, niente resterà. Resta solo uno stato d’animo di invidia e di rancore, diffuso tra le famiglie soccombenti e nella poltiglia umana che dallo spettacolo dell’ignoranza trionfante e prevaricante ricava solo una spinta alla maldicenza anonima e indifferenziata e può consolarsi così delle proprie frustrazioni. Ma lo scandalo vero è la sordità delle istituzioni e dei poteri. In un’altra cultura avremmo visto probabilmente manifestazioni pubbliche, esibizioni delle vergogne su lenzuolate di nomi, proteste di associazioni e di sindacati, inchieste di magistrati, interrogazioni parlamentari. Nel libro di Perotti c’è quanto basterebbe in un paese dotato di un vero governo e di una vera opposizione per mettere in movimento almeno una inchiesta parlamentare. Anche perché gli intrecci osceni che avvengono nei concorsi non sono fatti solo di dinastie familiari. Come tutti sanno, il vigente principio dello "ius loci" affida al potere delle cosche accademiche localmente prevalenti la selezione delle nuove leve di docenti attraverso il paravento di finti concorsi. Su questa materia è stato detto tutto. Non è stato fatto nulla. Quel che è stato fatto è un disastro bipartisan che negli ultimi anni, col sistema del tre per due e con la regola concorsuale dello "ius loci" ha svenduto le residue energie dell’università italiana, ha riempito le scuole di ignoranti e ha moltiplicato le etichette di fantasia per fare posto agli asini obbedienti al potere del capocosca locale.

Ora siamo arrivati al rendiconto finale. Lo sforzo degli studenti in agitazione per coinvolgere i docenti e di riceverne pacche sulle spalle è patetico. Ci fa misurare la distanza dalle aspre e irridenti satire del ‘68, quando l’apparizione di un professore in un’assemblea studentesca faceva scattare cori di derisione. I giovani di allora oggi sono vecchi. Molti di quelli che allora dominarono le assemblee studentesche occupano o hanno occupato cattedre, ministeri seggi parlamentari. Pesa sulle loro spalle un fallimento che non hanno saputo evitare, che hanno spesso contribuito ad accelerare. Il loro eventuale appoggio andrebbe esorcizzato come una minaccia da chi vuole veramente che la scuola e l’università italiana riprendano la loro funzione di cuore pulsante della società. Lo tengano presente i giovani che oggi, timidamente, cominciano a uscire dal torpore di un paese gravemente malato.

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