loader
menu
© 2024 Eddyburg
Sergio Brenna
Dall’urbanistica all’economistica
11 Agosto 2008
Commenti
“Verso un uso di città e territorio eterodiretto dal mercato senza più progetto pubblico complessivo”: questa la tesi argomentata nell’articolo scritto per eddyburg, 18 luglio 2008

I deputati milanesi Maurizio Lupi (allora FI, oggi PdL) e Pierluigi Mantini (allora Margherita, oggi PD), nel dicembre del 2005, presentarono all’Urban Center del Comune di Milano il loro libro “I nuovi principi dell’urbanistica” (Edizioni Il Sole/24 ore), in cui provavano a teorizzare l’orizzonte tecnico-giuridico e politico-culturale – quello della “consensualità” degli atti amministrativi tra amministrazione pubblica e proprietà fondiario-immobiliare – che connotava loro inusitata iniziativa di un disegno di legge bipartisan di maggioranza e opposizione sul governo del territorio, ispirato dall’esperienza lombarda delle leggi regionali Vega e Adamoli e dall’estensione nazionale fattane con l’emendamento Botta-Ferrarini (deputati DC e PSI) all’art. 16 della L. 179/92, istitutivo dei Programmi Integrati di Intervento (PII).

Com’è noto il Ddl Lupi/Mantini fu poi approvato da uno dei due rami del Parlamento, ma non riuscì a giungere ad approvazione nell’altro prima della fine della legislatura, nel 2006; mentre nello scorcio di legislatura succedutasi, i due si dovettero acconciare a presentare disegni di legge distinti, ancorché ispirati da forti affinità elettive nei contenuti.

In occasione della presentazione di quel libro, essi raccolsero con favore l’indicazione di alcuni interventi che coglievano il nucleo fondante dei nuovi principi annunciati dal titolo nell’abbandono della concezione di un progetto pubblico dell’uso di città e territorio, tipico della – a loro avviso obsoleta – visione dell’ urbanistica e nell’avvento di una nuova visione dettata dall’economistica.

Non deve quindi sorprendere che, in questa legislatura, a promuovere l’evoluzione dell’urbanistica in economistica - pur nello spirito dell’invincibile attrazione fatale tra i due, nuovamente eletti in Parlamento in schieramenti dai programmi politici virtualmente alternativi su tutto eccetto le regole istituzionali - sia, ancor più che un nuovo ddl sul governo del territorio, il Documento Economico Programmatico Finanziario di Tremonti, approvato dal Governo per decreto-legge nel giugno scorso.

Tremonti, del resto, aveva già dato prova del suo modo subalterno di considerare l’uso della risorsa territorio rispetto alle contingenti esigenze del bilancio economico quando, nel 2005, in risposta ad un quesito dell’Associazione Nazionale delle Tesorerie al Ministero delle Finanze sulla mancata riproposizione nel Testo Unico sull’edilizia (DPR n. 380/2001, a seguito della Riforma Bassanini delle procedure amministrative) dell’obbligo imposto dalla L. n. 10/77 (Bucalossi) di allocare gli oneri di urbanizzazione in un apposito capitolo di bilancio vincolato alla esecuzione di tali opere, fece rispondere che se nel testo quel disposto non c’era (ancorché illegittimamente !), l’obbligo doveva considerarsi decaduto. Si aprì per i Comuni la manna della possibilità di far fronte alle ristrettezze contingenti dei bilanci, consentendo nuove previsioni edificatorie a sostegno delle spese correnti; a onor del vero, occorre aggiungere che nemmeno il Governo Prodi ha posto rimedio a questa illegittima stortura, anzi, nella sua ultima Finanziaria, ne ha esplicitamente previsto la prosecuzione per il prossimo triennio.

Nel DPEF di giugno si stabilisce, quindi, che, nell’attuale congiuntura economica di riduzione del potere d’acquisto di salari e stipendi e di ristagno della produttività delle imprese, gli Enti pubblici facciano fronte alla sempre più pressante domanda di servizi sociali in campo socio-abitativo in una condizione di crescenti ristrettezze economiche dei propri bilanci, per un verso massimizzando la redditività delle loro alienazioni patrimoniali anche in deroga alle destinazioni urbanistiche vigenti e, per altro verso, consentendo ai privati di edificare edilizia sociale, a prezzo convenzionato per un decennio, sulle aree vincolate a uso pubblico ma ancora di loro proprietà; infine, per incentivare la produttività delle imprese, si vorrebbe consentire loro di autocertificare la conformità dei propri immobili alle norme urbanistiche, in modo da accelerarne costruzione e trasformazione. Su quest’ultimo aspetto, il rischio, in parte già sperimentato con istituti quali quello dello “sportello unico” per le imprese, è che, di fronte ad autocertificazioni sbarazzine e comuni distratti o conniventi, le associazioni e i cittadini non possano nemmeno più ricorrere alla tutela del giudizio del tribunali amministrativi (TAR), perché le autocertificazioni non rientrerebbero nelle loro competenze giurisdizionali. Tuttavia, anche sugli aspetti più consueti delle procedure urbanistiche i TAR e il Consiglio di Stato (in istanza d’appello, cui costantemente ricorrono le proprietà se soccombenti, mentre è assai difficile e oneroso farlo per i singoli cittadini) tendono sempre più a limitare la possibilità di associazioni e cittadini di intromettersi nelle trattative dirette tra amministrazioni comunali e proprietà fondiarie, ponendo sempre maggiori requisiti di legittimazione a ricorrere.

Insomma, come già anticipato dai principi della recente legislazione regionale lombarda (dalla LR 12/05 con i PGT quinquennali senza più piano di struttura, e le successive ripetute integrazioni - sino alla L. n. 4/08, che in un empito di proto-federalismo urbanistico stabilisce di disapplicare l’odiato decreto ministeriale nazionale sugli standards pubblici; alla legge regionale per l’edilizia sociale sulle aree private a vincolo pubblico decaduto), si propone di affidare alle contingenze del mercato l’esito della costruzione dell’assetto urbano urbano e territoriale, aggirando o disarticolando in modo incoerente il patrimonio giuridico-lesgislativo e di strumenti e disperdendo un demanio di aree ed opere pubbliche che dalla Legge urbanistica n. 1150/42 alla Legge n. 10/77 sul regime dei suoli e col Piano decennale per la Casa della L. 865/71, sia pur lentamente e non senza irrisolte contraddizioni (durata e indennizzo dei vincoli espropriativi, separazione tra proprietà e diritti edificatori, diritto di superficie, ecc.), si era andato definendo e consolidando.

Come sarà possibile, in questa prospettiva, dare un senso reale alle procedure di Valutazione Ambientale Strategica imposte agli strumenti pianificatori dalle direttive UE e, a parole, recepiti nei percorsi procedurali prescritti: che “sostenibilità strategica” potrà mai esserci in un orizzonte quinquennale, di volta in volta mutevole e, oltre tutto, derogabile in itinere e ad libitum da strumenti derogativi più o meno recenti (Programmi Integrati di Intervento (PII), Accordi di Programma, ecc.) e dai nuovi incentivi di valorizzazione economica del patrimonio fondiario-immobiliare ?

A questo riguardo, occorre segnalare che il panorama dei PII approvati in deroga alle prescrizioni di PRG va costellandosi in Piemonte, Lombardia e Veneto di indagini delle Procure penali di competenza in relazione ad ipotesi corruttive, concussive e collusive su come siano stati determinati ed approvati dai Comuni i relativi contenuti, in particolare quando inferiori a quelli dei PRG vigenti in termini di aree pubbliche realizzate, e sui criteri di quantificazione del valore delle aree non cedute e monetizzate o convertite in maggiori opere. Il caso più noto per dimensione e clamore è quello del PII Citylife sull’area dell’ex Fiera di Milano, dove la Procura di Milano indaga sia in relazione ad illecito smaltimento dei detriti delle demolizioni in corso negli scavi dei cantieri per la TAV, ma anche in relazione ad irregolarità dei contenuti urbanistici approvati che potrebbero aver procurato un illecito arricchimento di Fondazione Fiera, a fronte di un peggioramento della qualità urbana ed ambientale del contesto urbano. Molti altri, tuttavia sono i casi più minuti, più diffusi e meno noti su cui vi sono indagini in corso; e c’è da chiedersi cosa accada in Regioni più condizionate dal peso della criminalità organizzata.

Non si tratta, tuttavia, solo di singoli episodi degenerativi: i Comuni, quasi senza più differenza tra amministrazioni di destra o di sinistra e sempre più diffusamente di fronte alle ristrettezze di bilancio, sembrano ritenere di poter ricorrere “ad libitum” alla modifica dei PRG tramite lo strumento dei PII, a patto di dimostrare che una quota stabilita discrezionalmente del vantaggio economico che ne deriva al privato venga devoluta loro e che dell’utilizzo di tale quota possano poi disporre a piacimento. Il territorio è visto un supporto “corvéable à merci” rispetto alle esigenze di valorizzazione economica richieste dal mercato, visto che le ricadute negative si vengono a manifestare molto più in là nel tempo rispetto a quelli della congiuntura economica e delle scadenze politico-amministrative.

Ad esempio, i Comuni di Milano e di Sesto S.G., pur con maggioranze amministrative alternative, competono allegramente tra loro nel proporre previsioni edificatorie di 1 mq/mq di indice territoriale, con il quale è impossibile non solo attuare i 26,5 mq/abitante di spazi pubblici della gloriosa Legge Regionale del 1975 (la prima ad essere approvata dopo l’avvento delle Regioni nel 1970; tutte le altre, poi, si sono attestate su standards pubblici tra i 24 e i 28 mq/ab.), ma quasi neppure i 18 mq/abitante del DM del 1968; e, comunque, i 17,5 mq/abitante di servizi pubblici generali dei PRG si attuerebbero così a carico dei cittadini, tramite l’aumento del carico edificatorio, anziché dei promotori fondiario-immobiliari, come voleva la Legge Ponte del 1967.

A mio avviso occorre contrastare il diffondersi di questo nuovo “senso comune”, in quanto i contenuti del PRG, attraverso il complesso ed articolato meccanismo di formazione che ha come orizzonte il progetto urbano complessivo, rivestono un carattere di interesse pubblicistico generale rispetto al quale i contenuti dei PII debbono dimostrare di conseguire, almeno localmente, dotazioni quantitativamente valutabili e comparativamente maggiori, sia in termini di aree pubbliche che di valore delle opere pubbliche proposte, rispetto a quelle previste dal PRG.

E’ questo il senso pregnante del disposto dell’art. 16 della L.179/92 (Programmi integrati di intervento) che “al fine di riqualificare il tessuto urbanistico, edilizio ed ambientaleconsente ai comuni di promuovere “la formazione di programmi integrati relativi a zone in tutto o in parte edificate o da e destinare anche a nuova edificazione al fine della loro riqualificazione urbana e ambientale.

Altrimenti, può accadere che gruppi di pressione convergenti in veri e propri “comitati di affari”, con maggioranze spesso anche trasversali ai programmi politico-elettorali, possano tentare di indirizzare contingentemente le scelte dei Comuni, contraddicendo l’interesse pubblicistico generale garantito dal progetto urbano generale del PRG senza perseguire nemmeno localmente quell’ incremento delle dotazioni di spazi ed attrezzature pubbliche, in grado di garantire il “fine della riqualificazione urbana e ambientale” che solo giustifica il ricorso al PII in alternativa ai contenuti del PRG o sue eventuali varianti.

Sono proprio le logiche del PRG e quelle dei PII ad essere contrastanti: per il PRG i conti devono “tornare” per l’intero territorio comunale; per il PII basta che i conti ”tornino” all’interno della propria area di intervento. Se il PRG ha una quantità di standards abbastanza sovrabbondante, con alcuni PII si possono un po’ limare i margini di “grasso” eccedente, ma se l’uso dei PII si diffonde o se si è vicini ai minimi di legge, bisogna cercare di non far vedere che ciò che si fa coi PII collide col PRG; che ciò che si consente ad alcuni non è ciò che può valere per tutti, e che il bilancio finale, strutturale, la sostenibilità strategica o ambientale di quelle “attuazioni” senza progetto complessivo è in perdita.

Insomma, quella “città occasionale” di cui Francesco Indovina indicava i guasti in un suo libro di qualche anno fa, non sarebbe più legata alla necessità di dover periodicamente escogitare eventi eccezionali in grado di giustificare deregolamentazioni episodiche, ma diventerebbe la regola di un assetto urbano e territoriale eterodiretto dalla prevalenza del mercato, senza più progetto pubblico complessivo.

In fondo, è una situazione non molto diversa da quella già vissuta negli Anni Cinquanta/Sessanta con le “convenzioni” senza Piano regolatore e che si concluse con il clamoroso episodio della frana di Agrigento nel 1966, simbolo dell’esito generalizzato un uso subalterno delle risorse territoriali rispetto allo sviluppo economico durante il “boom” del dopoguerra: occorrerà un evento ancor più catastrofico (magari, questa volta, non di carattere edilizio, ma ecologico-ambientale) per rendersi conto della strada su cui ci si è tornati a mettere ?

Certo, le norme scaturite dalla Legge Ponte del 1967 e il conseguente decreto ministeriale del 1968 su quantità minime di spazi pubblici, densità edificatorie, altezze e distanze tra gli edifici sono ancora tutte all’interno di una concezione pre-ambientalista che, entro quei limiti imposti, consentirebbe tuttavia di coprire l’intero territorio nazionale, e vanno, quindi, aggiornate e sussunte entro una valutazione di sostenibilità ambientale del fenomeno urbano.

Ma convergere con il neoliberismo economico, oggi prevalente, nel ritenere un lusso insostenibile le regole di un progetto pubblico di territorio e città, socialmente individuato e condiviso (come con scarsa pervicacia mi sembrano fare quelle sensibilità ambientaliste - dai “pentiti” alla Chicco Testa ai “collaborazionisti” di Legambiente, a istituzioni tradizionalmente di sinistra come la Regione Toscana che prevede sconti sugli oneri urbanizzativi sino al 50% per edifici ad alto risparmio energetico; che direste se proponessi che a fronte di contenuti urbanistici più gravosi, si potesse inquinare di più ?) - che ne accettano la progressiva demolizione a fronte della promessa di edifici “intelligenti”, “verdi”, “energeticamente autosufficienti”, in uno scambio ineguale tra libertinaggio pubblico e virtù privata – credo sarebbe la resa ad un “pensiero unico” (tanto il territorio ha “spalle grosse”, non c’è più sensibilità diffusa a volerlo proteggere, non è reato abusarne) cui è colpevole rassegnarsi.

Proprio in questi giorni l’Associazione nazionale dei produttori di pasta e pane lancia l’allarme sul fatto che le risorse autoctone di cereali coprono solo sette mesi di autonomia, che il mercato globale di cereali è sotto tensione di fronte a nuova domanda di consumo e crescita dei prezzi del petrolio, ed è, quindi, necessario accrescere le aree interne coltivate a cereali.

Ma c’è ancora qualcuno che voglia davvero dar seguito coerente alle parole d’ordine di “città e territorio come beni comuni”, risorsa strategica da sottrarre, quindi, alla dominanza univoca del mercato ?

Chiunque può riprodurre l’articolo, alla condizione di citare l’autore e indicare la fonte come segue: “tratto dal sito http://eddyburg.it”

ARTICOLI CORRELATI

© 2024 Eddyburg