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Mauro Lissia
20060702 Privatizzare? Meglio di no ma se c’è un buon progetto...
3 Luglio 2008
Interventi e relazioni
Una intervista a Edoardo Salzano sulla cessione di parti dei complessi minerari e sul Piano paesaggistico della Sardegna. Da la Nuova Sardegna del 2 luglio 2006

Edoardo Salzano, urbanista contro

CAGLIARI. Edoardo ‘Eddy’ Salzano è professore ordinario di urbanistica nel dipartimento di pianificazione dell’università Iuav di Venezia, dove è stato presidente di corso di laurea e preside della facoltà di Pianificazione del territorio.

Consulente di amministrazioni pubbliche per la pianificazione territoriale e urbanistica in tutta Italia, ha scritto saggi importanti e pubblicazioni specializzate.

E’ nato a Napoli, ha vissuto a lungo a Roma e dal 1975 abita a Venezia.

Salzano è stato amministratore pubblico sia nel Lazio sia in Veneto. Autore di un aggiornatissimo sito (www.eddyburg.it) diventato rapidamente un riferimento per chiunque si occupi di urbanistica e ambiente, è oggi impegnato in una battaglia pubblicistica aspra contro la realizzazione di opere faraoniche come il Mose a Venezia e il ponte sullo stretto di Messina, che giudica inutili e dannose.

Non ha paura di schierarsi: sulla porta della sua casa nel quartiere storico di Dorsoduro, vicino a piazza San Marco, campeggiano due bandiere con la scritta ‘No Mose’.

A settantacinque anni, Salzano è considerato una delle massime autorità nel suo campo ed è sulla base dei suoi titoli che Renato Soru l’ha chiamato a coordinare il comitato scientifico incaricato di elaborare la filosofia del nuovo piano paesaggistico regionale, approvato di recente dalla giunta sarda di centrosinistra.

Sulla scia delle polemiche nate attorno alla scelta del governo Soru di mettere all’asta il compendio storico minerario del Sulcis gli abbiamo chiesto di rispondere ad alcune delle critiche lanciate in questi giorni dagli oppositori del piano. Ecco che cosa ci ha risposto.

VENEZIA. - Professor Salzano, la Regione ha messo all’asta il compendio minerario del Sulcis, vuole farne un paradiso delle vacanze con campi da golf. Il bando scade domani. Condivide la scelta?

«Quando un ente pubblico decide di alienare i suoi beni io sono sempre contrario. Una cosa sono le regole delle trasformazioni fisiche, un’altra sono le funzioni che si stabiliscono attraverso i piani, un’altra ancora è il regime proprietario. Come regola generale io sono anti-tremontiano, la proprietà è una garanzia in ogni caso. Ho apprezzato l’iniziativa di Renato Soru di avviare la conservatoria delle coste ma in questo caso sono contrario. Bisogna però vedere che cosa si fa col ricavato della vendita...».

- La base d’asta è 44 milioni per 647 ettari di terre pregiatissime. Chi compra fa un affare...

«Sì, in termini generali io sarei per una concessione onerosa. Dà garanzie maggiori al pubblico».

- Lei ha coordinato l’elaborazione del piano paesaggistico della Sardegna, cui hanno lavorato intellettuali di diversa provenienza e inclinazione. A leggerne la filosofia sembra che l’orientamento sull’uso degli spazi storici fosse diverso. Nel testo sono numerosi i richiami alla salvaguardia dell’identità dei luoghi e alla conservazione filologica dei manufatti. Ma nel bando è prevista anche la demolizione.

«L’orientamento era di escludere le seconde case, per ora sulla fascia costiera. Qui le garanzie le abbiamo messe e sono chiare».

- Però nel piano si parla in termini aspramente critici di corsa alla privatizzazione. Gli oppositori dicono che la scelta di vendere il Sulcis minerario va in controtendenza rispetto allo spirito dello strumento di pianificazione.

«Nel nostro lavoro siamo partiti con un fantasma davanti agli occhi, quello dei villaggi turistici, queste oscenità... Un gruppo milanese o belga va in Sardegna, compra la terra dell’allevatore e ci costruisce uno di quegli obbrobri che conosciamo. Invece la trasformazione di certi edifici pubblici, che io comunque tenderei a evitare, non mi scandalizza. Se l’ipotesi è realizzare alberghi e gli alberghi sono necessari, se li fanno i privati e la Regione ha bisogno di vendere per raccogliere quattrini utili a comprare aree a rischio sulla costa e finanziare la conservatoria...».

- Sta dicendo che il fine giustifica i mezzi?

«No, ripeto: il pubblico è meglio che conservi il proprio patrimonio immobiliare».

- In questo caso anche un patrimonio affettivo, forse per questo la protesta sta montando...

«Va ricordato che il piano è solo un atto amministrativo, non può imporre un atteggiamento ascetico».

- La relazione scientifica allegata al piano sembra qualcosa di più che un semplice atto amministrativo.

«Certo, ci hanno lavorato anche scrittori... Mi spiego meglio: io sono nettamente contrario alla privatizzazione generalizzata. Ma se dietro alla dismissione c’è un ragionamento, una finalizzazione, allora se ne può discutere, purchè le finalizzazioni ci siano e siano conformi al piano. Lo slogan di partenza è stato ‘non vogliamo cancellare il turismo, vogliamo modificarlo’ per godere in modo controllato di questo patrimonio di bellezza incentivando le attività ricettive».

- Ma lei è convinto che il turismo possa essere davvero una risorsa economica per la Sardegna del futuro?

«Solo se la Sardegna riesce a conservare la qualità dei suoi siti».

- Nel piano la parola valorizzazione, riferita ai luoghi, viene definita parola fantasma, rottame di parola.

«I grandi economisti del passato, da Adamo Smith a Carlo Marx, distinguevano due valori: il valore d’uso e il valore di scambio. Il valore usato per le sue caratteristiche proprie e quello che ha in quanto merce. L’aria non è un valore di scambio, come l’acqua pulita. Allora: quando noi parliamo di valorizzare un bene possiamo parlarne nel senso di rendere quel bene una merce e far sì che il proprietario ne ottenga un lucro. Oppure che mettiamo in evidenza, conserviamo e accresciamo il valore d’uso, l’eccezionalità, la rarità, la qualità propria di quel bene. In genere il termine valorizzazione viene usato nel primo senso, a me quello giusto sembra il secondo».

- Qual è la linea di confine tra uso e abuso del bene ambientale?

«Capire quali sono le trasformazioni ammissibili per quel determinato bene, nel senso che ne conservano e ne mettono in evidenza il valore, e quelle che invece ne diminuiscono la qualità».

- E’ accettabile che a individuare questa linea di confine siano i politici?

«Questa è la democrazia, baby (sorride) ... non ci si può far niente. Per pianificare la Sardegna sono state scelte persone che fra di loro non avevano alcun rapporto, io non conoscevo Soru e lui non conosceva me...».

- Un’anomalia felice?

«Diciamo pure che dopo lunghi tira e molla siamo rimasti tutti soddisfatti di questo piano paesaggistico».

- Malgrado molti amministratori locali dicano che il piano è generico, che è troppo complesso?

«E’ un piano che richiede una collaborazione da parte di chi deve approfondire le cose. Da questo punto di vista è difficile, perchè chiede a Province e Comuni un impegno nell’approfondimento dell’analisi, chiede di definire meglio i confini che noi abbiamo individuato, di farsi carico di una serie di cose di cui l’urbanistica tradizionale non si faceva carico perchè era rivolta alla ricostruzione, mentre qui il piano è finalizzato alla tutela del paesaggio».

- C’è però chi lo legge come un piano di divieti.

«Non c’è dubbio, lo è per l’urbanistica edificatoria. Ci sono due modi di pianificare: il primo è dire ‘sul territorio si può fare tutto’ in base alle convenienze dei privati o della comunità locale. L’altra impostazione è legata alla legge Galasso, che risale al 1985 e dice: il territorio è quello che è, verifichiamo in primo luogo che cosa si può trasformare e secondo quali regole. Quando abbiamo individuato le aree in cui le trasformazioni possono anche essere pesanti, allora decidiamo che cosa si può fare in queste aree. Ma partiamo dal territorio, non dal cemento. La domanda è: questa impostazione a quali classi economiche, ceti sociali, interessi economici serve e quali contrasta?».

- Risposta scontata...

«Purtroppo gli oppositori più accaniti di questa impostazione sono i più dotati di mezzi di comunicazione, questo è il problema...».

- E’ un piano ambientalista?

«E’ un piano che piace agli ambientalisti, che consente di realizzare qualità nuove in coerenza con quelle attuali».

- Non toccare il territorio intatto, un passaggio del piano che colpisce per l’idea di rigore che contiene.

«E’ un pallino di Soru. Ci ha detto: per favore, quello che non è stato toccato si lascia stare, sul resto discutiamo. Io sono d’accordo. Stiamo per presentare a un gruppo di parlamentari dell’Ulivo un disegno di legge in cui diciamo che l’obbiettivo è fare come altri paesi del mondo: il territorio non edificato e urbanizzato viene trasformato solo se si dimostra che le cose che si vogliono fare là non si potevano fare altrove».

- In Sardegna sono proprio i Comuni che hanno il territorio intatto a protestare per i divieti.

«Non capiscono che sono i più fortunati. Ma una carenza nel piano c’è: quando noi diciamo che le costruzioni vanno realizzate nelle aree adiacenti i centri urbani non diciamo che poi bisognerà farsi carico di un sistema di trasporti fra questi centri e la costa. E’ un problema di organizzazione della mobilità, che non significa fare strade ma sistemi di trasporto leggeri. Bisogna lavorarci sopra, ma questo è un compito che spetta alla successiva pianificazione».

- Che cosa direbbe al sindaco di un piccolo paese costiero della Sardegna che protesta: io non ho altro modo per dare lavoro ai miei compaesani, ci sarebbe il turismo ma la Regione...

«Gli direi che vicino al paese può costruire... vediamo quante case vuote ci sono in quel paese. C’è da fare un enorme lavoro di recupero del patrimonio edilizio esistente. Fra l’altro chi costruisce un villaggio turistico ex novo compra i materiali all’esterno e li assembla in Sardegna, finestre, stipiti... e dunque il moltiplicatore economico è bassissimo. Chi invece ristruttura e riorganizza impiega manodopera locale, materiale, artigianato locale... lo dice Soru e ha ragione».

- C’è qualche carenza importante?

«Le norme sono ancora un po’ confuse. Sarebbero stati necessari altri sei mesi di lavoro per realizzare una cosa più semplice dal punto di vista dell’utilizzatore delle norme. Sono d’accordo sul fatto che ci siano diverse categorie di beni da tutelare, che la Regione individua. E norme riferite agli ambiti di paesaggio che rinviano alla pianificazione successiva. Con un ulteriore sforzo si poteva fare qualcosa di più semplice, ma trovo miracoloso come sia stato raccolto il materiale informativo, un grande risultato che oggi viene citato con favore da molti autorevoli urbanisti. Roberto Gambino del Politecnico, membro di molti organismi internazionali, non è soddisfatto di alcune cose ma comparativamente giudica il piano il migliore in Italia. E lui ne ha fatti molti».

- A cosa è ancorata la critica di Gambino?

«Alla distinzione dei livelli di qualità dei siti e io sono d’accordo con lui. Non ha senso dire: questo bene vale più di quest’altro e un po’ meno di quest’altro ancora. Bisogna individuare le caratteristiche proprie di quel bene e poi tutelare quelle. Ma questa distinzione compare nel codice Urbani, anche se per fortuna nell’ultima edizione si è un po’ stemperata».

- Qual è il bene più importante da tutelare nell’isola?

«La consapevolezza che i sardi hanno della qualità del proprio territorio».

- Che cos’è il paesaggio, professore?

«Secondo il modello europeo, secondo me pericoloso, è quello che viene percepito dalla gente. Ma io chiedo: quale gente? Quale? Se noi pensiamo a com’è la gente oggi, il termine gente lo abolirei, ci rendiamo conto che molte situzioni prima di poterti affidare all’intuito e alla comune opinione della gente devi fare un’opera di educazione che è stata interrotta. Allora meglio rivendicare la responsabilità dei poteri centrali, garantita dalla legge».

- E’ cresciuta la sensibilità ambientale negli ultimi anni?

«Solo in porzioni minoritarie della popolazione. L’Italia è ancora il paese in cui la gente spazza l’immondizia fuori sulla strada perchè poi sulla strada ci pensano gli altri».

- Allora questo è un piano impopolare?

«Dipende da come funziona la Sardegna... i sardi che conosco hanno un grande orgoglio del proprio territorio, anche se poi non si traduce sempre in atti reali».

- L’eolico, professore. Giusto frenarne la diffusione?

«C’è stato purtroppo un gap fra le parole d’ordine dell’ambientalismo e l’attuazione pratica. L’ambientalismo ha detto giustamente: energie rinnovabili. Una è l’eolico. Dopo di che è mancato il passaggio del potere pubblico: studiare e verificare quali sono le fonti di energia rinnovabili, quali i vantaggi di ciascuna di queste e sulla base di questo fare un piano energetico nazionale. Quindi i progetti, gli standard per realizzare questo o l’altro, infine largo alle imprese. Qui l’iniziativa è partita dalle imprese, che portano enormi materiali assolutamente invasivi. Provocano enormi devastazioni nel paesaggio e sono impianti che non vanno bene in un terreno accidentato come quello sardo. Dove invece si potrebbe sviluppare il fotovoltaico».

- Nel piano manca una disciplina della luce, dell’uso dell’illuminazione pubblica.

«E’ un problema che non ho mai visto trattato in uno strumento di pianificazione, certo poteva essere un’occasione visto che negli ultimi tempi se ne parla molto in Italia e in Europa. Ma guardi... non è mai stato fatto un piano paesaggistico così imponente in tempi così ridotti. Si è fatto il possibile».

- Qual è il prossimo passo?

«Dovremo lavorare sulla legge Floris, che partiva da un decreto sugli standard, sulle quantità minime di spazi pubblici. Sulle zone interne penso che sarà elaborato un piano a parte. Certo le pressioni e gli interessi sono minori, quindi non c’è urgenza. Forse però prima di trattare i problemi dell’interno sarebbe utile definire la legge urbanistica regionale e fare una pianificazione non solo paesaggistica. La legge Galasso dava due possibilità: fare diversi piani paesaggistici oppure piani ordinari con particolare considerazione ai valori paesistici e ambientali, i piani territoriali di coordinamento. Ecco, forse varrebbe la pena di fare un piano territoriale regionale».

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