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Giovanni Astengo
"Urbanistica", voce della Enciclopedia Universale dell’arte (1966)
14 Aprile 2008
Urbanisti Urbanistica Città
Giovanni Astengo, nell’ampio saggio che forma la voce ”Urbanistica” della Enciclopedia universale dell’arte (vol. XIV, Istituto per la collaborazione culturale, Venezia-Roma, 1966) colloca in un quadro organico l’insieme delle certezze e dei dubbi dell’urbanistica razionalista. In calce il documento integrale in formato Word

URBANISTICA - L’urbanistica è la scienza che studia i fenomeni urbani in tutti i loro aspetti avendo come proprio fine la pianificazione del loro sviluppo storico, sia attraverso l’interpretazione, il riordinamento, il risanamento, l’adattamento funzionale di aggregati urbani già esistenti e la disciplina della loro crescita, sia attraverso l’eventuale progettazione di nuovi aggregati, sia infine attraverso la riforma e

l’organizzazione ex novo dei sistemi di raccordo degli aggregati tra loro e con l’ambiente naturale. In questo senso il significato del termine urbanistica è profondamente diverso da altri, di analoga radice, con i quali è talvolta confuso: urbanesimo, che indica la concentrazione e condensazione dei fattori demografici, sociali, culturali ed economici costituenti la città; urbanizzazione, che indica il processo di formazione e disseminazione delle città in una determinata area; e infine inurbanamento, che è il processo di afflusso di popolazioni per lo più rurali nei centri urbani.

Come disciplina autonoma, l’urbanistica è nata dal secolo scorso, quale risposta (e difesa) ai problemi suscitati nell’esistenza e nella cultura urbana dal progressivo affermarsi dell’industrializzazione e dal rapido incremento della popolazione e del traffico (specialmente, nel nostro secolo, del traffico motorizzato). Solo retrospettivamente e per analogia, perciò, si chiamano urbanistici i modi di strutturazione, organizzazione, configurazione dello spazio urbano nel passato, siano essi spontanei o diretti da norme giuridiche o iniziative di governo o da teorie e princìpi formulati da politici, filosofi, architetti. E solo in quanto si ammette la costanza di una certa disciplina nella crescita delle città si chiama comunemente storia dell’urbanistica la storia del fatto urbano. Come attività specificamente intenzionata alla progettazione degli sviluppi urbani, l’urbanistica è interessata a tutte le componenti geografiche, storiche, ideologiche, culturali, economiche ecc. del fatto urbano, nonché a tutte le esigenze tecnologiche, igieniche, educative, assistenziali ecc. ad esso connesse. Sotto l’aspetto estetico, l’urbanistica è particolarmente in rapporto con la progettazione (v.), con l’architettura (v.), e le sue tipologie (v. STRUTTURE, ELEMENTI E TIPI EDILIZI), nonché con la funzione ideologica e rappresentativa degli edifici (v. MONUMENTO) e con la concezione della natura e specialmente della società e della vita rurale, come contrapposte, almeno in certe civiltà, alla vita cittadina.

Sommario.

L’idea di città - Nomenclatura essenziale - Definizione di urbanistica - Definizione di città: Verso una scienza urbana - Definizione geografico-urbanistica della città - Definizioni storico-sociologiche della città - Lo “spazio urbano”: Mondo arcaico - Antiche civiltà urbane - La città medievale - La città rinascimentale - La città barocca - Disintegrazione dello spazio urbano - Riscoperta, analisi e ricomposizione dello spazio urbano - Utopisti moderni - La pianificazione urbanistica: L’esperienza razionalista e il piano di Amsterdam - Verso una nuova concezione - Dall’urbanistica tecnica alla pianificazione continua - Aspetti giuridici ed economici della pianificazione urbanistica - Problemi e prospettive: Dati di base per una contabilità urbanistica - Problemi specifici: a) Quartieri residenziali - b) Centri storici e rinnovamento urbano - c) Il traffico veicolare - d) Zone industriali attrezzate - e) Attrezzature per il tempo libero - Piani per il futuro.

L’IDEA DI CITTÀ

Quando, in un primo approccio al fenomeno urbano, in qualsiasi tempo e luogo, anche remoti, si constati la sua indissociabile, attiva compartecipazione, come struttura portante, alle molteplici manifestazioni di civiltà, o se ne osservino le impetuose esplosioni in atto, o quando si tenti, avventurandosi nel futuro, qualche prima sommaria interpretazione della sua dinamica o qualche incerta anticipazione morfologica, mentre da un lato il fascino della straordinaria ampiezza e varietà del fenomeno allarga l’orizzonte dell’esplorazione, dall’altro non ci si può sottrarre al corrispettivo sgomento per la palese inadeguatezza degli strumenti conoscitivi.

Il fatto è che, dopo non meno di cinque millenni di civiltà urbana e di un’assai più antica cultura di villaggio, entrambe sviluppate in ambiti territoriali strutturati, ed in cui si sono avvicendati miliardi di esseri umani, dopo eventi così determinanti per la civiltà come la concentrazione insediativa e dopo varie ripetute vicende di impianto e formazione di città, di espansione e fioritura, di trapianto o di declino fino alla morte, con o senza risurrezione, o ancora di persistente plurimillenario rinnovamento in sito e di ristrutturazione territoriale, bisogna giungere fino a tempi estremamente ravvicinati perché l’idea stessa della città sia rappresentata in tutta la sua evidenza e le funzioni degli insediamenti umani sul territorio appaiano in tutta la loro dinamica complessità: in sintesi, per comprendere, come insegnò Patrick Geddes verso la fine del secolo scorso, che un villaggio, una città, una regione non sono solo un «luogo nello spazio», ma un «dramma nel tempo», inseriti dunque in un processo di sviluppo dinamico.

Essenzialmente statica e spazialmente delimitata è invece l’idea informatrice della città nel mondo antico, dagli insediamenti palaziali alla “polis”, quale traspare dai frammenti descrittivi di storici, geografi e viaggiatori, dalle regolamentazioni urbanistiche e dalle testimonianze archeologiche, come pure dalle stesse ipotesi platoniche ed aristoteliche di ideale formazione e di reggimento politico: comune, pur nella varietà di impianti, l’aspirazione ad una stabilità dimensionale, economica e sociale, sia dell’insediamento urbano principale, cittadella o città sacra o capitale o città commerciale, sia della sua area agricola, lenticolarmente concepita.

Verso questo obiettivo appare in sostanza indirizzata la stessa organizzazione territoriale romana, formatasi per aggregazioni successive di territori che venivano omogeneamente strutturati mediante impianto di città, creazione di relative aree economiche, dotazione di infrastrutture urbane e territoriali e di istituzioni civiche, il tutto tipizzato secondo una costante, monotona, e quindi universale, precettistica, che è riuscita per un arco di tempo non lungo, ma decisivo per la storia urbana, a garantire su estesa superficie l’equilibrio economico e sociale delle unità territoriali di base integrate in un sistema politico centrale.

Ancor più evidente è l’idea di microcosmo immobile implicita nella organizzazione della città medievale murata, che forma con il contado un sistema economico chiuso ed autosufficiente (salvo casi eccezionali, come, per es., le repubbliche marinare) e dove statuti, istituzioni, dialetti ed architettura, unitamente alle riaffiorate culture locali preromane, concorrono a caratterizzarne l’individualità nel rispetto dei princìpi universalmente accettati dell’equilibrio interno economico e sociale e della pariteticità di diritto degli insediamenti statutariamente riconosciuti.

Signorie e principati, tra il Cinque e il Settecento, non solo confermano l’idea del microcosmo urbano accentratore, ma lo isolano con un sempre più complesso sistema stabile difensivo, ed accentuano, su più vasta scala, la gerarchizzazione degli insediamenti sul territorio.

Si sviluppa in quei secoli l’arte urbana, che arricchisce le città principesche di nuovi episodi architettonici di rilievo; al tempo stesso si incomincia a teorizzare sulla “forma urbis” fino a dar vita ad una fioritura di nuove idee urbanistiche che sotto la veste di “città ideali”, si pongono, nei confronti delle esistenti, come altrettante possibili alternative globali; molto spesso le innovazioni vagheggiate sono soltanto formali, geometriche e difensive, ma in questa ricerca inventiva nuove idee prorompono sia nel campo tecnico sia nel campo dell’ordinamento sociale, aprendo la strada alle utopie. L’idea della città entra finalmente in movimento: basterebbero le intuizioni leonardesche per la irrigazione della Val di Chiana o per la ristrutturazione di Milano in dieci città da 30.000 abitanti a confermarlo.

Allo sviluppo di questi fermenti ideali non ha certo giovato l’ordine barocco e neoclassico congeniale al dispotismo politico, che dell’arte urbana ha fatto ampio uso e strumento, e tanto meno la grande ventata del suo opposto e successore, il liberistico “laisser faire”, applicato alla città; essi rivivranno e riprenderanno corpo solo nelle utopie dei primi riformatori sociali ottocenteschi.

Ma intanto l’orizzonte urbano si andava rapidamente allargando: protestantesimo, mercantilismo, accumulazione capitalistica, centralizzazione del potere, colonizzazione, scoperte e sistemi scientifici, rivoluzione industriale e demografica, teorizzazione economica, lotta politica, mentre danno vita ai tempi nuovi, spezzando, con il limitato orizzonte di idee, anche i chiusi circuiti dell’economia medievale e gli statici gruppi demografici, contribuiscono a rompere definitivamente l’ordine urbano e la statica gerarchia territoriale.

Dopo secoli di relativa stabilità demografica la popolazione europea nuovamente in fase di incremento, tanto da passare dai 180 milioni dell’anno 1800 ai 400 milioni nell’anno 1900, si pone ora in movimento, ridistribuendosi sul territorio e creando problemi nuovi che trovano impreparata l’antica strutturazione, urbana e territoriale.

All’abbandonato monocentrismo arcaico, nessuna nuova idea urbanistica si contrappone per lungo tempo: le caotiche strutture cittadine e territoriali sono, verso la metà dell’Ottocento aggredite dalle forze nuove e adattate a viva forza o distrutte come avviene con il significativo abbattimento delle mura, o confinate nella stagnazione e nell’abbandono; nuovi impianti produttivi e nuovi insediamenti sorgono senza far più ricorso all’arte urbana; nuove infrastrutture tecniche si sovrappongono indifferenti a quelle arcaiche: tutto il mondo storico rapida mente si dissolve e si trasforma.

La sensazione tuttavia che prospettive e possibilità si siano all’improvviso immensamente dilatate è confermata dal lungi mirante monito saint-simoniano (1825): « maintenant que la dimension de notre planète est connue, faites faire par les savants, par les artistes et les industriels un plan général de travaux à exécuter pour rendre la possession territoriale de l’espèce humaine la plus productive possible et la plus agréable à habiter sous tous les rapports».

Intanto il groviglio di problemi, sorti e non risolti per assenza di visione generale, ritardava purtroppo, ampliandosi e complicandosi, l’indispensabile ed urgente processo di razionalizzazione.

Né era facile scoprire una strada nuova che consentisse di uscire dalle imperanti degenerazioni dell’arte urbana tradizionale, ormai ridotta al disegno accademico di quinte a margine ed a decoro di grandi operazioni immobiliari speculative di sventramento o di rinnovamento urbano, che raggiungono il loro apice nell’attuazione del piano napoleonico-haussmanniano di Parigi degli anni ’50.

Due vie diametralmente opposte sono, in tutto il secolo, continuamente tentate: quella dei riformatori utopistici, alla ricerca di “modelli” ideali e generalizzabili come soluzioni alternative alla società in atto, e quella degli ingegneri urbani, che, allargando sempre più il loro campo d’azione dai ponti e strade agli impianti igienico-sanitari ed ai mezzi di trasporto collettivo, riscoprono il piano d’insieme. La prima ha prodotto, in concreto, qualche isolato prototipo e qualche quartiere operaio modello, costruito da industriali illuminati, sulla scia, peraltro, della tradizione settecentesca dei paesi nordici, ma non poteva pretendere, con modelli astratti, di ristrutturare una società in rapida evoluzione e le sue negative manifestazioni urbane. La seconda ha potuto produrre, oltre alle grandi opere come le reti di ferrovie metropolitane sotterranee ed aeree a Londra, Parigi e Berlino, eccezionalmente anche alcuni piani al larga concezione come la sistemazione del Ring di Vienna (1856) ed il piano di Barcellona di Ildefonso Cerdà (1859), dimostrandosi tuttavia impari al compito.

In ossequio all’incontrastato interesse privato ed ai princìpi liberistici, i piani tecnici di ampliamento e di sistemazione degli insediamenti in rapida espansione sono stati concepiti o sono stati attuati come puri e semplici piani di “allineamento” e cioè di discriminazione tra il sempre più limitato suolo pubblico, ormai ridotto alla sola viabilità ed ai parchi, ed il sempre più esteso dominio della proprietà privata, reale protagonista della città crescente, eludendo in tal modo i problemi economici e sociali e la visione generale dell’intero sistema urbano.

L’avvicinamento ad una soluzione integrata, sociale oltre che tecnica, pratica ma senza rinunce idealistiche, si ha solo verso la fine del secolo scorso: ad essa contribuiscono vari apporti scientifici e culturali di igienisti, geografi, sociologi e demografi. Dall’incontro di queste nuove discipline con l’ingegneria urbana e con una rinnovata, antiaccademica arte urbana nasce, alla fine del secolo scorso, la disciplina specifica ed autonoma dell’urbanistica; la prima edizione di Der Städtebau di Stubben, esce nel 1880; Der Städtebau nach seinen kunstlerischen Grundsatzen, di Camillo Sitte, nel 1889; Tomorrow, di Ebenezer Howard, nel 1898; la Regional Survey, di Patrick Geddes, nel 1899; Une Cité industrielle, di Tony Garnier, è del 1901-1904.

Con queste opere i fondamenti tecnici, estetici, sociologici ed innovatori dell’urbanistica moderna erano posti. Da esse e dagli studi teorici e sperimentali, che ne sono scaturiti nei decenni successivi, è sorta una nuova e più composita idea della città e del territorio urbanizzato, non più associata a forme astratte e statiche, ma tendente ad una sintesi di fattori complessi ed eterogenei.

Il fenomeno urbano è scomposto, analizzato e ricomposto scientificamente in tutti i suoi elementi costitutivi; anche l’uomo comune avverte ora la presenza, il peso, i problemi e la dinamica dell’urbanizzazione.

La scienza urbanistica ha camminato e la stessa tecnica dell’insediamento che nei primi decenni del secolo, soppiantando arte urbana ed ingegneria urbanistica, poteva apparire come conquista necessaria e sufficiente per la sistemazione razionale degli insediamenti e del territorio, sta ora cedendo il passo ad un processo che si profila globale, continuo e irreversibile: la pianificazione urbanistica.

Illustrare gli indirizzi teorici e pratici di questa tecnica in fase di evoluzione e di sistematizzazione e le sue più significative applicazioni concrete è compito della presente trattazione.

NOMENCLATURA ESSENZIALE

Con il passaggio avvenuto negli ultimi decenni del secolo scorso dall’arte urbana ( art urbain, civic art), intesa fino allora come architettura in grande, alla nascente tecnica dell’insediamento urbano, si modifica anche il linguaggio che si arricchisce rapidamente di nuovi vocaboli. Dove e quando e da quali occasioni questi siano sorti è problema filologico tuttora da esplorare: ci atterremo pertanto a pochi dati certi. Nel 1855 appare la parola “d emographie” nel trattato statistico di Guillard; non è quindi senza significato il fatto che nello studio delle componenti dei fenomeni demografici (natalità, mortalità, emigrazione ed immigrazione), quella particolare immigrazione che proprio allora stava dando corpo alle concentrazioni urbane fosse chiamata dagli statistici francesi con la parola “urbanisation” (ingl. urbanisation, amer. urban growth, ital. prima urbanismo poi urbanesimo) per designare la tendenza dei centri urbani a crescere, per inurbamento di immigrati, più rapidamente dei nuclei demografici circostanti.

Non è un caso che sia proprio Ildefonso Cerdà, che per primo impiega in modo sistematico l’analisi statistica negli studi preparatori al piano di Barcellona, a far precedere l’illustrazione a stampa del piano (1867) con un saggio intitolato Teoría general de la Urbanización, dove la stessa parola è impiegata nel duplice significato di concentrazione di popolazione urbana e di ampliamento fisico della città.

Questo duplice significato è attualmente di uso comune nelle spagnola e francese, mentre nella lingua italiana ed in quella inglese i due significati sono espressi con due distinte parole: il significato demografico-sociale rispettivamente con le parole “urbanesimo” ed “urbanisation”, quello fisico con “espansione urbana” e con “city development” (così è intitolato il libro di Geddes e Mawson, del 1903), dove “development” è usato in senso lato di “sviluppo”, o con “phisical growth of towns”. In italiano, la parola “urbanizzazione” è di uso assai recente ed è impiegata esclusivamente per indicare il processo di trasformazione d’uso da suolo agricolo a suolo urbano mediante la progettazione e l’attuazione di opere, impianti, servizi ed edifici a varia destinazione; ed ha il suo corrispondente inglese nel significato tecnico e legale di “development” (dal 1947), con l’avvertenza che questa parola ha un significato ancor più estensivo, comprendendo anche le semplici trasformazioni nell’uso degli immobili, cosicché la sua traduzione in italiano può essere, a seconda dei casi, “urbanizzazione” o “trasformazione d’uso”; anche il vocabolo francese “urbanisation” e quello spagnolo “urbanización” impiegati nel significato fisico sono recentemente usati anche nel senso più specifico di “urbanizzazione” e di “development”.

Esaminati i legami semantici tra fenomeno demografico e città costruita, si può ora ricercare con maggior sicurezza origine e significato dei vocaboli pertinenti all’urbanistica, intesa come scienza ed arte dell’organizzazione e dello sviluppo degli insediamenti.

Nella lingua tedesca non si sono posti particolari problemi linguistici, essendo chiaramente distinguibili le fasi di studio e di realizzazione della città con i due vocaboli composti di “Stadtplan” e di “Stadtbau”, che, usato con il plurale di città “Städtebau”, raggruppa in sintesi tutte le operazioni attinenti alla progettazione e costruzione della città ed assume quindi il significato generale di urbanistica: colui che se ne occupa è lo “Städtebauer”, cioè l’urbanista. L’uso di questi vocaboli risale agli ultimi decenni del secolo scorso e da allora si è mantenuto a lungo inalterato; ad essi, soltanto da pochi anni si sono aggiunti nuovi vocaboli rispondenti a nuove esigenze di espressione: così la fase analitica e scientifica dello studio, “Forschung”, è ora indicata con “Stadtforschung” per le città e “Raumforschung” per i territori, e l’organizzazione territoriale, che non può esser compresa nel concetto di “bauen”, è indicata con “Raumordnung”. Infine, di recente, si sta sviluppando l’uso della parola “Planung”, pianificazione territoriale, impiegata in “Landesplanung” ed in “regionale Planung”; nel campo degli studi economici è stato introdotto il termine di “Raumwirtschaft”, economia spaziale, così come l’aspetto politico della pianificazione urbanistica è designato con “Raumpolitik”.

Più complesso, variato e sfumato è il corredo linguistico anglosassone, per l’uso contemporaneo di tre differenti matrici “urban”, “city”, “town”, e con derivazioni del tutto particolari. Così in Inghilterra mentre il verbo “to urbanize” indica l’atto del rendere urbano un sito, con operazioni di trasformazione, queste sono designate, come già si è detto, con “development”, mentre il sostantivo “urbanisation” è usato esclusivamente nel significato statistico di urbanesimo; in America “urbanisation” è usato solo nel significato di estensione delle strutture urbane, ed è anche usata, sia pure non frequentemente, la parola “urbanism”per indicare il “modo di vita” conseguente all’inurbanamento. Per esprimere il concetto di “studio di appropriato sviluppo, pianificazione ed uso della città”, e cioè l’equivalente di urbanistica, l’Enciclopedia Britannica riporta la parola “urbiculture”, che non risulta adoperata nell’uso corrente.

Amplissima è la gamma di combinazioni con “plan”, pianta e progetto, e soprattutto con “planning”, che contiene in sé non solo le operazioni del progettare, ma anche quelle del programmare. Prima e fondamentale combinazione è il “town planning”, vocabolo che in Inghilterra all’inizio del secolo prende il sopravvento su “citv design” ed è consacrato nella prima legge urbanistica inglese, il Town Planning Act del 1909, nel titolo della prima rivista specifica, The Town Planning Review, sorta a Liverpool pure nel 1909, e nel primo congresso inglese, la Town Planning Conference, tenuto a Londra nel 1910: con questo duplice riconoscimento culturale e legale il “town planning” diventa, in Inghilterra, a partire dal secondo decennio del secolo, il termine ufficiale dell’urbanistica, come disciplina autonoma, concernente un campo che, nell’editoriale di apertura della Town Planning Review, è definito «alquanto nuovo ed inesplorato». Negli stessi anni, e precisamente nel 1909, Si aveva in U.S.A., a Washington (D.C.), il primo congresso nazionale di urbanistica, con la denominazione di City Planning. L’uso di questo vocabolo è rimasto in U.S.A. quello prevalente, tanto che anche l’Enciclopedia Britannica ospita la trattazione sull’urbanistica sotto la voce City Planning, scritta da John T. Howard, professore al Massachusetts Institute of Technology; in entrambi i paesi l’urbanista è indicato generalmente con “planner”, mentre in Inghilterra il primitivo “townplanner” è ancora in uso. Il “town planning”in Inghilterra ed il “city planning” in America non esauriscono tuttavia tutte le esigenze operative e culturali dell’urbanistica, che estende ben presto il suo campo di studio e d’azione al territorio ed alla regione. Si passa così in Inghilterra al “town and country planning”, dove “country” sta nel doppio significato di territorio e di insediamenti minori, ed al “regional planning termini questi entrati nell’uso corrente dopo il 1945; in U.S.A. al “city and regional planning” ed all’“urban planning”, dove, secondo Frederik Adams, con il primo si mettono in luce gli aspetti strumentali ed operativi dell’urbanistica al livello territoriale, con il secondo si evidenziano le interrelazioni fra gli aspetti sociali, economici e fisici, contenuti nella pianificazione. In italiano, la traduzione lessicale e concettuale di “town and country planning” e di “city and regional planning” è “pianificazione territoriale”, mentre “urban planning”corrisponde a pianificazione urbanistica, nell’accezione più estensiva. È da notare, tuttavia, che dagli anni ’50 in poi si sta diffondendo sempre più, sia in Inghilterra che in America, l’uso del puro e semplice “planning”, come termine comprensivo di tutti gli aspetti della pianificazione urbanistica: in questo senso la International Federation for Housing and Town Planning, le cui origini risalgono al 1913, ha cambiato denominazione, nel 1956, in International Federation for Housing and Planning (I.F.H.P.).

Anche nell’insegnamento universitario dell’urbanistica, che ha inizio in Inghilterra nel 1919 all’Università di Liverpool ed in America nel 1923 presso la Harvard University, varia è la denominazione delle Facoltà: in Inghilterra è generalizzata la denominazione di “town planning” e di “town and country planning”, mentre sopravvive l’antica denominazione di “civic design”all’Università di Liverpool, adottata peraltro anche in quella di Londra nel ’47, dove “civic design” è considerato l’equivalente di “town planning” ed è usato didatticamente per marcare la contrapposizione con “architectural design”; in U.S.A. le denominazioni prevalenti sono quelle di “city planning” e di “city and regional planning”.

Più ridotto di quello anglosassone, ma non così schematico come quello tedesco, è il lessico francese. Le prime derivazioni da “urbain” sono già state esaminate: “art urbain” e “urbanisation” da cui il suo opposto “désurbanisation”, decentramento urbano. Con gli inizi del secolo, fin dal 1903, prendono l’avvio gli studi storici ed i corsi di storia urbana, “études urbaines”, ad opera di Marcel Poëte, prima su Parigi e quindi sulle città in generale, e da essi, oltre che sull’onda dell’esplosiva attività culturale inglese del primo decennio del secolo, prende inizialmente le mosse 1’“urbanisme” inteso come scienza dell’evoluzione delle città.

Con notevole tempestività, nel 1911, viene fondata la Société Francaise des Urbanistes. Un’intensa attività culturale, nel secondo e terzo decennio del secolo, sviluppa in Francia un’ampia messe di pubblicazioni nel campo dell’urbanistica, incrementata anche dalle traduzioni dei “classici” tedeschi ed inglesi, dal Sitte ad Unwin. Per effetto di tali influssi la parola “urbanisme”, mentre continua ad essere impiegata per gli studi storici o per le anticipazioni del futuro, cede spesso, in quel periodo, alla “science des plans des villes”, che pare più aderente al “town planning”. Dopo gli anni ’30 quest’uso scompare e la parola “urbanisme”riassume in sé tutti i più ampi significati storici, teorici e pratici dell’urbanistica. Nella nomenclatura dei vari tipi di piano appare, fin dai primi anni del secolo, il il “plan d’aménagement”, come piano generale, soppiantato successivamente dal “plan directeur “(1952), mentre 1’“aménagement” è usato sol più nel senso di organizzazione territoriale in “aménagement des territoires” (1949) con le due specificazioni di “aménagement régional” e di “aménagement du territoire” quando l’oggetto è l’intero territorio nazionale. Solo recentemente, a partire dal 1960, e dopo l’avviamento dei piani economici nazionali pluriennali, l’“aménagement des territoires” è sostituito dalla “planification territoriale”, in coerenza con la “planification économique”.

In campo scientifico va ricordato il tentativo di inquadrare 1’“urbanisme” nel più vasto ambito dell’organizzazione dello spazio, per il quale M. F. Rouge ha proposto, nel 1947, la denominazione di “géonomie”, come equivalente del termine tedesco “Raumordnung”.

Attardati rispetto alla cultura internazionale, gli urbanisti italiani fanno le prime prove negli anni ’20, avendo alle loro spalle unicamente gli studi statistico-demografici, che avevano definito scientificamente l’urbanesimo (Mortara, 1908). Il primo congresso italiano è del 1926 (Torino) ed è intitolato all’Urbanesimo, dove questo termine è impiegato sia nel significato demografico, sia come adattamento di “urbanisme”; in questo senso ancora nel 1927, in una pubblicazione di Armando Melis su Torino, è impiegata la parola “urbanesimo”, ma nelle ultime pagine fa la sua apparizione la parola “urbanistica” usata sia come aggettivo, di dottrina, sia come sostantivo; e con urbanistica, anche “urbanista”.

A sprovincializzare l’ambiente culturale italiano concorre il XII Congresso della Intemational Federation for Housing and Town Planning, tenuto a Roma nel 1929, da cui prendono le mosse la costituzione dell’Istituto Nazionale di Urbanistica, avvenuta nel 1931 e l’inizio della pubblicazione della rivista Urbanistica nel 1932.

Questa posizione di retroguardia dell’Italia nella cultura europea contrasta stranamente con l’attività legislativa sviluppatasi ai primordi dell’unità nazionale, che aveva prodotto, in notevole anticipo rispetto alla Francia ed alla stessa Inghilterra, la legge del 1865 sulle espropriazioni per causa di utilità pubblica, con cui erano stati istituiti, sia pure in forma facoltativa, i “piani regolatori edilizi” ed i “piani di ampliamento”, caratterizzati da una visione sufficientemente allargata del fenomeno urbano.

Bisogna giungere però fino al secondo dopoguerra, perché in Italia si sviluppi una nuova cultura urbanistica, orientata a trasformare i piani urbanistici episodici in un processo di pianificazione continua, che con l’allargamento dell’orizzonte concettuale comporterà anche l’introduzione di un nuovo linguaggio.

DEFINIZIONE DI URBANISTICA

Se sono occorsi oltre cento anni per liberare la concezione dell’urbanistica dalla identificazione dapprima con l’arte urbana e quindi con la normativa edilizia e con l’ingegneria stradale, fino a configurarla come disciplina autonoma, con proprio irriducibile oggetto e specifica metodologia conoscitiva ed operativa, è ben comprensibile che le definizioni formulate in così lungo arco di tempo divergano su di un ampio ventaglio; in questo processo l’atteggiamento acritico di molti urbanisti pratici non ha certamente agevolato il chiarimento scientifico e la stessa operatività degli interventi.

La definizione di arte e tecnica della costruzione delle città, per lungo tempo accettata come semplice parafrasi dello Städtebau, suonava come simmetrica della definizione accademica dell’arte e tecnica della costruzione di edifici (v. ARCHITETTURA) e denunciava, con tale parallelismo, una posizione concettuale che riteneva l’urbanistica coincidente sostanzialmente con la stessa architettura, salvo, se mai, le differenze di scala, come se si trattasse di una particolare categoria di architettura in grande, ricadendo così nell’ormai inattuale definizione di arte urbana; al tempo stesso tale definizione, assegnando all’urbanistica una ibrida natura di arte e di tecnica, apriva una lunga serie di equivoci e di dispute sulla priorità dell’arte sulla tecnica o della tecnica sull’arte o del modo di accompagnare e adattare l’una all’altra.

Per lo Stubben (1889), infatti, scopo dell’urbanistica è ancora il «rivestire la tecnica soddisfazione delle esigenze con piacevoli forme» quasi che si trattasse poco più di un addobbo scenico; definizione questa che, rifacendosi agli epigoni dell’accademia architettonica, ripropone le distinzioni tra forma e struttura, tra pianta funzionale e prospetto artistico di un edificio, e quindi fra trama urbana e decoro architettonico dei vari edifici.

Anche il Larousse du XXème siècle (1933) definiva l’urbanistica come “aménagement et embellissement” delle città e dei villaggi e proponeva di condensare il suo programma nelle tre parole: “assainir, agrandir, embellir”, come sintesi di igiene, comfort ed estetica, nuova versione della triade vitruviana. Ancora nel 1934 Pierre Remaury su uno dei primi numeri della rivista Urbanisme sosteneva che l’urbanistica «coincide con l’architettura, di cui non è altro che un’estensione su di un piano generale»; affermazione questa che di tempo in tempo riaffiora specialmente fra quei critici che dell’urbanistica rilevano come elemento caratterizzante il solo aspetto spaziale e formale del vaso urbano, architettonicamente definito (ad es. Argan, 1938).

Una diversa angolazione è data da chi, pur senza sostanzialmente scostarsi dalla definizione tradizionale, considera come elemento caratterizzante dell’urbanistica la “pianta” della città: l’urbanistica diventa allora l’“arte di progettare” i piani delle città (Art of designing Cities, in Town Planning in Practice, di Raymond Unwin, 1909) e più tardi La Science des plans des villes, di Rey, Pidoux e Barde (1930). Attraverso lo studio della pianta della città (il “piano” coincide in quel periodo con la “pianta in progetto”) si raggiunge così una visione necessariamente d’insieme, sia pure geometricamente raffigurata sul piano, e quindi ancora bidimensionale e staticamente definita, con tutte le limitazioni che ne derivano, ma che rappresenta un primo affrancamento dalla identificazione dell’urbanistica con l’architettura, o dall’ingenuo connubio di arte e tecnica.

È ben vero che lo studio delle piante delle città può condurre, come ha in effetti condotto, a sopravvalutare l’aspetto “geometrico “della pianta stessa, ed a metterne in evidenza le caratterizzazioni morfologiche, e tutta la pur rilevante produzione scientifica del Lavedan, dall’Histoirede l’Urbanisme (1926-1938) alla Géographie des villes (1936), risente di questa accentuazione, ma è anche immediatamente evidente che la rappresentazione planimetrica altro non è che uno strumento simbolico e sintetico nel quale sono condensate le soluzioni di molti problemi di varia natura ed a mezzo del quale si esprime il carattere del prodotto finale: la città. Ed è proprio nella ricerca di una definizione scientifica e pratica dei “problemi” e della “città” che si affina il concetto di urbanistica.

«Urbi et orbi, dentro e fuori la città, nulla senza la città», esclama Le Corbusier nel 1922, presentando il suo progetto di una moderna città ideale, e prosegue: «infatti l’urbanistica è l’espressivo prodotto del patto di associazione che ha sempre condizionato la possibile esistenza degli uomini»; la visione globale della città nuova quale sgorga dall’empito creativo presuppone ed anticipa per Le Corbusier anche una nuova, ma non ben identificata, struttura sociale, basata su di un novello “patto di associazione”; il riferimento alla “conjuratio”, da Max Weber studiata proprio in quegli anni (Die Stadt, 1921) come fondamento sociologico della formazione della città occidentale intorno al mille, parrebbe non casuale.

Ma una definizione dell’urbanistica non può considerare soltanto il caso più propizio ed emozionante, quello delia creazione ex novo di una città, e soprattutto di una grande città, che resta pur sempre un evento eccezionale, ma deve considerare anche le operazioni relative alla trasformazione delle città esistenti, che rappresentano ovviamente il caso più diffuso, comprendendo tutte le possibili trasformazioni dalla creazione all’espansione, alle modificazioni ed alterazioni di qualsiasi entità.

È ciò che era stao espresso in termini assai generali fin dal 1920, da Géo Ford in Urbanisme en pratique: «l’urbanistica è la scienzae l’arte di applicare la pratica previsionealla elaborazione ed al controllo di tutto ciò che entra nell’organizzazione materiale di un’agglomerazione umana e di ciò che l’attornia»: Géo Ford preconizzava fin d’allora che il lavoro di analisi e di sintesi risultasse dallo sforzo combinato di competenze specializzate ed affermava con ampiezza di vedute che il campo d’azione dell’urbanistica è illimitato: non solo villaggi e città, ma anche il territorio circostante, le regioni, una intera nazione sono campo d’azione dell’urbanistica.

È questa una posizione concettuale del tutto nuova, che andrà ad informare l’atività pratica senza immediati sviluppi in sede teorica. Durante gli anni ’30 l’attenzione degli urbanisti teorizzanti è infatti attratta ed assorbita più dallo sperimentalismo del periodo razionalista, limitatoal campo dell’abitazione, dalla casa al quartiere, che dalla sommessa ma seria preparazione dei primi piani scientificamente studiti, che pure vengono approntati in quegli anni. Questi offrono tuttavia la prima vera occasione di scoprire e di afferrare formalmente la complessa realtà urbana attraverso l’analisi sistematica dei fenomeni e l’applicazione dei metodi statistici: esemplare sopra tutti, per metodologia e risultati, lo studio del piano di Amsterdam, durato dal 1928 al ’35. Si può con tutta tranquillità affermare che è su questa esperienza che viene edificata la nuova urbanisitca del secolo XX.

Alla luce di questa esperienza, risultano invece ancora estremamente deboli ed imprecise le definizioni date in quegli anni sull’urbanistica.

Scienza d’osservazione, arte di composizione e filosofia sociale, la definisce Alfred Agache nel 1932; ma poi spiega che «l’urbanista deve tradurre in proporzioni, volumi, prospettive e profili le diverse proposte suggerite da ingegneri, economisti, igienisti e finanzieri» riducendo quindi l’urbanistica ad una sorta di interpretazione e di traduzione simultanea di idee altrui, con evidente negazione di qualsiasi autonomia di metodo e di giudizio. L’equivoco dell’“urbanista-interprete” durerà a lungo, configurando l’urbanistica come una pura e semplice tecnica neutrale e passiva, sottomessa ad altre discipline ed a decisioni del tutto esterne.

Contro questo atteggiamento remissivo e contro il suo opposto, l’atteggiamento demiurgico dell’alternativa globale proposta dall’“urbanista-riformatore sociale”, tipico dell’urbanistica utopistica, vien presa posizione in vari modi ed in varia misura.

L’atteggiamento più prudente, di fronte alla complessità dei problemi posti dalla realtà presente degli insediamenti urbani ed alla vastità delle analisi che essi reclamano, è quello di definire l’urbanistica come “punto di convergenza” di arti e scienze assai diverse (Joyant, 1934) o come “scienza che abbraccia molteplici branche” (Elgoetz, 1935): troppo poco, ma quanto meno, il punto focale è riportato al centro della realtà che si vuole esaminare e modificare e non al di fuori di essa.

Ma se si riconosce che la realtà su cui si vuol operare, ed operare “da dentro”, è complessa ed eterogenea, dovrebbe anche essere possibile individuare un principio di coesione interna specifico per la realtà urbanistica, da cui far discendere una scala di valori, che possa guidare nei giudizi di merito. A questo problema sono state date varie risposte.

Gli architetti ed urbanisti razionalisti degli anni ’30 hanno individuato questo pricipio nel funzionalismo di tutti gli elementi costitutivi della città. Per essi così si esprime Piero Bottoni nel 1938, definendo l’urbanistica «la dottrina che si occupa della organizzazione dei luoghi o centri destinati all’abitazione, alla produzione, alla distribuzione, alla vita collettiva, allo svago e riposo dell’uomo, con le comunicazioni ed i trasporti relativi, nel modo più conforme alla intrinseca funzionalità di quelli ed alle superiori necessità sociali collettive», ma non precisa il principio di funzionalità delle singole parti, né affronta il problema del passaggio dalla funzionalità delle parti a quella dell’insieme.

Il richiamo alla funzionalità, peraltro, non è nuovo nelle teorie architettoniche, ed in urbanistica esso si riallaccia alla penetrante intuizione di Ildefonso Cerdà (1859), che ricercava il principio di coesione interna della struttura urbana nelle ~ relazioni reciproche tra contenuto e contenente, che sono espressione del funzionamento della popolazione nella città», con la differenza che secondo gli urbanisti razionalisti il principio di funzionalità sembra discendere essenzialmente da relazioni intrinseche fra gli oggetti fisici (per es. soleggiamento, e quindi distanze fra gli edifici), mentre per Ildefonso Cerdà il termine di paragone e di misura è la popolazione nel suo rapporto con la struttura fisica urbana: città e popolazione diventano nell’impostazione di Cerdà due termini insopprimibili che vanno costantemente esaminati nella reciprocità delle loro relazioni. Si apre in tal modo il discorso a quella visione generale ed organica che viene ampiamente sviluppata da Patrick Geddes, nei suoi studi sulla evoluzione delle città: per Geddes (1923), l’urbanistica è anzitutto scienza civica, basata sulla “civic survey”, ed ha per obiettivo la riorganizzazione delle città e delle regioni, perché la scienza non può non mirare all’azione, la diagnosi alla cura.

«La città è un organismo, vivente di vita propria», aveva affermato Marcel Poëte fin dal 1908. La concezione organica, che sviluppa le idee di Cerdà, Geddes, Poëte, è chiaramente definita da Luigi Piccinato nell’Enciclopediaitaliana (1938): «l’urbanistica in generale guarda all’evoluzione della città nella sua totalità, poiché la città si può considerare come un essere vivente in continua trasformazione»: inquadrata in questa prospettiva l’urbanistica si propone lo studio generale delle condizioni, delle manifestazioni e delle necessità di vita e di sviluppo delle città.

Ma anche il principio della visione organica, pur costituendo un superamento della posizione tecnicistica dei funzionalisti, appare ancora insufficiente a risolvere tutti i problemi posti dalla pianificazione urbanistica, soprattutto per quanto riguarda gli aspetti economici, come pure si rivela insufficiente a precisare il metro rispetto al quale possano essere ragionevolmente operate le scelte. Ancor più si complica il problema se nella realtà urbanistica si tien conto anche della struttura sociale e politica.

«Parlare di urbanistica fuori di una determinata concezione etico-politica non ha senso. L’urbanistica non è semplicemente una tecnica», ammoniva nel 1941 Carlo Ludovico Ragghianti.

In un orizzonte così dilatato è ancora possibile ritrovare un principio di coesione, di unificazione e di guida?

Sir William Holford, nel Town and Country Planning Textbook, del 1950, ha individuato tale principio nel «processo di coordinamento e di combinazione di operazioni su vari fronti», che sarebbe comune alle tre fasi fondamentali della pianificazione: l’indagine, il piano di sviluppo ed il programma di attuazione; nel Text-book è praticamente illustrato quanto l’urbanistica possa attingere per le sue analisi dalle varie discipline geografiche, sociologiche, economiche e giuridiche e di quale attrezzatura tecnica specifica ormai essa disponga dopo parecchi decenni di attività sperimentale. Il processo di sintesi occorrente per la formazione del piano è stato chiaramente definito da Lewis Keeble nei Principles and Practice of Town and Country Planning (1952), come risultato di «raccolta, confronto e valutazione di tutte le correlazioni, possibilità e conflitti, posti in luce dalle indagini». Il principio di coesione è dunque, nelle differenti fasi di analisi e di sintesi, anzitutto un principio di metodo. Ma se l’analisi può essere scientificamente condotta, la sintesi resta ancora, nella esposizione del Keeble, frutto soggettivo di una mente.

La ricerca della oggettivazione scientifica di un sempre maggior numero di scelte e la sperimentazione “ex ante” dei risultati di sintesi costituiscono i nuovi temi metodologici degli anni ’60: ed anche se finora i risultati pratici in tale direzione sono del tutto esigui, è tuttavia significativo che il problema sia ormai concettualmente impostato e che costituisca il campo di esplorazione della pattuglia più avanzata negli studi scientifici della pianificazione urbanistica.

Giunti a questo punto dell’esame delle varie definizioni di urbanistica, viste nel loro sviluppo storico e collocate nella loro concatenazione concettuale, riteniamo necessario, per procedere verso una ipotesi di definizione aggiornata, approfondire prima la natura dell’oggetto stesso della ricerca e degli interventi, l’insediamento umano sul territorio, nella sua più civile espressione, la città.

DEFINIZIONE DI CITTÀ

Vastissima è la letteratura sull’argomento, accumulatasi in poco più di mezzo secolo di studi ad opera di geografi, storici e sociologhi; ad essa va aggiunta una ancor più copiosa produzione di monografie locali, compilate a premessa di piani urbanistici, delle quali solo una esigua aliquota ha visto le stampe, mentre la maggior parte di esse, redatte in limitatissimo numero di copie, sono andate disperse. Manca per queste ultime una aggiornata e sistematica bibliografia per paesi, iniziata per ora soltanto in Inghilterra, Francia e Polonia; manca soprattutto, in questo campo, un centro internazionale di documentazione, che garantisca la conservazione e la consultazione dell’immenso materiale prodotto.

Verso una scienza urbana. - L’interesse per lo studio scientifico del fenomeno urbano da parte delle discipline geografiche e sociologiche ha inizio nell’ultimo decennio del secolo scorso, con notevole ritardo rispetto alle manifestazioni di interessamento e di esplosione urbanistica ormai in atto negli Stati Uniti ed in Europa a partire dalla metà del secolo. È infatti di quegli anni (1845) la drammatica denuncia di Engels sulla situazione delle abitazioni della classe operaia in Inghilterra, con la minuta descrizione della situazione urbanistica di Manchester. Ma bisogna giungere fin verso la fine del secolo perché prenda avvio lo studio scientifico degli insediamenti umani, che si sviluppa quasi contemporaneamente secondo vari filoni separati, e spesso contrastanti, facenti capo alle dottrine geografiche sociologiche ed economiche che in quegli anni si formano; sia pure nella molteplicità degli angoli visuali alcuni principi comuni vengono tuttavia riconosciuti e costituiranno il quadro di riferimento concettuale delle ricerche specifiche nel campo urbanistico.

Con l’Antropogeografia di Ratzel (1891) Si enuclea il principio della “unitarietà ambientale” e quindi della concatenazione di tutti i fenomeni di geografia fisica ed umana; l’Ecologia di Haeckel (1884) apre lo studio delle «mutue relazioni di tutti gli organlsmi viventi in un solo ed unico luogo e del loro adattamento all’ambiente che li attornia»; entrambe aprono la strada all insegnamento di Vidal de la Blache ed alla sua Geografia umana (uscita postuma nel 1922), Cui riconoscono di far capo le modeme scuole di geografia urbana che annoverano studiosi della statura di Max Sorre, Pierre George e Chabot.

Nello stesso periodo di tempo si sviluppa la moderna sociologia, che prende le mosse dalla prima opera di Émile Durkheim, La divisione del lavoro sociale (1893); in essa, partendo dalla distinzione tra divisione di lavoro tecnico e divisione del lavoro sociale, Durkheim dimostra che lo sviluppo di quest’ultima conduce alla preponderanza della “solidarietà organica” (per dissomiglianza) sulla “solidarietà meccanica” (per assomiglianza) il che si manifesta con la crescente moltiplicazione di raggruppamenti particolari, la limitazione progressiva del diritto “repressivo” ,1’interiorizzazione della coscienza collettiva e la “fortificazione” della personalità umana. Con Durkheim viene affermata la «specificità della realtà sociale e la sua irreducibilità di fronte a qualsiasi altra realtà»; oggetto e metodo della sociologia, nel pensiero durkheimiano, sono così definiti dal Gurvitch: «La sociologia è una scienza che studia, con vedute d’insieme, in modo tipologico ed esplicativo, i differenti gradi di cristallizzazione della vita sociale, la cui base si trova negli stati di coscienza collettiva, irriducibili ed opachi alle coscienze individuali; questi stati si manifestano nelle costruzioni, istituzioni, pressioni e simboli esteriormente osservabili, si materializzano nella trasfigurazione della superficie geografico-demografica ed impregnano al tempo stesso tutti questi elementi con le idee, va!ori ed ideali cui tende la coscienza collettiva nel suo aspetto di libera corrente di pensiero e di aspirazione». La scuola durkheimiana, continuata da Marcel Mauss e da Maurice Halbwachs autore della Morphologie sociale (1935), è oggi rappresentata da Georges Gurvitch, che definisce la sociologia (1958) come «scienza che studia nel loro insieme ed ai vari livelli di profondità i fenomeni sociali totali astrutturali, strutturabili e strutturati, al fine di seguire-e spiegare, in collaborazione con la storia, i loro movimenti di strutturazione, destrutturazione, ristrutturazione e sprigionamento». Secondo questo indirizzo sociologico la prima tappa nello studio di un fenomeno sociale totale è data dalla ricognizione della superficie morfologica ed ecologica, che studia le esteriorizzazioni materiali della realtà sociale (densità, movimento e distribuzione spaziale della popolazione, insediamenti urbani, vie di comunicazione, utensili etc.) che si possono considerare sociali in quanto penetrate e trasformate continuamente dall’azione umana collettiva.

In questo quadro si collocano le più recenti ricerche di sociologia urbana di Chevalier, e di Chombart de Lauwe, che si riallacciano agli studi di ecologia urbana della scuola nordamericana, iniziati da Robert Ezra Park (1919), sviluppati in collaborazione con Burgess e McKenzie (1925), e proseguiti soprattutto dalla scuola di Chicago.

Lo scopo comune degli studi di sociologia e di ecologia urbana è stato definito da Denis Szabo (1933) come «lo studio dei gruppi sociali e della loro interazione in quanto influenzati da quell’ambiente fisico-psico-socio-culturale che è l’agglomerazione urbana».

Questo rapido schizzo, necessariamente sommario ed incompleto, della nascita degli studi urbani sarebbe ancora fortemente mutilo se non si facesse almeno un fugace cenno ad altri avvenimenti scientifici non meno importanti, quale il sostanziale rinnovamento di antiche discipline, come l’economia e la statistica, avvenuto sullo scorcio del secolo.

Per quanto riguarda la statistica, l’epoca moderna degli studi è collocata alla fine del secolo, con Karl Pearson, da cui hanno origine le modeme scuole di statistica, mentre, per quanto riguarda le scienze economiche, sarà qui sufficiente ricordare, in sintesi, che un decisivo sviluppo del pensiero economico ha inizio, negli ultimi decenni del secolo, per opera di due scuole entrambe astratte (quella austriaca, sull’utilità marginale applicata al campo della microeconomia, e quella di Losanna, sull’equilibrio generale esteso quindi ad una macroeconomia astratta per merito della scuola londinese di Alfred Marshall, che espone la teoria dell’equilibrio parziale basata sull analisi temporale dei periodi lunghi e brevi, e della scuola economica di Stoccolma) e inoltre che gli ulteriori sviluppi passano attraverso alla Teoria generale dell’impiego dell’interesse e della moneta di Keynes (1936), come tentativo di una teoria centrale esplicativa del funzionamento delle fluttuazioni di tutti i settori. Negli anni più recenti si assiste allo sforzo di far convergere le varie scuole moderne di pensiero economico verso una nuova metodologia, basata sulla unificazione dei metodi statistici e matematici e delle teorie economiche, che apre un nuovo campo di osservazione e di congettura; ricerche econometriche, modelli teorici e loro applicazione al mondo reale schemi globali di bilancio nazionale, modelli previsionali e decisionali sono i principali capitoli e le fondamentali tappe di questa nuova scienza economica, che sfocia nella teoria della pianificazione, intesa, secondo la definizione di Gilles-Gaston Granger (1955), come «organizzazione o riorganizzazione sistematica di una struttura e del suo funzionamento».

Il richiamo alle scienze economiche nel corso della presente trattazione potrebbe apparire, a prima vista, quasi senza nesso pratico, se, proprio nelle fasi finali dell’evoluzione del pensiero economico, non fossero stati ritrovati strumenti di osservazione e di previsione di un’economia globale territorialmente definita, che si possono applicare e si incomincia ad applicare anche a regioni, ad agglomerazioni urbane ed a città.

Coordinare ed integrare quelle parti della geografia, della sociologia, ed ora anche dell’economia, che si interessano dei fenomeni urbani in un’unica coerente scienza urbana è un passo ancora da compiere sul piano teorico e metodologico, ma esso appare allo stato attuale dello sviluppo di tali scienze, non solo possibile, ma opportuno ed auspicabile; il tentativo e effettivamente in corso, sia pure in forma ancora grezzamente sperimentale, nei più avanzati studi urbanistici.

Definizione geografico-urbanistica della città. - Una rapida rassegna delle principali fra le numerose defìnizioni di città enunciate da geografi, storici e sociologi moderni, pone in luce la estrema varietà degli aspetti rilevati e dei punti di vista e la difficoltà di contenerli in un’unica proposizione, che risulti valida al di fuori delle differenze temporali e spaziali. Così la definizione di città come «stabile concentrazione di uomini e di residenze che coprono considerevole parte di terreno, con strade commerciali al centro», data da Ratzel (1891), evoca piuttosto i caratteri della città preindustriale che non quelli delle città in esplosione verso la fine del secolo, e non può essere certamente assunta, per incompletezza, come enunciazione generale. Definire la città, distinguendola dal villaggio, per mezzo dell’attività dei suoi abitanti è impresa quasi senza sbocco, perché se si procede per esclusione, come propone von Richthofen (1908), secondo cui la città è «concentrazione di attività non agricole», si ottiene una indicazione non solo vaga, ma anche unilaterale, perché non riconosce carattere urbano alle città agricole che non abbiano carattere di villaggio; se si tenta di elencare tutte le possibili attività non si ottiene altro che una interminabile lista, ed infine, se si cerca di coglierne il carattere predominante, come nella definizione sintetica di Max Weber (1921) della città come «sede di mercato» (con le variazioni di città dei mestieri, dei mercanti o dei consumatori), si individuano solo alcuni degli aspetti economici tipici della città medievale del mondo occidentale, non estensibili ad altri periodi storici, o li si stempera nella genericità, come nella formula di H. Wagner (1923) per il quale le città sono «punti di concentrazione del commercio umano». Sempre in questa direzione sono ancora da segnalare la definizione di Bruhnes e Deffontaines (1920), secondo i quali «vi è città ogni qual volta gli abitanti impiegano la maggior parte del loro tempo all’interno dell’agglomerazione», che è evidentemente inapplicabile alle città-dormitorio ed alle città agricole, inentre lo potrebbe essere anche ad annucleamenti non strutturati; fra le più recenti quella di Pierre George (1952) che individua la città nel «punto di contatto tra economia industriale ed economia commerciale», anche questa tuttavia suscettibile di riserve. Utile ai fini orientativi e descrittivi, ma scientificamente sterile, è la classificazione tipologica degli insediamenti umani catalogati secondo i più svariati caratteri, dagli aspetti fisici del sito a varie ed arbitrarie classi di ampiezza, alle funzioni prevalenti (commerciali, militari, portuali, industriali, amministrative, politiche, religiose, turistiche, ecc.), ognuno dei quali, come ad esempio quello amministrativo, può generare numerose sottoclassi, e così via.

L’unico tentativo di trar partito da queste numerose classificazioni per una annotazione di sintesi dei dati segnaletici relativi ad un insediamento è stato realizzato da Griffith Taylor, che in Urban Geographie (1947) propone una “equazione di città", composta di due membri: il primo, a sinistra, formato dalla cifra della popolazione (in migliaia) moltiplicata per lo stadio di sviluppo (per il quale propone una curiosa divisione in cinque classi d’età: infantile, giovanile, adolescente matura e senile) più i caratteri del sito (espressi secondo una data classificazione); il secondo, a destra, formato da una somma di tanti addendi quante sono le zone funzionali della città, ciascuna delle quali contrassegnata da un’espressione composta dalla sigla di destinazione d’uso, dalla distanza chilometrica della zona dal nucleo centrale e dalla posizione della zona stessa rispetto ai punti cardinali, sempre riferita al nucleo centrale. Il metodo, per quanto perfezionabile ed utilizzabile ai fini classificatori, non risulta praticamente applicato.

Più fecondo di risultati è stato invece il metodo della lettura morfologica dell’insediamento, proposto dal Lavedan (1936), che individua come elementi generatori della pianta: l’asse stradale generatore, le direttrici naturali, il rilievo, l’eventuale cinta muraria, i monumenti (che determinano nel tessuto edilizio movimenti di avvolgimento, di attrazione o di prospettiva) ed infine i sistemi geometrici razionali di urbanizzazione (a scacchiera, radiocentrici, lineari, a fuso, ecc.).

Il metodo, se criticamente utilizzato, può fomire lo spunto per la interpretazione dei caratteri urbani, come hanno dimostrato gli studi di Luigi Piccinato sulle città medievali; «nell’organismo urbano», dice sinteticamente Umberto Toschi (1947) «funzioni e forme differenziano elementi costitutivi numerosi e diversi che bisogna cercare di individuare nei loro caratteri interiori ed esteriori».

L’analisi morfologica dell’impianto, del tracciato e del tessuto di un insediamento e dei caratteri del sito determinanti per la struttura urbana può quindi esser utilmcnte eseguita come uno dei primi passi verso la conoscenza della realtà del fenomeno urbano, ma può anche condurre a risultati del tutto sterili ed astratti, se l’esame vien limitato all’aspetto puramente geometrico e fisico degli elementi generatori della pianta, perché allo studio dell’organismo urbano, che pur si dichiara di non poter conoscere se non nella globalità di organismo, si sostituisce la descrizione schematica e statica del suo scheletro o, se si vuole, del suo guscio, correndo lo stesso rischio, denunciato da Marcel Mauss, di chi «trascura l’elemento vulcanico, novatore, effervescente, rivoluzionario della vita sociale, considerandola sotto l’aspetto istituzionale, visto di preferenza nella sua espressione cristallizzata e cadaverica».

Quest’esigenza era già stata profondamente capita da Patrick Geddes (1854-1932), che, superando l’esame delle semplici interazioni fra luogo-lavoro-popolo, proposte da Le Play e da lui attivizzate nei rapporti fra organismo-funzione-ambiente, ha insegnato a considerare le città nel loro stato di evoluzione e ad analizzare la condizione attuale in tutti i suoi aspetti dinamici, anche negativi. A lui si deve non solo la definizione della “città paleotecnica”, frutto della rivoluzione industriale incontrollata (che ha prodotto Kakotopia), cui contrappone la fase “neotecnica” (Eutopia), secondo una schematizzazione tipologica ed una terminologia che saranno ampiamente sviluppate da Lewis Mumford, ma anche una serrata critica della dispersione e disseminazione urbana in atto sul territorio inglese nei primi anni del secolo, con le patologiche manifestazioni dei nastri continui e delle fungaie di case o di quelle particolari proliferazioni di tessuto astrutturato che si sviluppano irregolarmente e con discontinuità attorno e fra i centri industriali fino a dar luogo, nel loro complesso, ad un nuovo tipo di insediamento e ad una nuova forma di aggregazione urbana, dal Geddes battezzata “conurbazione” (1915).

Il processo di urbanizzazione spontanea, sollecitata dai singoli interessi privati dell’economia capitalista in espansione, era infatti, in Inghilterra, in stadio di avanzata degenerazione fin dai primi anni del secolo con manifestazioni che si sarebbero prodotte solo più tardi in altri paesi, con la puntuale ripetizione ed accumulazione di identici aberranti effetti. Si sono così avuti differenti aspetti morfologici di espansione incontrollata, con casi di avvolgimento a nubi attomo a città accentrate tradizionali, con infiltrazioni a spora e a grappolo germogliate fra città principale e corona di città minori, oppure con inserimenti di tessuto sfilacciato ed informe fra città e città di pari importanza o, ancora, con la formazione di un amorfo tessuto indefinitamente dilatabile: ovunque si siano manifestati, questi nuovi insediamenti hanno rapidamente rotto l’antica separazione fra città e campagna, sconvolgendo antiche e recenti equilibrate strutture di quei sistemi solari urbani già studiati da Walter Christaller (1933) e che ora vengono trasformati da costellazioni in galassie, o dissolvendo ogni sistema in un’unica nebulosa urbana, formata da un “continuum urbano-rurale”, variamente diluito o condensato (A. Smailes, 1953).

I moderni geografi (T. W. Fawcett, Chabot e Pierre George) continuano ancora a denominare tali fenomeni “conurbazione “quando le città d’origine, fra le quali si sono insinuate le proliferazioni, restano distinte pur essendo inglobate in un unico insieme, ma li battezzano “agglomerazioni” quando tra città e proliferazioni si stabilisce uno stretto grado di interrelazioni e di dipendenza. Nel recente linguaggio urbanistico inglese, il termine “city region”, già adoperato dal Geddes in senso geografico di regione urbana, è ora spesso usato per indicare quelle conurbazioni che siano soggette ad un processo di ristrutturazione urbanistico-amministrativa, per la loro trasformazione da aggregati informi in aggregazioni strutturate. In questo senso “city region” è da tradurre con “regione urbanizzata” più che con “città-regione”, come spesso è stato impropriamente ed affrettatamente fatto in Italia in tempi recentissimi, dando luogo ad equivoci ed abusi nominalistici; il termine città-regione, infatti, non esprime con evidenza il senso di ricupero di una situazione negativa in atto, ma induce piuttosto all’illusoria scoperta di una nuova categoria di supercittà quasi che l’estensione del concetto di città ad un ampio territorio comportasse anche la risoluzione o l’assoluzione di tutti i suoi problemi.

Per alcuni geografi inglesi, tra cui il Dickinson (City, Region and Regionalism, 1947-1960), il termine di “city-region” è invece usato per indicare l’area tributaria funzionalmente dipendente, o servita, da una città, nel senso quindi geografico-economico di area di influenza.

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