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Elisabetta Povoledo
Il passato che ci riafferra sulla regina delle strade
5 Aprile 2008
Pagine di cronaca
Le vicissitudini moderne dell’Appia Antica e la situazione di impasse della tutela nelle cronache di oltre oceano. Da The New York Times, 5 aprile 2008 (m.p.g.)

Nei tempi antichi la via Appia, che collega Roma alla città meridionale di Brindisi, era conosciuta come la regina viarum, la regina delle strade. Ma ai giorni nostri la sua corona appare appannata da cronica congestione del traffico, vandalismo e, come si lamentano i suoi custodi, abusivismo.

“Guardi questo!” esclama Rita Paris, la direttrice del Ministero italiano, responsabile per la via Appia, scrutando attraverso uno schermo di bambù stagionato che fiancheggia la strada, mentre manovra la sua auto sobbalzante su un tratto di antiche pietre irregolari. “Può scommettere che questa era una tettoia che è stata murata e trasformata in un’abitazione.” Un poco più oltre si infervora contro un vivaio che è stato trasformato in ristorante (senza permesso edilizio), una cisterna rimodellata in piscina e le ville moderne attaccate ai monumenti antichi. Numerose sono affittate per ricevimenti nuziali o balli di società, e il fatto incrementa il flusso del traffico – e occasionalmente, “fuochi d’artificio”, ci racconta Rita Paris, con un fremito. Considerata fondamentalmente zona di proprietà immobiliari nei tempi antichi, allorchè i Romani seppellivano i loro morti nelle tombe allineate lungo le strade al di fuori delle mura della città, la via Appia ha conosciuto un rinascimento in età contemporanea negli anni ’60, quando Roma era conosciuta come la Hollywood sul Tevere. Le stars del cinema italiano vi si trasferirono in massa, mentre oggi è soprattutto abitata da danarosi proprietari. Ma ai giorni nostri i residenti sembrano indifferenti al ricco passato archeologico della strada, ci ha detto Livia Giammichele, un’archeologa che, come Rita Paris, sta conducendo una campagna contro quegli abitanti che descrive come “nuovi barbari”. “Non si rendono sempre conto che vivono in condizioni privilegiate”, afferma.

Ciò che irrita particolarmente gli archeologi che controllano la strada principale, che fu iniziata nel 312 a.C. dal censore Appio Claudio Cieco, è il fatto che numerose leggi governino l’Appia, almeno sulla carta. Benchè l’idea di creare un parco pubblico lungo il percorso risalga ai tempi napoleonici, fu solo nel 1965 che un’area di 6000 acri fu assegnata a tale finalità. Nel 1988 la regione Lazio istituì il Parco Regionale dell’Appia Antica, un serpentone verde che si allarga nel suburbio a sud est di Roma. Tecnicamente ciò significa che l’area è protetta da leggi severe per la conservazione dell’habitat naturale. L’abbondanza di monumenti antichi, sia visitabili (come la tomba di Cecilia Metella o le catacombe) che non accessibili (perché all’interno di proprietà private), dovrebbe inoltre precludere ogni sviluppo irregolare secondo la legge italiana. La realtà è più complessa. L’area del parco è ampia e difficile da controllare (in alcuni tratti al di fuori della città “ci sono atti di vandalismo quasi ogni notte”, ci ha detto Rita Paris). E oltre il 90% del Parco è ancora proprietà privata. A complicare la situazione, tre condoni edilizi sono stati approvati dai governi nazionali, fin dai primi anni ’80. I critici evidenziano come il condono degli abusi passati incoraggia ancora di più le costruzioni abusive. “Non si può costruire un muro di Berlino qui attorno – non è la soluzione più moderna,” ha dichiarato Adriano La Regina, il presidente del parco regionale, che è stato il Soprintendente archeologo di Roma. Se anche potesse essere costruito, ciò non risolverebbe la questione. “C’è un tale groviglio di amministrazioni e istituzioni coinvolte a livello municipale, regionale e statale da rendere la vita molto complicata perché ciascuna di esse agisce su alcuni aspetti della gestione del parco,” afferma Adriano La Regina. Deve ancora essere definito un assetto unitario. Se gli archeologi potessero governare la strada antica, ha dichiarato, questa tornerebbe al suo stato di “straordinario monumento storico”.

Durante gli ultimi anni gli ispettori archeologi sono riusciti a far sì che il Ministero italiano della Cultura acquisisse allo Stato alcune delle proprietà che sono state messe in vendita sull’Appia. Nel 2002 lo Stato ha acquistato un’ampia villa in un’area conosciuta come Capo di Bove. Gli scavi nei giardini hanno portato alla luce le fondazioni di un complesso termale di 54 ambienti. La villa stessa fu costruita negli anni ’50, e i muri esterni sono tappezzati di manufatti archeologici come coperchi d’anfora, iscrizioni marmoree e tegole di terracotta. “Non avrebbero potuto farlo, ma se ne sono infischiati”, ci dice Rita Paris. La villa presto ospiterà l’archivio di Antonio Cederna, un giornalista ed intellettuale che promosse campagne stampa per tutelare il patrimonio culturale italiano e fu uno strenuo difensore del parco dell’Appia Antica.

Più recentemente, il Ministero della Cultura ha acquistato e sta ora restaurando la chiesa di Santa Maria Nova, che confina con la spettacolare Villa dei Quintili del II sec. d.C., a circa cinque miglia dal centro di Roma. Vicino alla chiesa sono stati rinvenuti dei mosaici che raffigurano gladiatori. Ma gli scavi sul sito sono cessati presto quest’anno, poichè i fondi sono finiti. Il bilancio finanziario per l’Appia è di circa un milione mezzo di dollari annui, e non dura mai molto, ci ha detto Livia Giammichele. La vita sull’Appia non è sempre semplice neanche per i residenti. Paolo Magnanimi, che gestisce il ristorante Hostaria Antica Roma, che dichiara aperto, sull’Appia, nel 1796, suggerisce che gli ispettori ministeriali pur avendo ragione a tutelare la zona, dovrebbero essere più accomodanti. “Non possono sempre guardare a tutto con gli occhi del gendarme”, dichiara. Quando suo padre comprò il ristorante nel 1982, afferma Magnanimi, diede nuova vita ad un posto che era stato abbandonato. “i controlli sono giusti, ma tenete presente che noi acquisimmo un monumento che era divenuto un’abitazione privata e lo riaprimmo al pubblico”, dice. “Tutti possono entrare e guardare: non si deve per forza mangiare un piatto di pasta.”

(traduzione di Maria Pia Guermandi, qui il testo originale)

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