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Edoardo Salzano
20080404 Sull’articolazione dei piani urbanistici in due componenti
5 Aprile 2008
Articoli e saggi
In un saggio scritto per il Notiziario dell’archivio Osvaldo Piacentini (n.11-12, anno 10, aprile 2008, tomo 2) si racconta “come la volevamo, come è diventata, come sarebbe utile"

Sono tra quelli che, a partire dell’inizio degli anni Ottanta del XX secolo, hanno cominciato a proporre e sperimentare l’articolazione della pianificazione in due componenti: una componente strutturale, una componente programmatica. Le proposte che in quegli anni proponemmo e sperimentammo[1] acquisirono marcata evidenza pubblica nel Congresso dell’INU del 1995, e ispirarono molte legislazioni regionali successive (a partire da quella toscana e quella ligure del 1995-1997) e la formazione di strumenti di pianificazione particolarmente in Toscana, Liguria, Emilia-Romagna, Veneto.

Oggi si discute (ma in cerchie abbastanza ristrette) sull’efficacia di quella articolazione. Una discussione nella quale si sentono molte voci critiche le quali, a mio parere, si riferiscono più all’applicazione concreta dell’articolazione che al suo significato. In questa note vorrei domandarmi se quella articolazione abbia ancora oggi un senso oppure no: se sia sbagliato, o comunque criticabile, il principio in se, il metodo che esso suggerisce, oppure se ne sia stata sbagliata l’applicazione; e se quindi quel principio e quel metodo siano ancora validi, e meritino perciò d’essere riproposti e, dove possibile, praticati.

Esporrò con una certa ampiezza le intenzioni dell’articolazione della pianificazione in due componenti citando i successivi approfondimenti cui ho partecipato, poi esaminerò molto brevemente alcuni aspetti della sua applicazione. E avverto subito il lettore che queste note non hanno un carattere sistematico ed esprimono e illustrano il portato e le opinioni desunte da esperienze personali. Sarebbe a mio parere estremamente utile se in qualche sede si svolgesse una ricerca seria, oggettiva, raccogliendo, raccontando e confrontando riflessioni ed esperienze dei numerosi urbanisti che sulla stessa linea si sono mossi, negli ultimi decenni. Così come sarebbe estremamente utile se le regioni che hanno avviato, ormai da molti anni, l’esperienza dell’articolazione del piano in più componenti promuovessero un serio bilancio critico dell’applicazione delle loro leggi urbanistiche.

LE INTENZIONI E LE PRIME ESPERIENZE

Due esigenze

Cominciammo a ragionare (con Edgarda Feletti e Luigi Scano) sull’articolazione della pianificazione (anzi, allora del “piano”) quando nel 1981 avviammo la redazione di un nuovo PRG per la città storica di Venezia. Proseguimmo il ragionamento,e la sperimentazione, soprattutto con Luigi Scano, in numerose occasioni successive, sia nell’attività culturale e professionale e in quella politica e legislativa, sia nell’ambito dell’INU (di cui sono stato il presidente dal 1983 al 1990). Ciò che inizialmente volevamo risolvere era la contraddizione tra due esigenze, che minava l’efficacia della pianificazione tradizionale.

Da una parte, il fatto che la definizione delle scelte territoriali richiedeva, soprattutto nella fase di prima impostazione, un lavoro di analisi della struttura fisica e di quella sociale del territorio di notevole impegno e durata, e che le scelte strategiche sulle prospettive della città richiedevano – una volta definite – la loro permanenza per un tempo lungo trattandosi di decisioni che richiedevano operazioni complesse e lunghe per essere tradotte in concrete trasformazioni della realtà. Del resto, le scelte derivanti da quelle analisi consistevano soprattutto nelle tutele degli elementi di qualità del territorio e nella definizione della strategia che si configurava per quel determinato territorio(città o ambito d’area vista che fosse. In entrambi i casi, scelte che dovevano avere una certa fermezza e costanza nel tempo, quindi dovevano dettare regole di carattere permanente, o almeno di lungo periodo.

Dall’altro lato, la necessità di poter modificare nel tempo scelte legate ad eventi non prevedibili, o di per sé tali da mutare in tempi medio-brevi: le caratteristiche della popolazione, le trasformazioni nell’assetto delle convenienze sociali ed economiche di utilizzazione degli spazi, i differenti orientamenti politici (e i differenti interessi sociali) prevalenti nelle istituzioni elettive. Si trattava di scelta che non era ragionevole ancorare a tempi indefiniti né lunghi, come non era ragionevole prescrivere procedure complesse per modificarle: purché, ovviamente, fossero coerenti e conformi alle decisioni strutturali e strategiche preliminarmente definite.

Il conflitto tra queste due esigenze diveniva più marcato negli anni in cui le trasformazioni sociali ed economiche subivano vistose accelerazioni, e la pianificazione tradizionale sembrava incapace di assicurare la flessibilità necessaria alle decisioni sul territorio. La pianificazione appariva dominata dalla rigidezza, dalla difficoltà di seguire in tempi ragionevoli il modificarsi delle esigenze e delle opportunità. L’unica risposta era quella di estendere all’inverosimile pa pratica delle varianti al piano parziali, episodiche, discrezionali: una risposta che, inseguendo la flessibilità e tentando di soddisfarla, provocava la perdita di ogni coerenza al sistema territoriale.

Per soddisfare entrambe le esigenze cominciammo a ragionare sulla possibilità di articolare le scelte della pianificazione in due componenti: l’una, contenente le scelte strutturali (in riferimento particolare alla struttura fisica del territorio, urbano ed extraurbano) e quelle strategiche (non fruttuosamente modificabili nel breve periodo); l’altra contenente le scelte, coerenti e compatibili con quelle strutturali e strategiche, concernente le trasformazioni da programmare e operare nel breve periodo, che si convenne coincidere con il mandato amministrativo.

Il piano del centro storico di Venezia

Il primo tentativo al quale partecipai fu in occasione della redazione del nuovo PRG per la città storica di Venezia, avviato nel 1981[2]. L’analisi tipologica strutturale delle unità edilizia (e delle altre unità di spazio) della città storica ci aveva condotto a individuare e definire, per ciascun tipo edilizio, due elementi: le trasformazioni fisiche consentite (che andavano generalmente nella direzione del ripristino degli elementi della tipologia storica originaria) e la gamma (generalmente molto larga) delle utilizzazioni compatibili con quel tipo: cioè tali da non stravolgerne l’assetto fisico e funzionale. Inoltre il piano perimetrava le parti della città in cui si potevano e dovevano effettuare operazioni più consistenti, fino alla ristrutturazione urbanistica; per questa parti il piano stabiliva le caratteristiche fisica e funzionali da rispettare nella formazione dei piani urbanistici attuativi.

Questa scelte dovevano avere carattere di permanenza nel tempo. In occasione di ogni mandato amministrativo si doveva invece decidere che cosa concretamente rendere esecutivo nel periodo successivo: quali destinazioni d’uso erano ammesse nelle diverse tipologie strutturali, naturalmente nella gamma di quelle compatibili; quali specifiche trasformazioni rendere obbligatorie nel periodo considerato; quali piani attuativi formare.

Ogni quinquennio insomma, tenendo conto delle condizioni sociali, delle possibilità economiche, degli indirizzi politici, delle disponibilità degli operatori, il Consiglio comunale (mentre verifica e aggiorna, ove necessario, la parte "fissa" del piano), rielabora integralmente la parte "programmatica" del piano: stabilisce di nuovo quali sono, nell'ambito della gamma ampia di utilizzazioni compatibili con i vari tipi edilizi, le destinazioni d'uso che devono, o possono essere attivate nel periodo successivo. E stabilisce anche quali sono gli ambiti per i quali si procederà alla formazione dei piani particolareggiati, e approva quelli nel frattempo redatti.

Lungo periodo e breve periodo

Esposi un primo tentativo di generalizzare l’esperienza di Venezia a un convegno organizzato dalla Provincia di Bologna nel 1984, al quale mi invitò l’amico Giorgio Trebbi.

Nella mia relazione, proponendo i requisiti di una nuova pianificazione, sostenevo che il piano “deve contenere indicazioni valide per il lungo periodo (poiché le caratteristiche della risorsa territorio sono sostanzialmente invariabili nel tempo, se si prescinde dalle trasformazioni operate dal piano), ma deve anche, e precisamente e tassativamente, indicare quali sono le trasformazioni operabili - prescritte - nel breve periodo: nel periodo per il quale le previsioni sono certamente attendibili, la volontà politica è certamente costante, le risorse sono certamente disponibili”. Sostenevo di conseguenza che il piano “deve costituire un quadro di coerenza sia per il lungo periodo (a causa della relativa invariabilità temporale della risorsa territorio, e l'ampiezza dell'arco di tempo necessario ad eseguire le opere di trasformazione di più ingente consistenza), che per il breve periodo: per il periodo cioè nel quale in modo più certo esplica la propria efficacia”, e che esso deve, di conseguenza, “essere contemporaneamente aggiornabile nella sua parte invariabile, o di lungo periodo, e programmabile nella attuazione delle trasformazioni di breve periodo: deve essere un quadro di coerenza dinamico, il quale abbia la capacità di adattarsi alle modificazioni da esso stesso impresse (e di seguire i mutamenti della domanda sociale e delle risorse disponibili) conservando costantemente la sua coerenza complessiva”[3].

Dal piano alla pianificazione;

il ruolo delle strutture pubbliche della pianificazione

L’articolazione del piano in due componenti era fin d’allora parte di una convinzione che riguardava l’intero ambito della pianificazione territoriale e urbana: quella che, in un saggio per La Rivista Trimestrale di Franco Rodano e Claudio Napoleoni, definii come il passaggio dell’urbanistica dal piano alla pianificazione[4].

In quella sede, anche in riferimento alla polemica allora in corso tra i sostenitori del “piano” e quelli del “progetto”, sostenevo che era ormai insufficiente “l'immagine di uno strumento, costruito come la definizione del desiderabile assetto di una determinata parte del territorio, concluso e statico”, uno strumento “che, una volta delineato, verrà poi successivamente attuato mediante una separata attività di gestione e, nei casi migliori, di programmazione dei modi nei quali sviluppare nel tempo la sua attuazione.

Occorreva spostare “l'accento dallo strumento del ‘piano’ all'attività di ‘pianificazione’ significa non concepire e praticare più l'uso dei tre momenti tradizionali del ‘piano’ (ossia del disegno dell'assetto desiderato), del ‘programma’ (ossia della scelta, all'interno dell'universo delle opportunità definite del ‘piano’, di quelle da realizzare in una fase determinata), e della ’gestione’ (ossia dell'attuazione concreta, attraverso ‘progetti’ esecutivi, degli interventi previsti dal ‘programma’) come tre operazioni separate e successive, ma concepire invece, e praticare, i tre momenti suddetti come momenti logici di un'attività (la ‘pianificazione’, appunto) che si svolge con una stretta e continua interazione tra l'uno e l'altro momento”.

Una condizione essenziale perché si potesse compiere il passaggio “dal piano alla pianificazione” e perché quest’ultima potesse essere organizzata in modo nuovo (in particolare procedendo con continuità in un’attività sistematica di programmazione, esecuzione, monitoraggio delle scelte operative conseguenti dalle condizioni e dalle strategia dettate dalla componente strutturale della pianificazione, era costituita dalla presenza di adeguate strutture pubbliche specificamente adibite all’attività di pianificazione.

Lo avevamo già avvertito nell’esperienza veneziana, come sottolineavo nell’illustrazione del piano del centro storico, dove sottolineavo che l’impostazione proposta richiedeva, “per il suo pieno esplicarsi - una condizione irrinunciabile: una struttura di pianificazione e gestione comunale solida, efficiente, autorevole, e dotata degli attrezzi necessari per operare con continuità, sistematicità ed efficacia”.

Lo ribadivo nel saggio de La Rivista Trimestrale, dove ricordavo che “é da decenni che la migliore cultura urbanistica sostiene che la possibilità di esercitare un effettivo ed efficace governo del territorio ha il suo passaggio obbligato nella formazione di strutture pubbliche di pianificazione” e osservavo che “questo problema, mai risolto in modo compiuto, è oggi più urgente che mai proprio per le novità che sono intervenute”.

L’esperienza dell’INU prima della “svolta”

Ero presidente dell’INU quando (1988-89) avviammo la preparazione del XIX congresso nazionale. Proposi di lavorare per un congresso a tesi, al fine di consentire alle varie posizioni che venivano a manifestarsi nell’ampio gruppo dirigente dell’Istituto di esprimersi nel modo esplicito. La discussione fu ampia e, a mio parere, proficua. Non si riuscì, se non parzialmente, a giungere all’esplicitazione chiara di ipotesi alternative su cui votare all’Assemblea dei soci, coinvolgendo tutta la base associativa in una discussione che mi sembrava fondamentale. Si approdò invece a un documento unitario, approvato a maggioranza[5].

Al congresso, che si svolse a Milano dal 27 al 29 settembre 1990, presentai nella loro formulazione originaria le proposizioni che avevo avanzato nel corso dei lavori preparatori. Si trattava di due gruppi di tesi, che riguardavano argomenti nodali: l’efficacia del sistema di pianificazione e il rapporto tra pubblico e privato. Su quest’ultimo punto rendevo esplicita e argomentata con episodi concreti la critica alla “urbanistica contrattata”, che poi emerse con forza negli anni successivi con l’inchiesta giudiziaria “mani pulite e lo svelamento di Tangentopoli[6]. Ma la maggioranza dell’INU preferì glissare.

Sul primo argomento (l’efficacia del sistema di pianificazione) proponevo sostanzialmente un metodo basato sulla concezione della pianificazione come attività continua e sistematica, la preliminare considerazione dell’analisi delle risorse territoriali e della definizione delle invarianti strutturali e delle “regole della trasformabilità”, l’articolazione del piano in due componenti.

Proponevo in particolare “di porre la lettura delle qualità del territorio e la definizione delle regole della trasformabilità alla base dei processi di pianificazione non solo in tutta la pianificazione regionale ma anche nella pianificazione territoriale e urbanistica ai livelli provinciale o metropolitano e comunale”. E proponevo di definire successivamente “quali sono, all'interno della gamma delle trasformazioni teoricamente possibili per una corretta utilizzazione del territorio, lo operazioni che è concretamente possibile operare in un determinato e prevedibile arco di tempo, in relazione alla domanda socialmente prioritaria e alle risorse impiegabili per le trasformazioni necessarie per soddisfarla”[7].

Le mie proposte non vennero accolte.

La proposte dell’associazione culturale Polis

Il Congresso di Milano dell’INU aveva comportato la sconfitta della posizione culturale che esprimevo. Non ne fui più il presidente, né partecipai al gruppo direttivo e, successivamente, diedi le dimissioni dall’Istituto[8]. Con un gruppo di amici costituimmo un’associazione, che doveva consentirci di proseguire l’elaborazione che avevamo avviato nell’INU. Dopo una serie di seminari e di convegni approdammo, soprattutto grazie al lavoro di Luigi Scano, a definire una proposta legislativa compiuta. Essa fu presentata a un convegno nazionale, organizzato a Venezia dal PDS e dalla Sinistra europea, dedicato a una riflessione in occasione al cinquantesimo anniversario della legge urbanistica del 1942[9].

Per quanto riguarda le caratteristiche della pianificazione, nella posizione di Polis si sottolineava in primo luogo la necessità di provvedere, “ad ogni livello, a determinare, in via preliminare, le disposizioni finalizzate alla tutela sia dell'"integrità fisica" che dell'"identità culturale" del territorio interessato, da porre come "condizioni" (da intendersi sia come "limiti", sia come "prerequisiti") ad ogni possibile scelta di trasformazione (fisica e/o funzionale) del medesimo territorio”. Era, questo, un assunto che derivava anche dalla riflessione sulla legge 431/1995 (Legge Galasso) e dall’esperienza di formazione, ai sensi di quella legge, del piano paesaggistico regionale dell’Emilia-Romagna. Questo piano era stato considerato dai suoi protagonisti come la prima fase di un processo di pianificazione, che avrebbe dovuto completarsi con la formazione di un piano territoriale regionale[10].

La preliminare definizione delle regole di tutela non veniva considerato solo fine a se stesso, cioè come funzionale all’esigenza di difendere prima d’ogni altra scelta le qualità naturali e storiche del territorio, ma anche come necessaria premessa “per un'attività pianificatoria altamente, e correttamente, flessibile”. Una pianificazione, si sottolineava, “non soggetta a più o meno frequenti, e più o meno semplificate, ma comunque indiscriminate, variazioni delle scelte o delle disposizioni del piano, sulla base di ‘urgenze’ e di ‘nuove dinamiche’ troppo spesso insufficientemente valutate o neppure verificate nei loro effetti sull'assetto complessivo del territorio”, ma una pianificazione, “capace di assumere la gerarchia degli interessi e degli obiettivi che la comunità esprime e di dare tempestivamente, ma in costante riferimento ad essi, le risposte ai nuovi problemi via via insorgenti”.

Ecco che, sulla base di questa premessa, Polis riproponeva nella sua proposta di legge urbanistica l’articolazione della pianificazione, a tutti i livelli, in due componenti: “quella strutturale, rivolta al perseguimento dei principali obiettivi ambientali, culturali e socio-economici, e comprendente la definizione delle condizioni alle trasformazioni e delle trasformazioni strategiche, che costituisce la parte più solida, più duratura, della pianificazione, e che, quindi, richiede procedure di formazione di maggiore garanzia istituzionale”, e quella “programmatica, rivolta alla precisazione, alla configurazione ed all'organizzazione specifica delle trasformazioni, che costituisce la parte flessibile, e più agilmente modificabile, della pianificazione, e che, quindi, deve disporre di procedure più semplici e tempestive”.

La proposta al XXI Congresso (Bologna, 1995)

Nel 1995 si tenne a Bologna il 21° congresso nazionale dell’INU. Inviai un contributo che fu inserito negli atti del congresso[11]. Ribadivo “la possibilità, l'opportunità e l'utilità di una trasformazione del tradizionale strumento di pianificazione (il PRG)” mediante la “articolazione degli elaborati. grafici e normativi del piano comunale (ma analogo criterio viene proposto per gli atti di pianificazione degli altri livelli) in due serie di componenti” la strutturale e la programmatica.

La prima ”rappresenta e disciplina le decisioni relative alla tutela ambientale e della riduzione dei rischi, e quindi definisce, per ciascuna unità di spazio, le condizioni che l'esigenza suddetta pone alle trasformazioni territoriali, e inoltre individua (rappresentandole e disciplinandole) le scelte relative a opere e interventi di carattere strategico, e cioè riferite al lungo periodo e governabili solo in una prospettiva lunga. Essa ha validità a tempo indeterminato, viene periodicamente verificata (e aggiornata solo se ciò si rivela necessario), e comporta un iter procedimentale più garantistico dell'altra componente.”

La seconda componente “definisce le destinazioni d'uso attivabili, nonché le trasformazioni fisiche operabili (le une e le altre, ovviamente, nell'ambito e nel rispetto delle condizioni definite dalla componente strutturale e in coerenza con la sua stralegia), […] “ha validità per un quadriennio, cioè per un periodo coincidente con il mandato amministrativo; alla fine di tale periodo essa decade, e deve essere sostituita da un nuovo analogo atto. L'iter procedimentale della componente programmatica si esaurisce nell'ambito dell'ente territoriale che l'ha adottata (comune, provincia o città metropolitana, regione)”.

La proposta trovò un’eco che giudicai limitata nella proposta finale avanzata dall’INU.

Riepilogando: i contenuti essenziali della proposta

Possiamo adesso riepilogare sinteticamente i contenuti essenziali del modello di pianificazione che, a partire dall’esperienza del piano per il centro storico di Venezia, si era venuto via via precisando.

L’articolazione della pianificazione in due componenti è ritenuta utile a tutti i livelli, sulla base del cosiddetto “principio di pianificazione”[12].

Il contenuto della componente strutturale è costituito da due elementi: le regole che garantiscono la tutela delle qualità naturali e storiche del territorio e la salvaguardia dai rischi, le strategie definite per quel determinato territorio, sia nel loro aspetto di “progetto” di lungo periodo che in quello di trasformazioni di vasto respiro strategie. Dato il suo contenuto, le sue scelte sono valide a tempo indeterminato e definite con “rigidezza”, con una condivisione interistituzionale (“interscalare”), necessaria perché esse coinvolgono interessi non disponibili esclusivamente per la comunità direttamente interessata, ma anche per quelle più e meno vaste..

Il contenuto della componente programmatica è costituito dalle decisioni che possono o devono essere operative nel breve periodo, ovviamente nell’ambito e nel rispetto delle regole e delle strategie definite dalla componente strutturale. Esse sono valide a tempo determinato, e costituiscono il luogo della flessibilità nel rispetto delle rigidezze definite dalla componente strutturale. La responsabilità si esaurisce nell’ambito del territorio di competenza dell’ente proponente, e quindi le procedure di formazione si concludono entro il livello proprio.

Un corollario che ne discende è il passaggio dall’approvazione alla verifica di conformità. Poiché ogni istituzione esprime la proprie scelte mediante un atto di pianificazione, invece dell’approvazione da parte dell’ente sovraordinato delle scelte del livello sottordinato, o di complesse procedure di co-pianificazione, il ruolo dell’ente sovraordinato si esaurisce nella definizione del proprio piano e nella verifica di conformità del piano sottordinato rispetto ad esso.

Due condizioni sono indispensabili perché un simile modello funzioni.

La pianificazione non deve consistere più nella formazione di piani, ciascuno caratterizzato da un inizio e una fine del suo percorso (della sua storia), ma si invera in un’attività sistematica e continua nel tempo, nella quale le varie fasi dell’analisi, delle scelte, del monitoraggio e della formulazione delle nuove scelte si susseguono ciclicamente. Un’attività della quale il quadro conoscitivo, sistematicamente aggiornato e condiviso con tutti gli attori direttamente e indirettamente coinvolti è la base indispensabile.

Ma perché questa condizione possa verificarsi è indispensabile che, a ciascun livello, operino strutture pubbliche tecniche dotate di tutte le competenze e le attrezzature necessarie per svolgere con efficacia le operazioni necessarie. Strutture la cui qualificazione sia tale da consentir loro di individuare i supporti di consulenza necessari nelle diverse fasi del processo e in relazione ai diversi contenuti specialistici necessari, sia in termini di conoscenze esperte che di progettazione di singoli aspetti o settori od oggetti.

Una terza condizione, sulla quale in questa sede non mi soffermerò ma che è anch’essa essenziale, è la volontà politica e culturale, da parte degli eletti, di adoperare effettivamente un metodo e un procedimento siffatto per decidere sulle trasformazioni territoriali, nel breve e nel lungo periodo.

LA PRATICA SUCCESSIVA,

NELLE LEGGI E NEI COMPORTAMENTI

Le leggi regionali

Si può dire che tutte le leggi regionali approvate a partire dal 1995 prevedono l’articolazione del piano secondo criteri analoghi a quelli che ho enunciato. Esse adottano, sia pure in maniera molto diversificata, la distinzione di due (o più) componenti, o parti, o disposizioni, nell’ambito degli atti di pianificazione generale, o, più ampiamente, di più piani con differenti denominazioni, contenuti, procedure.

Nelle proposte che avevo contribuito a definire l’articolazione riguardava la pianificazione a tutti i livelli. La quasi totalità delle leggi regionali l’applica invece solo al livello comunale. Esse attribuiscono alla pianificazione di livello comunale, e ai relativi documenti, un carattere complessivo e riassuntivo di tutte le scelte sull’assetto del territorio.

La Toscana (1995) articola la pianificazione comunale in “piano strutturale”, “regolamento urbanistico” e “programma integrato d’intervento”: il primo con un carattere di individuazione e classificazione delle risorse territoriali, il secondo con efficacia di attribuzione di prescrizioni (e valori) agli immobili, il terzo con funzione programmatica e operativa.

L’Umbria (1995) articola il piano comunale in una “parte strutturale, che individua le specifiche vocazioni territoriali a livello di pianificazione generale in conformità con gli obbiettivi ed indirizzi urbanistici regionali e di pianificazione territoriale provinciale”, e una “parte operativa, che individua e disciplina le previsioni urbanistiche nelle modalità, forme e limiti stabiliti nella parte strutturale”. La Liguria (1997) articola il “piano urbanistico comunale” in “descrizione fondativa”, “documento degli obiettivi”, “struttura del piano”, “norme di conformità e di congruenza”. Il Lazio (1999) articola il “piano urbanistico comunale” in “disposizioni strutturali” e “disposizioni programmatiche”. La Basilicata (1999) e l’Emilia Romagna (2000) articolano analogamente, alla legge toscana, la pianificazione comunale in “piano strutturale comunale”, “piano operativo” e “regolamento urbanistico”. La Calabria (2002) prevede un “piano strutturale comunale”, peraltro ricco di articolati contenuti precettivi, un “regolamento urbanistico ed edilizio”, che contamina contenuti propriamente “urbanistici” con quelli tipici del più tradizionale regolamento edilizio, e un “piano operativo temporale”, con forte valenza di programmazione temporalizzata degli interventi, arricchita di alcuni elementi di specificazione della disciplina urbanistica.

Come si vede, alcune regioni prevedono più piani, tra loro connessi ma reciprocamente autonomi, per le componenti strategico-strutturali e per quelle più direttamente operative; altri invece articolano in più componenti un’unica figura pianificatoria generale.

Alcune leggi regionali attribuiscono l’articolazione della pianificazione in più parti o componenti anche ai livelli sovraordinati. Così la Liguria prevede a ciascuno dei tre livelli un documento di analisi fondativa (“quadro descrittivo” a livello regionale, “descrizione fondativa” a livello provinciale e comunale), una trascrizione precettiva di tale analisi (“quadro strutturale” e “struttura del piano”). Il Lazio prevede la distinzione tra “disposizioni strutturali” e “disposizioni programmatiche” anche a livello regionale e provinciale. In particolare, la legge laziale stabilisce che “la pianificazione territoriale ed urbanistica generale si articola in: previsioni strutturali, con validità a tempo indeterminato, relative alla tutela dell’integrità fisica e dell’identità culturale del territorio regionale, alla definizione delle linee fondamentali e preesistenti di organizzazione del territorio ed alla indicazione delle trasformazioni strategiche comportanti effetti di lunga durata; previsioni programmatiche, riferite ad archi temporali determinati, dirette alla definizione specifica delle azioni e delle trasformazioni fisiche e funzionali da realizzare e costituenti riferimento per la programmazione della spesa pubblica nei bilanci annuali e pluriennali”.

In sostanza, l’impostazione delle legislazioni regionali rimane fedele ad alcuni dei criteri emersi dalle elaborazioni culturali degli anni precedenti. In particolare, per la parte strutturale della pianificazione comunale sono sempre presenti tre elementi: la preliminare individuazione degli elementi del territorio che ne condizionano l’integrità e ne connotano l’identità; la definizione delle regole che ne assicurino la corretta utilizzazione anche per i posteri; l’individuazione delle direttrici strategiche dell’azione di trasformazione.

A causa di questa sua natura, il piano strutturale parte generalmente da una descrizione, la assume come fondativa delle scelte di lungo periodo (lo “statuto dei luoghi”), la traduce in regole di lunga durata (di carattere “statutario”).

L’attuazione

Non mi risulta che sia stata compiuta una seria analisi comparativa delle esperienze di applicazione dell’articolazione del piano in più componenti. Sarebbe a mio parere un lavoro estremamente utile. Un’analisi che parta da una chiara enunciazione degli obiettivi che si volevano raggiungere, dalle intenzioni che li sorreggevano, che esponga il modo in cui i precetti sono stati applicati nelle diverse situazioni (o almeno in un certo numero di casi oculatamente scelti come rappresentativi), che misuri la distanza tra gli obiettivi e i risultati, che formuli alcune ipotesi sullo scarto maggiore o minore tra gli uni e gli altri. Ma non sembra facile, ai nostri tempi e nel nostro paese, fondare l’attività legislativa su un’analisi rigorosa dell’attuazione delle leggi che si vogliono cambiare, e di cui semplicemente di vuole verificare l’adeguatezza.

Mi limiterò quindi, per ora, a formulare alcune osservazioni sulla base delle conoscenze più ravvicinate di cui dispongo.

Credo di poter innanzitutto sostenere che gia nelle leggi regionali, e ancor di più nella loro attuazione, si siano trascurati due aspetti della questione che a me sembrano essenziali.

In primo luogo, non si è applicato quello che ho definito il “principio di pianificazione”. Stato, regioni, province non hanno espresso le loro scelte territoriali sulla base di metodi e procedimenti di pianificazione, ossia traducendo in quadri coerenti e olistici, trasparentemente formati, l’insieme delle loro decisioni, ma hanno proceduto per singoli programmi, settori, opere, politiche, spesso occasionati dall’emergenza o da motivazioni di prestigio e d’immagine, o meramente di potere.

In secondo luogo, si è completamente trascurato il fatto che il nuovo modello avrebbe richiesto un poderoso rafforzamento delle strutture pubbliche adibite alla pianificazione. L’aggiornamento della base conoscitiva e la sua alimentazione con i risultati del monitoraggio sui piani e sulle trasformazioni da essi indotte, l’aggiornamento della componente strutturale e la sistematica riformulazione della componente operativa, il prolungamento dell’azione di pianificazione territoriale e urbanistica nelle attività esecutive (edificazioni private, interventi pubblici di infrastrutturazione e urbanizzazione, definizione di politiche aventi ricadute sul territorio), azione di stimolo nei confronti della partecipazione dei cittadini alle scelte: tutto ciò avrebbe richiesto la presenza di strutture abitate da tecnici qualificati e motivati, dotate di attrezzature efficaci, formalizzate in un’organizzazione autorevole e qualificata.

Un’esperienza diretta

Ho dedicato tutta la prima parte di queste note all’esposizione di proposte maturate nell’esperienza personale. Concluderò questo appunto con alcune considerazioni riferite anch’esse all’esperienza personale: in particolare, alla sperimentazione di una delle migliori leggi in materia, la 5/1995 toscana, nella collaborazione alla formazione degli strumenti urbanistici nuovi (piano strutturale e regolamento urbanistico) del comune di Sesto Fiorentino. Un comune di circa 60mila abitanti, nel quale si sono succedute amministrazioni capaci di condurre politiche urbanistiche lungimiranti.

La premessa politica del nostro lavoro è stata ottima. L’amministrazione ci ha fornito direttive che abbiamo completamente condivise: porre termine all’espansione, salvaguardare il territorio inedificato, garantire le visuali libere e promuovere le connessioni ambientali e di percorrenza tra i due complessi paesaggistici più rilevanti, il Monte Morello e la piana dell’Arno, coordinare le scelte con i comuni limitrofi, accrescere il livello della vivibilità della cittadina, rispettare l’individualità dei singoli paesi che la componevano ma consolidare l’unitarietà del Comune.

Anche sul piano normativo la nostra interpretazione della legge regionale, che gli uffici regionali hanno formalmente dichiarato di condividere, ci ha consentito di utilizzare i diversi nuovi istituti prescritti dalla legge (lo statuto dei luoghi, le invarianti strutturali, i sistemi e sub-sistemi territoriali, le unità territoriali organiche elementari) in modo coerente con il contenuto delle componenti della pianificazione (quella strutturale e quella operativa) che era la nostra.

Su alcuni punti rilevanti delle scelte abbiamo trovato soluzioni a mio parere convincenti, che però sono state frutto di una interpretazione della legge, alla quale numerose altre potevano contrapporsi (e si sono infatti contrapposte). Mi riferisco al rapporto tra dimensionamento di lungo periodo, richiesto dalla legge per il piano strutturale (ma ha senso un dimensionamento di lungo periodo?), e la sua articolazione in una serie di piani operativi. Mi riferisco al rapporto tra aspetti strutturali del piano e aspetti strategici, tra sistema delle tutele e progetto di città. Mi riferisco ancora al rapporto tra la rigidità delle scelte strutturali e strategiche e la flessibilità delle scelte operative: un rapporto difficile, che spinge i comuni a interpretare il piano strutturale o come un documento vago, generico e privo di regole, oppure, al contrario, come un vecchio piano regolatore generale.

C’è poi un paio di problemi per i quali neanche interpretando creativamente la legge abbiamo potuto raggiungere soluzioni soddisfacenti: il livello d’area vasta, i tempi della pianificazione.

In assenza di una pianificazione regionale e provinciale che definisca le scelte territoriali di più vasta portata è particolarmente incerto il rapporto con l’area vasta. Molte delle scelte comunali riguardano aspetti (ambientali, paesaggistici, infrastrutturali) che hanno rilevanza sovracomunale, e che solo operando a questo livello possono essere affrontati seriamente. Ma in Toscana (e, credo, anche altrove) la dimensione d’rea vasta è del tutto trascurata. La regione trascura generalmente la dimensione provinciale della pianificazione (e, in generale, del governo del territorio) e “risolve” i problemi con rapporti bilaterali regione-comune. La provincia continua a essere considerata un ente settoriale, di rango inferiore, e le forme associative volontarie di comuni non hanno preso piede. È probabile che questo limite sia particolare evidente in Toscana, dove l’attuale gruppo dirigente della regione teorizza, oltre a praticare, la centralità del momento comunale risolve la maggior parte dei problemi con il rapporto diretto tra Regione e singolo comune[13]: ciò che indubbiamente accresce il peso delle decisioni regionali e aumenta il suo potere discrezionale.

In Toscana, ma anche in altre regioni, il problema principale è tuttavia rappresentato dalla lentezza con cui si rinnova la pianificazione e dall’inerzia delle decisioni. A Sesto Fiorentino, uno dei primi comuni nei quali si è adoperato l’incerto modello della legge 5/1995, il vecchio PRG è morto nel 2006, cioè 11 anni dopo l’inizio dell’applicazione di quella legge. Nella provincia di Firenze molti comuni hanno approvato il piano strutturale ma non il piano operativo, il Regolamento urbanistico.Clamoroso è il caso di Firenze, che dopo tredici anni dal suo avvio anni non ha concluso l’iter formativo del piano strutturale. Nella più rosea delle ipotesi saranno necessari altri due anni per “superare” il veccguo PRG: cioè saranno trascorsi quindici anni dalla legge.

Nel frattempo i vecchi PRG e le loro scelte obsolete (generalmente caratterizzate dal sovradimensionamento) pesano. A Firenze oggi si realizza una tramvia pensata 20 anni fa; la progettazione dell’attraversamento del treno ad alta velocità è iniziato negli anni Novanta; l’università a Sesto Fiorentino è attuativa di in un brandello del Piano intercomunale, progettato da Detti negli anni Sessanta, del quale si sono realizzati alcuni tasselli casuali che oggi appaiono del tutto privi di logica urbanistica; il famoso intervento sull’area Fiat-Fondiaria, contestato un quarto di secolo fa, sta per essere completato oggi (e non parliamo del come). In base alla legge (o meglio, alla sua interpretazione corrente) le previsioni obsolete o semplicemente vecchie non decadono: nulla di ciò che è stato promesso può essere messo in discussione, e tutto si somma in maniera casuale.

Se almeno il tempo trascorso fosse stato impiegato per costruire strumenti e strutture di pianificazione efficaci, competenti, attrezzati, autorevoli, se almeno si fosse instaurata una prassi ci collaborazione tra le strutture tecniche dei diversi livelli di governo i cui interessi e le cui azioni si intersecano sugli stessi territori, se fosse maturata una cultura (tecnica, politica, amministrativa) condivisa e capace di durare nel tempo, il tempo impiegato nella prima fase di attuazione del nuovo modello di pianificazione avrebbe potuto dare frutti negli anni a venire. Così – almeno per quanto mi è dato conoscere – non è stato. Spero che altri contributi su questo tema possano consentire di affermare che non dappertutto è così.

Il “Notiziario dell’archivio Osvaldo Piacentin”i è scaricabile qui

[1] Nelle diverse fasi della riflessione e della sperimentazione concorsero alla messa a punto in primo luogo, e decisivamente Luigi Scano, poi Edgarda Feletti, Vezio De Lucia, Giulio Tamburini, Alessandro Dal Piaz, Mauro Baioni, Paolo Berdini.

[2]Mi riferisco alla variante di PRG per la città antica, la cui costruzione fu impostata e iniziato nel 1982, (ero assessore all’urbanistica), interrotto nel 1985, ripreso nel 1987, concluso e reso pubblico nel 1990, e adottato nel 1992 Ho seguito il piano come diretto responsabile nella prima fase, poi come collaboratore esterno negli anni in cui, assessori Boato prima e Salvagno poi, gli uffici diretti da Edgarda Feletti, con la costante collaborazione di Scano, lo conclusero e portarono all’adozione. La Giunta eletta nel 1993 (sindaco Massimo Cacciari), vittima della ventata di neoliberismo che in quegli anni soffiava impetuoso, iniziò subito smantellare quel piano. Esso fu ampiamente rimaneggiato dall’assessore Roberto D’Agostino e dal consulente Leonardo Benevolo, soprattutto nella normativa e, reso ormai irriconoscibile, adottato nel 1996.

[3] “Livelli di pianificazione e livelli di governo: Le tendenze che devono affermarsi per la costruzione di un processo unitario di pianificazione”. Provincia di Bologna, Luoghi e logos - Il territorio fra sistemi di decisione e tecnologie della conoscenza, convegno nazionale, Bologna, 27-28 nov. 1984. Il mio contributo fu inserito nel terzo volume dei materiali preparatori.

[4] “L’urbanistica dal piano alla pianificazione”, La Rivista Trimestrale, n. 4, dicembre 1985

[5] Le tesi sono pubblicate in un supplemento allegato al n. 108, novembre-dicembre 1989, della rivista Urbanistica informazioni.

[6] Si veda P. Della Seta, E. Salzano, L’Italia a sacco. Come negli incredibili anni ’80, nacque e si diffuse Tangentopoli, Editori Riuniti, Roma, 1993.

[7] Le tesi alternative sono pubblicate in eddyburg.it, al seguente indirizzo:

[8] Le ragioni sono espresse nell’editoriale di “Commiato” che pubblicai nell’ultimo numero di Urbanistica informazioni che uscì sotto la mia direzione (n. 125-126, settembre-dicembre 1992)

[9] Gli atti furono pubblicati in Cinquant'anni dalla legge urbanistica italiana 1942-92, a cura di E. Salzano, Editori Riuniti, Roma, 1993

[10] Il Piano paesaggistico regionale dell’Emilia-Romagna fu adottao il 29 dicembre 1986, e approvato

[11]“Nota sulle proposte di riforma urbanistica dell'INU -1995”, in: XXI Congresso Inu, Bologna 23-25 novembre 1995, Atti, Volume secondo - I contributi al congresso.

[12] Principio di pianificazione

[13] Ma non accade così anchein E-R?

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