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Curzio Maltese
Piano: "Il mio grattacielo? Ecco perché fa paura"
18 Febbraio 2008
Articoli del 2006-2007
Difesa a tutto campo di un progetto discusso. Fumus persecutionis, qualche imprecisione, molta distorsione e una postilla. Da la Repubblica, 14 novembre 2007 (m.p.g.)

Il coraggio di cambiare ha reso nei secoli le città italiane le più belle del mondo. La paura del futuro rischia ora di ucciderle, di ridurle a musei invivibili e avvelenati dal traffico. A lanciare l’allarme non è soltanto Renzo Piano, ma i fatti. Le capitali del pianeta, Londra e New York, Parigi e Barcellona, Berlino, Praga e Sydney, si lanciano nell´inaugurazione di grandi opere nei centri urbani. In Italia la contemporaneità suscita immediato sospetto e aperta ribellione. E’ probabilmente, come sostiene Piano, la paura del futuro tipica di una società vecchia come la nostra. In qualche caso il sospetto non sarà infondato. Ma da qui a «non poter spostare una panchina nei centri storici senza provocare la nascita di venti comitati», come dice il presidente dell´associazione dei comuni Lorenzo Domenici, ne corre.

Oltre le ragioni concrete e specifiche, si coglie una paura soltanto nostra. I verdi italiani salgono sulle barricate contro le nuove linee ferroviarie, benedette invece dagli ambientalisti tedeschi, francesi, spagnoli. A Bordeaux e a Nantes si festeggia in piazza il ripristino delle tramvie, considerate a Firenze e a Perugia uno «sfregio ambientale».

Il dato più paradossale è che a scatenare le proteste non sono quasi mai le grandi speculazioni in periferia, l’anonima colata di cemento che ha ripreso a inghiottire pezzi interi di Paese. Ma piuttosto il progetto di qualità. Ravello insorge alla notizia dell’auditorium progettato dal centenario Oscar Niemayer, un mito del Novecento. Firenze s’interroga da anni sulla pensilina degli Uffizi del grande Isozaki, definita un «orrore» da Vittorio Sgarbi, nientemeno. Mentre naturalmente nella periferia, da Novoli in poi, l’intramontabile Salvatore Ligresti progetta vagonate di metri cubi nel silenzio quasi generale.

La guerra alla torre della banca Intesa-Sanpaolo, disegnata da Renzo Piano, muove da una cartolina-manifesto. All’immagine più nota di Torino, dominata dalla Mole, viene affiancata la sagoma bruna di un grattacielo alto come una delle Torri Gemelle. Il fotomontaggio è un falso, secondo l´architetto, che ha esibito subito il progetto vero, dove la torre risulta trasparente, alta la metà e lontana due chilometri e mezzo dalla Mole. Ma intanto, che senso ha fermare il futuro nel segno di una cartolina? Lo chiediamo a Renzo Piano, rintracciato a New York alla vigilia dell’inaugurazione della nuova sede del New York Times, il primo grattacielo della città dopo l’11 settembre.

«Ho l’impressione sempre più spesso, quando torno in Italia, che siamo diventati un paese prigioniero delle paure. E la prima è quella del futuro. Declinata in varie forme. Fanno paura la società multietnica, i cambiamenti sociali, le scoperte scientifiche, sempre rappresentate come pericoli, la contemporaneità in generale. Si fa strada, perfino fra i giovani, la nostalgia di un passato molto idealizzato. Si combina una memoria corta e una speranza breve, e il risultato è l´immobilità. Il passato sarà un buon rifugio, ma il futuro è l’unico posto dove possiamo andare».

Nel comitato torinese colpisce però la presenza di nomi illustri e certo non conservatori, come l’ex sindaco Diego Novelli, il primo a disegnare la città post industriale, ai tempi del Lingotto.

«Per una volta Novelli è stato mal informato. Ha scritto che la torre è alta sessanta metri più della Mole e costa un miliardo. In realtà supera la Mole di soli dieci metri e costa 248 milioni. Ma non è questo il punto. Stimo Novelli e non voglio sottovalutare il disagio che rappresenta. Al contrario, le critiche intelligenti sono preziose. Un palazzo non è un quadro o un romanzo, ma qualcosa destinato a condizionare la vita delle persone, lo vogliano o no. Più voci si ascoltano meglio è. Ma allora Novelli, che conosce Torino meglio di chiunque altro, mi aiuti a fare un progetto migliore per i torinesi. A chi e a che cosa serve una guerra ideologica dove il fatto concreto non conta, si può manipolare a piacimento in nome di una giusta causa?»

Si può anche vedere così, la Torino industriale rifiuta d’inchinarsi allo strapotere della finanza, delle banche, materializzato in un simbolo di dominio come un grattacielo.

«E’ un’altra critica motivata. Ma anche qui, non facciamoci condizionare dai simboli. Le torri sono per natura simboli di potere, d’accordo. Ma costruire in verticale ha dei vantaggi. Qui per esempio, il vantaggio è di poter creare un grande parco per i torinesi. Il San Paolo ha molto terreno, io potrei sdraiare la torre in orizzontale. E i verdi, per assurdo, sarebbero contenti di far sparire un parco».

Non è la prima volta che si trova a giocare il ruolo del mancato profeta in patria. Basta confrontare la stampa americana di questi giorni con le durissime polemiche italiane sul Lingotto di Torino, l’Acquario di Genova, l’Auditorium di Roma.

«Belli o brutti, non spetta a me dirlo, sono luoghi di socialità e di scambio che hanno preso il posto del nulla. Basta contare le presenze. Comincio a pensare che quello che non si perdona in Italia è l’essere contemporanei. Ed è triste per un paese che ha insegnato al mondo il coraggio in architettura».

Per secoli nelle città italiane ai contemporanei è stato permesso non soltanto di costruire ex novo e sovrapporre stili, ma di mettere mano ai monumenti-simbolo. Stern aveva vent’anni quando fu chiamato a "migliorare" il Colosseo, e dopo di lui venne Valadier. Leon Battista Alberti ha rimodellato e stravolto il tempio malatestiano di Rimini. Lo stesso Antonelli riuscì a completare la "follia" della Mole, all’epoca considerata dai torinesi una mostruosità.

«Tutto questo è molto chiaro all’estero. Mi chiamano perché sono italiano, vengo da questa storia. Il problema è che la nostra storia è più conosciuta a Sydney o a Londra. All’estero l’Italia è considerata ancora un laboratorio, noi ci vediamo come un museo. Si parla tanto di modernizzazione, ma è retorica. La modernità è soltanto la parodia del futuro. Siamo il paese dei veti incrociati. Prendiamo la politica. In tutte le democrazie un’opposizione che gioca al massacro e vive soltanto per demolire perde consensi, qui li moltiplica»

E’ una logica da curve ultras, per rimanere all’attualità di questi giorni, dove trionfa lo scontro frontale, lo sventolar di bandiere contrapposte?

«Ma sì, s’è perso il gusto della discussione. Una discussione vera che non consista, diceva Norberto Bobbio, nell’arte retorica di persuadere, di vincere sull’altro. E’ un regresso civile che ormai si vede nel corpo fisico del Paese. Le nostre città sono belle perché hanno mescolato sempre gli stili, sono state oggetto di continue trasformazioni, specchio di milioni di vite vissute. Ora rischiano di modellarsi sullo scontro per bande, dove alla fine trionfa soltanto la difesa dello status quo»

E’ ancora una volta il futuro il grande assente dalla scena?

«Il mio lavoro mi costringe a pensarci in continuazione. Perché se un architetto sbaglia un progetto oggi, glielo ricorderanno per tutta la vita».

Mentre nei media o in politica una cantonata si dimentica nel giro di qualche giorno.

«Sì, ma quando un’intera società assume tempi televisivi, sono guai seri. Più di tutto preoccupa questa difesa di un passato che peraltro non si conosce. Come se il futuro fosse soltanto gravido di minacce. E’ nella natura umana, certo. Penso alle ultime pagine del Grande Gatsby, all’immagine della vita come di una barca destinata a remare sempre contro la corrente e la voglia di lasciarsi portare indietro. Peccato che tornare indietro non si possa. Si può soltanto andare nel futuro. Prima o poi, presto o tardi. A volte, con molto sforzo, troppo tardi».

Postilla

L’articolo di Curzio Maltese è esemplare nel tentativo di connotare l’attuale dibattito sulle nostre città come riproposizione in chiave architettonica della querelle des anciens e des modernes, in cui, ovviamente, i modernes sono portatori di valori positivi e progressisti, mentre gli anciens, misoneisti attardati, fautori della paura e dello status quo.

Oltre ad essere diversificate al loro interno, le posizioni di chi si oppone a taluni interventi architettonici nelle nostre città non si appiattiscono certo in un acritico accanimento preconcetto contro tutto ciò che non odora di antico. Ma la nostra ottica, lo ribadiamo ancora una volta, è di sistema: quali sono le nostre città. Così l’introduzione di un elemento, peraltro spesso non insignificante dal punto di vista oggettivamente “quantitativo”, non è né indifferente né semplicemente collegato alle intrinseche qualità formali, che intrinseche non sono mai perché ogni testo si adatta e adatta il contesto (urbanistico e sociale) nel quale vive e dal quale è spesso destinato a subire “mutazioni” anche radicali (nell’uso, nell’impatto, nella funzionalità) e del tutto impreviste in fase progettuale. Questo non significa “non fare”, ma operare con consapevolezza e strumenti (non solo tecnici) non solo moderni, ma davvero innovativi, rispetto ad una generica, provincialissima e pertanto questa sì, attardata, pulsione verso l’icona architettonica come simbolo, esteriore e posticcio, di adeguamento al contemporaneo.

Non ci riguarda evidentemente, l’accusa di accanimento sulle singole costruzioni di archistars a scapito dell’attenzione a quanto succede nelle nostre periferie e nei territori periurbani o rurali. Basta uno sguardo anche superficiale a qualsiasi pagina di eddyburg per verificare che la sua azione di denuncia civile e politica è sistemica e sistematica sull’insieme delle speculazioni che da qualche anno a questa parte investono il nostro territorio: proprio perché ci rendiamo conto sempre più che la lottizzazione estensiva e i singoli interventi architettonici, possono avere lo stesso carattere di invasività e di distorsione della qualità urbana e sono quindi, nel loro complesso, manifestazioni di quella strategia di attacco al territorio che la sua rinnovata centralità dal punto di vista economico, ha scatenato. I rimandi che trovate in calce sono una esemplificazione ridottissima di una documentazione ormai amplissima e stratificata di casi proposti, diversificata per aree geografiche, per “tipologie” progettuali, per modalità di intervento.

A volte, a noi della redazione, prende una sorta di sconforto per non riuscire a dare conto di tutto ciò che accade e il senso dell’emergenza ci sovrasta quotidianamente. Se anche da giornalisti non ignari della complessità della partita politica e sociale in atto e architetti di grande livello culturale l’unica risposta è la riproposizione, con toni caricaturali e violentemente distorsivi, dell’intera panoplia dei luoghi comuni sui conservatori a prescindere, il gioco diventa davvero durissimo da giocare.

A chiosa finale del panorama di banalità esemplificative inanellato nel testo (da Ravello al tempio malatestiano) ricordiamo che l’Auditorium di Piano a Roma fu fortemente caldeggiato da uno dei più accaniti e polemici difensori dell’intangibilità dei nostri centri storici qual era Antonio Cederna. (m.p.g.)

Sui grattacieli di Torino e Milano, in eddyburg:

Ettore Boffano e Vittorio Gregotti,

Oreste Pivetta,

Eddyburg per carta, n.36 e n.39

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