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Giampaolo Calchi Novati
Dal potere alla terra, le radici occulte dello scontro etnico
3 Gennaio 2008
Articoli del 2008
Alcune delle cose che stanno dietro al dramma del Kenia. Il manifesto, 3 gennaio 2008

Poste in gioco In un sistema ispirato a prassi neo-patromoniali di accaparramento, vincere o perdere le elezioni può significare moltissimo in termini non solo di governo ma di arricchimento personale

Un tempo in Kenya non c'erano né urne né schede elettorali. Nei giorni comandati gli elettori si recavano ai seggi senza matita perché il voto non si esprimeva votando ma mettendosi in fila dietro alle insegne del proprio candidato. Il massimo di trasparenza con il minimo di libertà di scelta. Il sistema della «coda» (queuing nel linguaggio giornalistico in uso allora nel paese) fu impiegato per selezionare i candidati fra quelli proposti dal solo partito legale ancora vent'anni fa, nel 1988, e non mancarono le polemiche.

Tutte le elezioni successive, peraltro, anche quelle che si sono svolte dopo l'introduzione del multipartitismo, hanno originato controversie e faide, comprese quelle del dicembre 1997, l'ultima volta di Daniel arap Moi. Mwai Kibaki si era presentato come principale antagonista di Moi, già in disgrazia presso i suoi tradizionali sostenitori (gli organismi internazionali e i donatori occidentali stavano pensando a una successione che togliesse almeno le ragnatele), conquistando il 30 per cento dei voti. Le proteste di piazza provocarono una decina di morti. Niente a confronto della tragedia nazionale seguita alle elezioni del 27 dicembre scorso, che rischia di fare a pezzi anche un paese relativamente stabile, e dotato di una solida ragion di stato, come il Kenya.

In compenso, la prima vittoria di Kibaki, osannato nel 2002 e oggi vituperato e sotto accusa, fu un verdetto accettato senza discutere perché Kibaki si era smarcato dal regime in carica dopo essere stato al governo per due decenni e aveva acquisito rispetto, consensi e popolarità capeggiando l'opposizione nella fase conclusiva del più ventennale «regno» autoritario di Moi.

I due alleati divenuti rivali

È stata la logica dello scontro elettorale che ha via via aumentato il divario fra i due principali pretendenti alla corona nella fatale consultazione del 2007. Nel 2002, pur appartenendo a formazioni politiche diverse, Mwai Kikabi e Raila Odinga erano quasi alleati. Raila Odinga è figlio di Oginga Odinga, militante di grande spicco nella lotta per l'indipendenza e vice-presidente con Jomo Kenyatta alla presidenza nei primi anni dopo l'indipendenza, che si dissociò dal «padre della patria» quando il suo governo imboccò la deriva dell'iperconservazione e della corruzione istituzionalizzata.

Un tema di contrasto era la considerazione da dare ai Mau Mau nella memoria e nella prassi dello stato. Oginga Odinga si impossessò dei miti che Kenyatta riteneva di dover lasciar cadere per quieto vivere (sia verso i potentati interni che verso quelli esterni) e si trovò automaticamente collocato a sinistra. Così facendo assecondava, oltre alle sue ambizioni, le aspettative frustrate dei luo, il suo gruppo etnico, nei riguardi dell'egemonismo rapace dei kikuyu, l'etnia di Kenyatta ma anche dei capi e della base negli anni Cinquanta del movimento Mau Mau (ufficialmente «esercito per la libertà e la terra»).

L'evoluzione compiuta da Raila Odinga è molto simile a quella del padre. Anche il non più giovanissimo Raila, dovendosi distinguere dal moderatismo imperante, si è trovato a indossare i panni del paladino dei poveri. È facile però predicare contro i mali del liberismo estremo e la corruzione quando si parla dall'opposizione.

Tutti contro i kikuyu

In un sistema ispirato alle pratiche di accaparramento proprie del neo-patrimonialismo, vincere o perdere le elezioni può significare moltissimo in termini non solo di governo ma di arricchimento personale e al limite di sopravvivenza di un'intera sezione della società.

In caso di risultato equilibrato del voto, le irregolarità nello svolgimento delle elezioni o nello scrutinio - che sono fisiologiche in una situazione di arretratezza ma che possono essere patologiche quando il potere non è disposto ad accettare le regole della successione (come stando alle molte testimonianze è probabilmente avvenuto nel duello fra Mwai Kibaki e Raila Odinga) - sono sfruttate come ultima chance. La «rivolta» è un altro modo d'essere di una democrazia malata e violenta e difficilmente rende giustizia ai deboli.

Ci sono precedenti comunque di esiti elettorali sconfessati e persino rovesciati ex post in alcuni paesi africani e anche in Europa. Spesso la contestazione o la sanatoria dipende dai protettori rispettivi a livello internazionale. Le stesse procedure degli «osservatori», un misto di paternalismo e impotenza, finiscono, magari involontariamente, per esasperare gli animi.

Prima o poi i conflitti in Africa assumono un connotato etnico. Anche in Kenya la miccia etnica, sincera o pretestuosa poco importa, ha scatenato il caos, riproponendo il solito schema dei kikuyu contro i luo o di tutti contro i kikuyu. Nessuno naturalmente vuole restaurare l'ordine tribale, ma l'appartenenza a una comunità etnica è il movente più immediato di mobilitazione politica. A ben vedere, le poste sono le stesse di ogni confronto politico: l'esercizio del potere, l'accesso alle risorse e, tema importantissimo in questo caso, la terra.

Tutelare il turismo internazionale.

La terra sta divenendo in Kenya, come quasi ovunque in Africa, un bene scarso. Per di più, le vicende storiche legate prima all'insediamento degli inglesi e poi alle peripezie della decolonizzazione hanno alterato gli insediamenti tradizionali suscitando risentimenti contro gli intrusi. L'enfasi sull'etnicismo è un'ammissione di parzialità anche di chi pretenderebbe di difendere la giustizia offesa. Dopo tutto, in Africa - per le condizionalità del mercato o dell'aiuto (e in Kenya c'è anche la necessità di tutelare il turismo internazionale, massima risorsa del paese) - le decisioni sfuggono in gran parte alla politica locale.

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