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Alberto Magnaghi
Note a margine del dibattito su Castelfalfi
19 Gennaio 2008
Toscana
L’intervento di un “urbanista di parte” nella discussione sulla partecipazione a Castelfalfi. Inviato a eddyburg il 14 gennaio 2008

Sviluppo alcune riflessioni dopo la lettura della lettera di Morisi e delle risposte di Salzano e Baldeschi su Castelfalfi. Premetto che l’attività del garante della comunicazione (che non ho mai fatto) e quella dell’activist o attivatore di processi partecipativi (che ho sempre fatto, come “urbanista di parte” secondo la classica definizione di Pierluigi Crosta) sono due mestieri molto diversi, ma non necessariamente, se lo si vuole, in contraddizione fra loro.

Il garante deve garantire terzietà, condurre un processo partecipativo informando, dando la parola a tutti in modo equanime, “registrare e basta” come giustamente scrive Massimo Morisi e come correttamente ha fatto a Montaione esercitando il suo ruolo tecnico.

L’activist no, non è imparziale, assume volta a volta l’internità dell’osservatore al campo di osservazione e ne assume le passioni muovendosi nell’ambito della ricerca-azione, opera nel processo partecipativo esercitando un ruolo etico (che riguarda la felicità pubblica) per aiutare i soggetti deboli del processo a destrutturare i problemi come sono posti, a decolonizzare l’immaginario, a spostare in avanti la progettualità, l’autogoverno, a crescere come cittadinanza attiva e consapevole. Farò un esempio lontano nel tempo.

Quando con Giorgio Ferraresi e altri nel 1988, nella Milano “da bere”, fondammo l’associazione Ecopolis, Città di villaggi, il nostro lavoro consisteva nell’aiutare i più di cento comitati di cittadini a coordinarsi e a sviluppare, anche tecnicamente, i loro progetti quando questi erano in conflitto con quelli dell’amministrazione. Un giorno venne alla sede di Ecopolis un gruppo di abitanti del quartiere Adriano, una periferia di casermoni in prati incolti e degradati a nord-est di Milano, molto poco da bere. Ci chiesero di aiutarli a progettare una schermatura di alberi alla futura “Gronda Nord”, una superstrada urbana che avrebbe tagliato in due il loro quartiere. Le discussioni e le indagini sul quartiere furono lunghe e appassionate e portarono a conclusioni inaspettate.

Dopo qualche mese gli stessi abitanti cominciarono a ripulire una discarica abusiva, a trasformarla in un anfiteatro a gradonate per un teatro all’aperto; una vicina cascina abbandonata fu restaurata con l’aiuto di giovani volontari russi ospitati dagli abitanti, per farne il centro sociale del quartiere. Ciascuno portava i suoi saperi, i falegnami, i muratori, i meccanici, gli idraulici, i geometri, gli architetti e cosi via; affluivano per incanto materiali da costruzione, ruspe, arredi, piantumazioni. Si avviarono (con modesto successo, dato lo stato velenoso delle acque del Lambro) i progetti di orti urbani. In una serata memorabile con uno spettacolo di Paolo Rossi si inaugurò il nuovo spazio pubblico autocostruito del “villaggio” Adriano.

Il tracciato della Gronda Nord era stato nel frattempo radicalmente contestato dagli abitanti, coordinati con quelli degli altri quartieri interessati; essendo cresciuta la loro coscienza di luogo attraverso i percorsi partecipativi della cura quotidiana del quartiere, non si accontentavano più delle barriere antirumore, ma l’opera stessa era negata dal loro orizzonte, ampliatosi sulla ricostruzione della comunità locale e del suo luogo sociale di vita.

C’è dunque differenza fra garantire un processo di ascolto allargato alla popolazione, su un problema predefinito e contingente (la gronda nord, il progetto di insediamento turistico TUI) che definirei una specifica interpretazione del processo di governo dei conflitti verso un processo di governance; e far crescere processi di democrazia partecipativa in quanto forma ordinaria, non contingente di governo che comporta processi lunghi e difficili, ma costanti di maturazione di cittadinanza attiva e di trasformazione culturale verso l’autogoverno. Rispetto a questa seconda accezione, l’ascolto sul problema contingente non può che essere il primo passo della democrazia partecipativa, se l’obiettivo non è il consensus building ma l’empowerment della società locale.

Per questo sono rimasto un poco allarmato dalle conclusioni di Martini riportate da Morisi: “Castelfalfi è il modello di riferimento della partecipazione in Toscana del governo del territorio”; speravo (e non dispero) che il modello di riferimento fosse ad esempio un processo di costruzione dall’inizio del quadro conoscitivo di uno “statuto del territorio” che consentisse agli abitanti di un comune (o di un gruppo di comuni) di maturare un’idea condivisa di patrimonio territoriale, ambientale, paesistico; di codificarla nello statuto in modo da affrontare poi con consapevolezza collettiva i progetti di trasformazione che via via vengono proposti.

Assumere Castelfalfi come modello sarebbe come considerare l’articolo 1 della Convenzione Europea del paesaggio , in cui il paesaggio “designa una determinata parte del territorio cosi come è percepita dalle popolazioni”, trattabile alla lettera con qualche intervista o con qualche assemblea in cui ognuno dice come percepisce il paesaggio.

Ma chi sono queste “popolazioni” che “percepiscono”? Esse, lo sappiamo, sono ridotte (non tutte per fortuna, esiste una cittadinanza attiva crescente e diffusa sul territorio) a individui la cui cittadinanza implode nella loro figura di consumatori. Questi consumatori sono bombardati, tramite pubblicità televisive, da una cultura che gli propone l'auto sotto il letto; essendo espropriati dai saperi locali, sono indotti a praticare correntemente il "localismo vandalico", sognando di abbellire i luoghi con i modelli stilistici standardizzati delle periferie metropolitane; sono sospinti a vivere la loro socialità negli pseudo spazi pubblici degli ipermercati o in piazze telematiche; sono costretti a delegare sempre più la propria vita riproduttiva a grandi apparati tecnologici e finanziari, sempre più lontani dalla loro capacità di controllo. Sono questi immaginari eterodiretti che dobbiamo “ascoltare” o abbiamo la responsabilità di fornire agli abitanti di un luogo strumenti che li aiutino a cambiare la loro posizione di sudditanza culturale e alienazione? Se ci limitiamo a consultarla per capire come "percepisce" il paesaggio, ho l'impressione che l’”ultimo ex mezzadro” citato da Morisi ci chieda: "ma che hazzo è sto paesaggio?" Figurarsi poi di quali saperi contestuali riescono ad avere memoria e pratica attiva, i giovani rumorizzati delle discoteche o quelli dei centri sociali sistematicamente sfrattati, i maratoneti delle ipercooppe, gli immigrati con i problemi di cittadinanza, gli anziani che non arrivano con la pensione alla fine del mese, ma anche una gran parte dei nostri colleghi architetti, impegnati ad affermare la propria griffe nei paesaggi posturbani.

Finché molti cittadini di Montaione continueranno a pensare che il turismo di lusso della TUI gli porterà dei vantaggi (economici? occupazionali?), con le sirene degli accattivanti disegnini tedeschi che inventano un paesaggio toscano ad uso esclusivo di turisti globali, e la Regione che legittima soluzioni come questa come ottimali per l’economia turistica, avrà ragione il garante che, applicando correttamente il suo mestiere e operando entro questi orizzonti di senso, rivendica la correttezza della consultazione contingente degli abitanti per ridurre l’impatto dell’intervento, identificandola con la democrazia partecipativa. Quest’ultima è necessariamente un processo ben più complesso di decolonizzazione dell'immaginario e di maturazione culturale verso la consapevolezza del proprio patrimonio e la ricerca di una identità collettiva; processo che la sinistra (insieme agli intellettuali, con o senza villa) dovrebbe contribuire a far crescere, prospettando modificazioni degli interessi in campo dati, progettando e prospettando futuri equi e autosostenibili, anziché santificare lo stato presente delle cose e le sue ineluttabili leggi e confini di operatività.

Ma al di la della distinzione fra consultazione e partecipazione, ha colpito anche me, come ha colpito Edoardo Salzano, l’affermazione di Morisi che il destino di Montaione si situi inevitabilmente nella tenaglia fra il villaggio-missile transnazionale con raddoppio del campo da golf e del borgo storico (ridimensionato, forse, speriamo, dal processo di consultazione attivato) e lo svillettamento monticchiellare. Ritorno con un esempio all’annata 1988.

Abito in un piccolo borgo storico di Montespertoli (io sono una modesta variante della figura degli ’”intellettuali proprietari di villa” citati da Martini come unici oppositori al progetto di Castelfalfi, ovvero l’”intellettuale proprietario di torre borghigiana”, dove con mia moglie Anna ho lo studio e abito). Ebbene a quel tempo i proprietari del borgo, parte della fattoria di Lucignano, i conti Lodovico e Antonella Guicciardini, intenzionati a venderlo, avevano la comoda soluzione di una immobiliare, possibilmente multinazionale, che lo acquistasse a caro prezzo in blocco. Facile ipotizzare, in quel caso, un modello Castelfalfi ante litteram: la multinazionale avrebbe “trattato”una variante al PRG (che prevedeva per la zona circostante il borgo area di pregio ambientale, non edificabile) con raddoppio del borgo per ragioni di economia dell’azienda turistica che ne sarebbe seguita e la sostituzione, nella valletta antistante il borgo, della complessa trama di oliveti, vigneti, ragnaie, sterrate, ripe, boschetti e ciglioni, che costituisce il paesaggio storico delle ville fattoria, con un campo da golf. I Guicciardini scelsero un’altra strada. Frazionarono il borgo in 15 unità immobiliari, attribuirono a ciascuna un pezzo di terra circostante il borgo da coltivare (oliveti, vigneti, orti, giardini, ecc) e fecero preparare al prof. Luigi Zangheri dell ‘Università di Firenze un “Piano di riuso”, ratificato dal Comune che, oltre a confermare l’immodificabilità volumetrica del borgo, stabiliva regole di buona manutenzione dello stesso e delle sue pregevoli caratteristiche architettoniche, urbanistiche e paesistiche. Il Piano di riuso era allegato all’atto di acquisto di ogni unità immobiliare, come parte integrante del contratto. Non solo. Nelle vendita è stata data precedenza in primo luogo ad ex contadini e lavoratori della Villa fattoria, in secondo luogo ad artigiani locali (muratori, idraulici, cestai) e infine, per una quota residua, a “stranieri” come me. Oggi il borgo e il suo paesaggio (non senza gli usuali conflitti condominiali) sono mediamente ben riprodotti, curati, coltivati.

In conclusione concordo con Paolo Baldeschi (altro intellettuale in villa) quando a conclusione del suo intervento propone un tavolo partecipativo interscalare per elaborare uno “statuto del territorio dell’ambito di paesaggio” in cui si trova Castelfalfi, che potrebbe portare “buone regole d’uso e delle possibili trasformazioni, perché no, migliorative”.

La legge sulla partecipazione della Regione Toscana appena approvata offre questa possibilità: iniziare la costruzione di statuti dei luoghi attraverso processi partecipativi, che produca buone regole condivise per la cura e la trasformazione dei luoghi, decise dal comune insieme agli abitanti che rappresenta, prima e a prescindere dall’arrivo delle multinazionali del turismo; aiutando inoltre gli abitanti, attivando modelli di sviluppo economico locale, a non vendere il proprio territorio alle multinazionali stesse, processo purtroppo “galoppante” per le grandi aziende agricole, industriali, borghi e città toscane.

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