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Giulio Angioni
Un intervento sul termine paesaggio
16 Gennaio 2008
Testi presentati alla scuola
Riflessione di un antropologo sul concetto di paesaggio a partire dalla definizione contenuta nella Convenzione Europea del Paesaggio.

Vorrei in questa sede proporre una riflessione sul concetto di paesaggio traendo spunto da una mia recente esperienza. Questa è consistita nella partecipazione a un comitato di esperti nominati dalla giunta regionale della Sardegna al fine di fornire consulenza alla redazione del Piano Paesaggistico Regionale (d’ora in poi PPR, www.sardegnaterritorio.it/pianificazione/pianopaesaggistico).

Oggi si discute molto in Sardegna di piani e di identità paesaggistica. Anche pensando al paesaggio, l’identità, se è anche altro, non può non essere un progetto del futuro in rapporto col passato nel contesto del resto del mondo. Che lo si sappia o meno, è sempre così. Se le identità sono soggettivamente plurime, e lo sono sempre, può essere considerato urgente sviluppare il senso della comunità di tutti i sardi, il senso dell’appartenenza e dell'unità di passato e futuro che lega l'insieme dei sardi al di là delle proprie diversità interne. Questo affinché un nuovo patriottismo sardo (non etnicisticamente sostanzialista e fissista) diventi supporto e impegno a farci riscoprire il senso della cittadinanza, sarda italiana europea mediterranea e planetaria, ma anche il senso della legalità e dell’impegno civile, senza di che ogni pianificazione non può avere fondamento stabile e unitario. Un piano che si dice paesaggistico comporta prima di tutto promozione di attività in campo politico, sociale, culturale, economico, scientifico, artistico e così via.

Anche nel caso specifico della pianificazione paesaggistica, promuovere l’identità come rapporto e progetto deve significare promuovere, gestire e amministrare luoghi e occasioni d'incontro tra le diverse discipline scientifiche, tecnologiche e artistiche, favorendone lo studio complessivo, la diffusione e anche la formazione di professionalità specifiche oltre ad un’utilizzazione collettiva.

Identità e paesaggio sono nozioni tanto poco dicibili quanto molto efficaci e onnipresenti. Il concetto stesso di paesaggio, mutuato dalla Convenzione Europea del Paesaggio del 2000 e definito come “una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni…”, se ci ha fatto discutere, non è però by-passabile. Questa percezione delle popolazioni locali, che genera il loro paesaggio e ne fonda territorialmente l’identità, sembra ad alcuni troppo rispettosa di percezioni paesaggistiche non condividibili, le quali infatti anche in Sardegna producono i danni che tutti lamentiamo. Eppure il paesaggio deve pensarsi come un processo di percezione di un territorio, senza implicare che ogni percezione (e azione che ne consegua) sia positiva e rispettabile. Infatti ogni percezione è da considerare, e da tenere in conto, come forza in campo, senza di che si continuano a fare errori "centralistici" o "illuministici" o “dirigistici” (Gambino, Romani, Camporesi). Conoscere gli elementi della percezione comune del proprio paesaggio da parte di una popolazione, e le diversità interne di questa percezione, è condizione imprescindibile per la pianificazione, soprattutto quando di quelle percezioni si voglia sia utilizzare e sia mutare qualche aspetto. Tenere conto della percezione delle popolazioni è condizione politicamente neutra, preliminare a ogni piano. Ma non ci sono solo teste da cambiare in fatto di percezioni correnti sarde sul paesaggio, ci sono certo elementi del senso comune vecchio e nuovo in fatto di paesaggio che possono giocare un ruolo positivo anche in fase di pianificazione, per non fare la fine del Parco del Gennargentu. Non si può programmare un aggiornato senso comune sardo paesaggistico fingendo che nelle teste dei sardi di oggi ci sia tabula rasa di percezioni, gusti, abitudini e codici emotivi in fatto di paesaggio. Essi infatti pur se più o meno espliciti, anzi di solito molto impliciti e anche per ciò potenti ed efficienti, giocano un ruolo nel bene e nel male. I pianificatori devono almeno essere coscienti del fenomeno, se non anche attrezzati a riconoscerlo e ad affrontarlo, con la consapevolezza dello stato della Sardegna di oggi che guarda al suo futuro.

Per struttura geologica, associazioni florofaunistiche e segni della storia umana, la varietà frantuma il paesaggio sardo, vero mosaico geo-bio-antropico. Ma come il mosaico in figura, anche il paesaggio sardo è percepibile nella sua unità, fatta, per esempio, dalle presenze unificanti di orizzonti larghi e piatti (e forme arrotondate), dove è caratteristica la macchia mediterranea (con innovazioni come il ficodindia o l’eucalipto), o le lagune costiere con faune tipiche. E sono solo esempi di tratti unificanti. L’unità si deve anche ai segni della preistoria (come, per esempio, le migliaia di nuraghi in tutta l’isola), della storia (come le chiesette romaniche spesso solitarie), o ai modi della presenza umana, a lungo quasi nulla in buona parte delle coste, che ha stabilizzato ovunque un habitat accentrato e rado (con distinzione netta tra abitato e disabitato), dove dominano i segni della lunga durata delle due grandi attività della cerealicoltura e della pastorizia (Angioni e Sanna), con l’openfield ma anche coi muretti a secco, e gli effetti dell’azione dell’incendio estivo e del maestrale che piega tutto il piegabile a sud-est.

La Convenzione Europea del Paesaggio, salutata subito in tutta Europa come felicemente innovativa, definisce il paesaggio “una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni”. Credo che non ci sia antropologo culturale che non sia di questo parere, quando pensa al paesaggio o si sforza di definirlo (a me, a conferma, è venuta spesso in mente la pagina di Ernesto De Martino sul Campanile di Marcellinara), sebbene anche l’antropologo sia pronto a osservare che ritenere il paesaggio una percezione (soprattutto visiva) delle popolazioni non implica per forza il riconoscimento di un valore positivo. In ogni caso però, tale percezione sarebbe utilizzabile sì come valore positivo, ma comunque sempre da rilevare e analizzare. Infatti anche nel caso che una certa percezione del paesaggio sia ritenuta inadeguata, arretrata o comunque negativa vi si può intervenire, se non altro perché si può criticare e modificare meglio ciò che meglio si conosce, si documenta, si analizza. Sempre nella Convenzione di Firenze, l’antropologo non può non apprezzare il mettere insieme la nozione di paesaggio con quelle di processo e di dinamica, e quindi di progetto. L’urbanista, il territorialista, il naturalista non hanno, mi pare, difficoltà a pensare la processualità e la dinamicità nel paesaggio e nella sua percezione, quando si tratti di progettualità e pianificazione esplicita e programmatica. Più difficile è farsi prendere sul serio quando si tenti di mettere in evidenza che le dimensioni dinamiche e processuali del paesaggio, ma più in generale le dinamiche e i processi territoriali, hanno aspetti oscuri e impliciti che non sono meno importanti di quelli chiari ed espliciti e propri dei vari specialismi abituati giustamente a partire dalla rilevazione e dall’analisi per arrivare al progetto, al piano, alla norma, alla sua applicazione. Vanno affrontati, infatti, con forme e modalità diverse di costruzione della conoscenza. C’è anche qui un problema di "ricostruzione” del modo di conoscere il territorio, che è ancora tenacemente fondato sulla conoscenza analitica, e basato su percorsi lineari che conducono dall’analisi al progetto e che in un certo senso affidano a grandi apparati informativi il ruolo di sistema nervoso centrale della conoscenza territoriale.

La definizione di paesaggio della Convenzione Europea di Firenze viene riproposta nella sua sostanza nella legge 42/2004 o Codice Urbani (Trentini), e prenderla sul serio, in parola, spinge a chiedersi, com’è successo nel caso del PPR sardo, quando si parla di percezione del paesaggio a chi, a quali ceti o strati o classi delle popolazioni locali occorra prestare attenzione, e magari dare voce e credito. Riflettere sul paesaggio come percezione, latamente sensoriale e soprattutto visiva, posta subito a intendere che anche in piccole porzioni di territorio le percezioni sono tanto stratificate e differenziate almeno tanto quanto è stratificata socialmente e culturalmente la popolazione locale o comunque interessata a quel territorio. In effetti le comunità locali, soprattutto nelle coste, ma anche nei paesi dell’interno, attraverso i rappresentanti democraticamente eletti, in Sardegna molto spesso si sono fatte interpreti, “piuttosto che delle sensibilità profonde e dei valori del paesaggio storicamente configuratosi dall’integrazione tra uomo e ambiente, di gruppi ed interessi che nulla avevano a che fare con la tutela del paesaggio come bene ambientale di interesse strategico collettivo e sovra-comunale” (Relazione Tecnica, www.sardegnaterritorio.it/pianificazione/pianopaesaggistico).

Spesso si è fatto cenno ai potentati dell’economia turistica internazionale, che cercano di determinare la configurazione generale del paesaggio, e se è così, "non si comprende perché a ciò non debbano concorrere anche le istituzioni sovra-comunali e le istituzioni scientifiche che indagano sui processi degli ecosistemi e sulle conseguenze nella lunga durata degli interventi sul territorio". Concepire il paesaggio come percezione dei diretti interessati o comunque interessati a un territorio, lungi dal semplificare generalizzando, pone di fronte alla complessità dei problemi e richiede, operativamente non solo in quanto pianificatori, cercare di attingere una “integrazione delle percezioni dei vari soggetti ed una sintesi che recepisca l’interesse generale”, magari slegato dagli interessi contingenti di parte più o meno leciti. Intendere il paesaggio come percezione, dunque, a parte tutta la miriade di altre osservazioni, costringe a tenere conto dei ruoli di ognuno e di organizzare la partecipazione democratica ai processi di pianificazione paesaggistica, evitando il più possibile il prevalere casuale o di mero potere lobbistico, anch’essi legati e coerenti con interpretazioni soggettive del paesaggio e quindi anche a interessi sul territorio. La visione dinamica del paesaggio come percezione obbliga poi a una pianificazione in cui anche la fantasia visiva, applicata al futuro, previdente e quasi preveggente, abbia ruolo progettuale primario (Assunto, Cazzani, Ritter).

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Giulio Angioni è ordinario di Antropologia Culturale all’Università di Cagliari, studioso della Sardegna, specialmente contadina e pastorale, e della storia degli studi antropologici: www.giulioangioni.net.

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