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William Jefferson Clinton
Lo tsunami un anno dopo
3 Dicembre 2007
Articoli del 2005
Riflessioni dell'ex presidente USA, responsabile ONU per la ricostruzione. International Herald Tribune, 23 dicembre 2005 (f.b.)

Titolo originale: The tsunami, one year later – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini



NEW YORK – Un anno fa, quando molti di noi stavano trascorrendo il periodo delle vacanze con le famiglie, la terra tremò per otto terribili minuti, scatenando un’onda gigantesca che colpì 12 paesi dell’Oceano Indiano.

Nelle successive 24 ore, morirono più di 230.000 persone, 2 milioni furono i profughi, e migliaia di bambini restarono orfani. Lo tsunami devastò quasi 8.000 chilometri di coste, distrusse 3.500 chilometri di strade, spazzò via 430.000 abitazioni e danneggiò o distrusse oltre 100.000 imbarcazioni da pesca.

Subito dopo tsunami, feci un viaggio con l’ex Presidente George H.W. Bush attraverso la regione, per verificare l’efficacia del contributo americano alle vittime.

Poco dopo, fui nominato Inviato Speciale delle Nazioni Unite per la Ricostruzione dopo lo Tsunami, e da allora ho lavorato sia alle Nazioni Unite che in Indonesia, Sri Lanka, India, Maldive Thailandia, a sovrintendere il coordinamento e aumentare il ritmo dei lavori di ricostruzione, e risolvere specifici problemi in alcuni paesi.

Recentemente sono stato ad Aceh, Indonesia, e a Trincomalee nello Sri Lanka nord-orientale, dove ho incontrato sopravissuti che avevano perso tutto: i loro cari, il lavoro, la casa e la comunità. Mi hanno ricordato il dolore che tanti continuano a sopportare.

A Trincomalee, ho incontrato un ragazzo che aveva salvato il fratellino più giovane, ma era perseguitato dal ricordo del fratello maggiore, scivolatogli tra le dita mentre l’onda da un miliardo di tonnellate distruggeva la casa. Il ragazzo non ha mai più rivisto il fratello maggiore.

In entrambi i paesi, sono restato colpito dalla determinazione dei sopravvissuti a ricostruire le proprie vite nonostante le perdite inimmaginabili che hanno subito e le condizioni spesso disperate in cui vivono.

Sono anche stato incoraggiato, dalle molte significative realizzazioni degli ultimi 12 mesi: sono state prevenute le epidemie; molti bambini sono tornati a scuola; decine di migliaia di sopravvissuti ora lavorano e guadagnano di nuovo; è fornita assistenza costante per l’alimentazione; è disponibile online un sistema comune di verifica finanziaria; si prevede che la prossima estate sarà attivo un sistema di allarme regionale per gli tsunami.

Ma c’è ancora molto da fare. Soltanto ad Aceh e nella vicina Nias, ci sono oltre 100.000 persone che vivono ancora in condizioni inaccettabili e con accessi minimi ad occasioni di impiego.

Anche se le agenzie di soccorso attuano progetti per le abitazioni permanenti, ci sono ancora bisogni urgenti di fornire rifugi temporaneo durevoli, migliorare i centri di vita transitori e assistere le famiglie che ospitano le vittime.

Lo tsunami presenta una sfida critica alla comunità internazionale: continueremo nei soccorsi anche quando l’attenzione del mondo si sarà rivolta ad altre crisi? Cosa succederà domani, il giorno dopo l’anniversario? E nelle settimane e mesi che ci aspettano? Questo impegno richiederà anni, e dobbiamo onorarlo.

Ora più che mai, sono convinto che la ricostruzione debba essere guidata dall’impegno a “rifare meglio”: migliori case, scuole, centri sanitari, città più sicure ed economie più solide.

Le politiche per la ripresa devono includere principi base di buon governo, come la consultazione delle comunità locali per i piani di ricostruzione, gli obiettivi, la trasparenza, la verificabilità.

Nel 2006, mi concentrerò su tre priorità per essere sicuro di rifare meglio (ogni nazione ha un sufficiente impegno finanziario tranne le Maldive, che hanno bisogno di altri 100 milioni di dollari).

Per prima cosa, dobbiamo essere sicuri che il nostro sforzo, unico per la buona disponibilità di risorse si rivolto alla popolazione più vulnerabile: i più poveri tra i poveri, donne, bambini, migranti, minoranze etniche.

Dal Global Consortium on Tsunami Recovery, abbiamo fatto pressioni sui governi per assicurare una diffusa consultazione con le popolazioni locali e promozione di una politica che metta al di sopra di tutto l’eguaglianza nell’assistenza; abbiamo concordato una definizione ampia di popolazioni “colpite dallo tsunami” – a comprendere profughi o persone interessate dai conflitti in luoghi come lo Sri Lanka o Aceh – e abbiamo incoraggiato i governi a mettere in atto sistemi di verifica per le spese di assistenza possibili da consultare online.

Secondo,dobbiamo assicurarci che si facciano continui progressi in termini di riduzione del rischio nel 2006. Un sistema rapido di allerta per l’Oceano Indiano è un avanzamento benvenuto, ma rappresenta solo una parte della risposta.

Meno di un mese dopo che lo tsunami aveva colpito, 168 paesi si sono riuniti in Giappone e hanno concordato lo Hyogo Framework for Action, che fissa alcuni obiettivi strategici, priorità e azioni concrete da parte dei governi per ridurre gli effetti degli eventi calamitosi entro i prossimi dieci anni.

Ne fanno parte campagne di educazione nazionale perché le popolazioni riconoscano rapidamente i segnali di disastro incombente, una migliore pianificazione di uso del suolo per evitare investimenti in zone pericolose, regole comuni per un’edilizia più resistente e il ripristino di alcuni essenziali elementi di prevenzione ambientali come le mangrovie.

Queste innovazioni richiedono politiche e impegni per le risorse, tutte cose ancora da fare.

Terzo, non possiamo ignorare l’importanza della riconciliazione politica, della pace e del buon governo per il successo della ricostruzione.

Ad Aceh, lo tsunami ha obbligato i leaders politici a riconoscere che i problemi che alimentavano il conflitto nel paese erano meno urgenti di quanto invece univa la popolazione.

L’accordo di pace ha molto migliorato le prospettive di ricostruzione in Indonesia. La riconciliazione in Sri Lanka avrà risultati simili. In tutta la regione, le riforme politiche saranno una componente critica di una ricostruzione sostenibile.

Naturalmente, quest’anno ci sono stati altri disastri naturali oltre allo tsunami, e i loro strascichi dolorosi dimostrano la necessità di un maggiore coordinamento internazionale e cooperazione.

Il recente terremoto in Pakistan è un duro promemoria del bisogno di sostenere la creazione di un Global Emergency Fund che offra aiuti umanitari alle popolazioni e governi colpiti con risorse sufficienti ad iniziare il lavoro di salvataggio delle vite entro 72 ore da qualunque crisi.

Lo tsunami e quanto è successo dopo dimostrano sia la fragilità della vita umana, sia la forza e generosità dello spirito umano quando si lavora insieme per ricominciare.

Un anno fa, milioni di persone comuni in tutto il globo concorsero negli aiuti immediati alle comunità devastate dallo tsunami.

Ora la sfida collettiva è quella di finire il lavoro, lasciando comunità più sicure, pacifiche, forti. Non saremo soddisfatti finché questo lavoro non sarà concluso.

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