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Furio Colombo
Outlet, tutti alla festa fredda del consumo
1 Dicembre 2007
Il territorio del commercio
Una riflessione sull’artificiosità dei nuovi spazi commerciali di successo, a partire dal libro di Aldo Cazzullo, Outlet Italia. L’Unità, 1 dicembre 2007. Con postilla (f.b.)

Nel vasto altopiano vuoto della sociologia che si specializza sempre più nei dettagli e sembra aver perduto uno sguardo d’insieme (un fenomeno altrettanto evidente negli Stati Uniti come in Italia) sembra toccare ai giornalisti il compito di dare notizie sul paesaggio cambiato.

Outlet Italia. Viaggio nel paese in svendita, il nuovo libro di Aldo Cazzullo (Rizzoli, pp. 289, euro 16), è nato dal doppio sguardo di un giornalista colto che sa dedicarsi bene a un grande evento o a un minuto dettaglio, specialmente quando l’evento o il dettaglio hanno a che fare con la vita politica del momento. Ma continua a guardare intorno, nel paesaggio italiano e a vedere l’insieme. Quell’insieme lo intriga perché Cazzullo nota cambiamenti clamorosi.

Vede nascere in questo Paese, da un capo all’altro della penisola, una nuova religione. Vede un immenso pellegrinaggio verso e attraverso megacattedrali, si rende conto che, come in tutti i culti, ciascuno è da solo e ciascuno è raggiunto da solo dai messaggi del culto, anche se in apparenza la folla dei pellegrinaggi appare composta di orde (i più giovani) e da intere famiglie, con vecchi al seguito. Finora soltanto un narratore - Niccolò Ammaniti - aveva dedicato pagine che sono un vero e proprio documento, una sorta di film verità, alla vita-pellegrinaggio negli outlet italiani.

Nel romanzo Ti prendo e ti porto via prima, scortati e confortati anche da materiale documentario come Bowling at Columbine (il primo successo internazionale Di Michael Moore) avevamo pensato agli outlet come a immense stazioni di conforto nel mezzo delle praterie americane, ovvero in un mondo senza città, senza piazze, senza luoghi destinati nei secoli all’incontro in pubblico.

Cazzullo, con la sua dettagliata Esplorazione del fenomeno«outlet» in un territorio percorso e ripercorso dalla storia, fittamente popolato di piazze e di chiese, lungo catene quasi ininterrotte di piccole città con tante e profonde radici locali di tradizione e persino codici di comportamento sempre osservati, sempre rimbalzati tra le generazioni, dimostra al lettore che sciami di astronavi «outlet» si sono posate dovunque in Italia, larghi, solidi, chiusi, estranei alla storia, impermeabili (indifferenti) a qualunque cultura perché portano una cultura propria e diventa capace di travolgere, o meglio di cancellare tutto il prima.

Uno strano futuro è già cominciato. Ma, prima di tutto, che cosa è un outlet, che cosa ci fa in Italia, e perché è importante parlarne? Tecnicamente la parola outlet - che si potrebbe tradurre «fuori» o «altrove» - è diventata consueta negli Stati Uniti per indicare una combinazione virtuosa tra costo del terreno e dell’edificio,dislocazione lontana e inizialmente senza valore, del luogo in cui sorge l’emporio, la vastità della costruzione che consente, a costi bassi, di ospitare un numero altissimo di punti di vendita - o boutique - la disponibilità di parcheggi quasi senza limiti, e in molti casi il funzionamento di «navette» che facilitano l’accesso a giovanissimi e anziani, producendo una inedita, sconfinata potenzialità quanto al numero di visitatori, dunque di acquirenti.

Tutto è nato da una fuga delle imprese commerciali dalle città, dai costi di nuovi insediamenti metropolitani, sempre più inaccessibili, dalla ricerca di ampi e diversificati luoghi di vendita. L’origine degli outlet è dunque una ribellione tipicamente americana a situazioni apparentemente immutabili.

Ogni area urbana americana aveva da decenni le sue zone di vendita tipo supermercato, ipermercato e «department store» (grandi magazzini) definitivamente insediati, definitivamente al riparo da sfide e concorrenze nello stesso ambito urbano. Chi ha seguito il fenomeno dalla nascita di questi centri di megavendite ricorda che il primo «outlet» della vita commerciale americana - dunque del mondo - è stato il «Disney World» di Orlando, in Florida, una sgargiante, luminosa città del futuro costruita su terreni paludosi rifiutati, nonostante la rimozione di ogni limite o regola perle costruzioni, da qualunque acquirente (quel terreno non poteva avere neppure una destinazione agricola) e prescelta per il vasto progetto della Disney a causa della irrilevanza del costo del terreno e della offerta dello Stato della Florida di provvedere gratuitamente a tutti i collegamenti delle nuove strutture con le reti necessarie. «Disney World » di Orlando è stata una scossa per due settori chiave della economia americana: costruzioni e commercio. La rivelazione ha rovesciato il celebre detto del mondo immobiliare americano secondo cui i tre requisiti indispensabili di una costruzione di valore sono «location, location, location».

La rivelazione è stata: la location (il luogo) non conta più. Non solo. Ma la lontananza isolata e selvaggia e decisamente fuori mano diventava una attrazione in più, anzi l’attrazione principale: andare altrove, una sorta di avventuroso «out of the borders», fuori dai confini, di cui parlavano tante canzoni americane.

«L’altrove» che ha consacrato il successo degli outlet americani interpretati come una sorta di «gita a Chiasso»si è rapidamente trapiantato nel paesaggio italiano così profondamente diverso, dove un piccolo centro storico e con chiesa d’autore, mura romane e ruderi del castello, è a poca distanza da qualche intatto capolavoro della storia.

Tutto ciò dimostra che il viaggio di esplorazione di Aldo Cazzullo nella vita a avventure degli outlet italiani è una impresa assai più delicata, complessa e necessaria di un viaggio negli outlet americani. Là il vuoto, anche fisico, poggia sul vuoto storico e sul vuoto del territorio. Nel senso che una curiosa civiltà evanescente fatta di una massa di oggetti e nessun disegno, progetto o destinazione occupa vasti spazi di lande altrimenti abbandonate.

Al contrario una Italia affollata di storia, la storia delle città, dei rapporti, dei riti, delle celebrazioni, delle processioni, dei palii, dei santi protettori, vede depositarsi sulle sue radure tutt’altro che vuote i dischi volanti dei nuovi «outlet » carichi di oggetti da vendere già disponibili ovunque, salvo il prezzo che è, certo, conveniente ma non ha alcun rapporto con la necessità.

Qui torna utile una importante intuizione dell’esploratore Cazzullo negli outlet italiani: l’attrazione più grande non è la «la gita a Chiasso» (nella felice espressione di Arbasino anni Sessanta) ma l’esatto contrario: l’ingresso in una materializzazione fisica della televisione, spot e programmi.

Qui il senso di appartenenza non è dato dalla presenza dei divi o delle celebrità, ma dalla identificazione del territorio. È come nel gioco magico e fantasioso raccontato da Woody Allen La rosa purpurea del Cairo. Con una differenza importante: lo schermo del cinema è un mondo esotico, avventuroso, lontano, lo «outlet» è il passaggio di frontiera dal fuori al dentro del più domestico degli oggetti, lo schermo della televisione di casa. Là dentro sei più a casa che a casa. Sei nel territorio giusto in cui riconosci ogni oggetto, e ogni dettaglio. Quella immensità di oggetti in offerta ti appare familiare e quotidiana. Ma è davvero un’Italia in «svendita» (come dice il sottotitolo del libro di Cazzullo) quella dei vasti outlet affollata in cui si celebra, per numeri molto alti di cittadini, una «festa fredda» che da l’impressione (l’illusione) di essere senza fine? Forse è - piuttosto - uno strano museo di scienze naturali, in cui vengono esposti (ovvero si autoespongono) i cittadini tipo di un paese senza passioni, senza ideali comuni, senza un interesse che leghi tutti (una volta si diceva «interesse nazionale ») tranne un intenso,meticoloso, infaticabile acquisto di beni di consumo. Del resto, non viene detto anche da autorevoli voci politiche che«dobbiamo aumentare i consumi?» e il totem del Pil (il mitico prodotto interno lordo, non è il grande misuratore della nostra collettiva volontà di comprare ciò che la nostra volontà di comprare induce a produrre?

Dunque Aldo Cazzullo, nel suo libro documento che occupa, con la esplorazione giornalistica, lo spazio della scienza sociologica d’altri tempi ci porta in visita nella sala macchine del più strano strumento mobile della nostra età. Non arriva, non parte, non promette o permette alcuna avventura.

Produce una grande simulazione di sentimenti, entusiasmi, passioni, ideali, persino gioia, tutti antichi tratti umani che non esistono più in natura. Non negli outlet, immense piazzole di sosta di una civiltà interrotta.

postilla

Come probabilmente i lettori abituali di eddyburg avranno notato, molti dei temi toccati da Furio Colombo, e che evidentemente appaiono inediti a parte della cultura e del giornalismo italiano, sono da alcuni anni ricorrente oggetto di attenzione per questo sito. Vorrei qui sottolineare però come questa “scoperta giornalistica” del territorio del commercio e dell’intrattenimento, del suo successo in terra italiana anche in quanto spazio moderno di interazione sociale, abbia ahimè ancora un limite forse ineliminabile nell’essere a sua volta fenomeno di moda e costume. Non è un caso forse, se in rapidissima successione sono stati pubblicati oltre al fortunato libro di Cazzullo, anche quella specie di autobiografia “anticomunista” del patron Esselunga Bernardo Caprotti (Falce & Carrello), il più sistematico e storico La Spesa è Uguale per Tutti di Emanuela Scarpellini, e più di recente Autogrill. Una storia italiana, di Simone Colafranceschi.

Il fatto è che gli spazi del commercio e dell’intrattenimento sono sempre più la punta di un iceberg di una domanda sociale di modernità, e relativi ambienti, a cui pare proprio che il settore pubblico non voglia dare alcuna risposta. Da un lato delegando appunto gli operatori commercial-immobiliari a sostituire le piazze (pubbliche) coi propri complessi (certo collettivi, ma per definizione privati), dall’altro non percependo più come centrale la stessa idea di spazio pubblico. Come dimostrano ad esempio la scarsa sensibilità di quasi tutte le parti politiche in generale ai temi dello sprawl, o il tentativo ancora in corso di privatizzare le aree a standard, sposando la linea secondo cui si tratterebbe di “superfici inutilizzabili” in quanto non destinate allo sfruttamento edilizio, a quanto pare per alcuni unica funzione legittima dello spazio urbano.

In definitiva: ambienti del commercio o meno, pare impossibile tentare di capire il rapporto fra spazio, società, immaginario, se non si usa un approccio meno settoriale, proprio tentando di recuperare nel suo insieme quella “idea di città” che certo improvvisato azzonamento culturale vorrebbe farci perdere (f.b.)

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