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Marco Revelli
Giocare col fuoco
4 Novembre 2007
Articoli del 2007
Riuscirà la politica a pensare “a un futuro che vada oltre il prossimo sondaggio”? Dopo le reazioni all’assassinio di Tor di Quinto la domanda è lecita. Da il manifesto, 4 novembre 2007

Quanto avvenuto in Italia in questa maledetta settimana di Ognissanti non ha paragone con nessun altro paese civile. Che un crimine, per orrendo che sia - e l’assassinio di Giovanna Reggiani lo è -, produca come reazione la ritorsione collettiva, in alto e in basso, nelle istituzioni e nella società, contro un intero gruppo etnico e un’intera popolazione, è fuori da ogni criterio di civiltà, giuridica e umana. Che la colpa «personale» dell’autore del crimine venga fatta pagare sulla pelle di migliaia di donne, uomini, bambini, già costretti a vivere in condizioni di indigenza estrema, è cosa che non può non sollevare un senso di desolazione e disgusto.

Le immagini delle ruspe immediatamente entrate in azione per spianare gli «insediamenti abusivi» e ostentate in tutti i telegiornali, le irruzioni un po’ in tutta Italia nei «campi nomadi», le identificazioni di massa e le prime espulsioni annunziate trionfalmente da prefetti e giornali, come se tra quel crimine e quelle persone scacciate senza tanti complimenti esistesse un nesso diretto, fino all’aggressione di Tor Bella Monaca, evocano scenari inquietanti, d’altri luoghi e di altri tempi. Alludono a una bolla di odio, di ostilità, di paura aggressiva gonfiatasi sotto la superficie patinata della nostra quotidianità, che personalmente mi terrorizza. Sgonfiare quella «bolla calda» di rancore ed emotività, neutralizzarne i veleni, dovrebbe essere il compito di tutti noi. Di chiunque lavori davvero a una condizione di «sicurezza collettiva ». Soprattutto della politica, nel suo senso più nobile, come organizzazione della coabitazione pacifica nella città (della «bella politica», come ama chiamarla Veltroni).

E invece la politica, da cura del male si trasforma oggi in fattore di contagio. Anziché neutralizzarlo, finisce per reclutare l’odio. Per quotarlo alla propria borsa, come risorsa capace di assicurare il consenso prodotto dalla paura. Nel caso specifico ha incominciato Gianfranco Fini, perfettamente coerente in questo con il suo passato fascista, occupando il terreno del crimine. Dichiarandone con la sua sola presenza il carattere «politico». Facendone oggetto di contesa politica. Ma gli altri, purtroppo, non si sono tirati indietro. L’hanno seguito a testa bassa, in rapida successione, governo e sindaco di Roma, forse pensando così di contendergli lo spazio.Di parare il colpo, in una rincorsa sciagurata. Di fatto contribuendo ad alimentare quella bolla, a legittimarne implicitamente gli umori lividi. A sdoganare l’ostilità preconcetta.

Né ci si può stupire se, dietro le ruspe del comune, qualcuno penserà di fare da sé, di «dare una mano », sgomberando a colpi di spranga qualche baracca. O bruciandone qualcuna. O eliminando, a coltellate, qualche «abusivo» dell’umanità. Stiamo veramente giocando col fuoco. La possibilità di evocare mostri che poi non si sapranno controllare è spaventosamente reale. Io ho paura. Non lo nego. Vorrei che chi ha oggi il potere della parola e dell’amministrazione, ci riflettesse. Seriamente. Fuori dalla nevrosi mediatica e dall’urgenza di piacere. Pensando, per una volta, a un futuro che vada oltre il prossimo sondaggio.

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