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Alberto Ziparo
Dentro l'orizzonte negativo della metropoli disfatta
23 Novembre 2007
Articoli del 2006-2007
Le difficoltà di governo, di progetto e di piano della nuova realtà insediativa. La contraddittorietà delle teorie e dei punti di vista. Il manifesto, 23 novembre 2007 (f.b.)

Qualche giorno fa - l'otto novembre - si è celebrata la giornata mondiale dell'urbanistica. Da Canberra a Vancouver, da Buenos Aires a Shanghai, i documenti e i messaggi che in quella occasione si sono scambiati centri, laboratori e organizzazioni di urbanisti e pianificatori in tutto il mondo hanno sottolineato in modo pressoché unanime un punto: le prossime politiche urbane e territoriali devono assumere pienamente la gravità della questione ambientale e della crisi climatica, così che la disciplina urbanistica possa esprimere proposte analitiche e progettuali conseguenti.

Già da tempo il paradigma della sostenibilità appare, nelle dichiarazioni dei tecnici e dei decisori, il dato strutturante di tutto il settore, e tuttavia queste parole soltanto raramente si traducono in azioni. Lo dimostra, per esempio, l'attenzione suscitata da recenti dibattiti su temi già in declino, quali i «non luoghi», del cui calo ha fornito una interessante interpretazione Massimo Ilardi (in Tramonto dei non luoghi, Meltemi); oppure l'ancor più recente entusiasmo per i «superluoghi» (che in realtà dovrebbero chiamarsi correttamente «supernonluoghi»), megastrutture multifunzionali, la cui presenza domina e condiziona interi ambiti territoriali per le loro dimensioni e il loro impatto; o infine per i nuovi grattacieli, talora mascherati da tentativi, non di rado goffi, di innovazione ambientale («boschi verticali») o energetica (megacontenitori, sì, ma alimentati da sole e vento).

I cantori del gigantismo

Non sono solo i più attenti analisti del territorio, ma anche diversi architetti costruttivisti, quali Rem Koolhaas e Renzo Piano, a evidenziare la contraddittorietà e l'obsolescenza di queste posizioni. La bigness concentra quantità di interessi e capitali tali da prospettare una governance che ha tutti i mezzi per legittimare la propria autoreferenzialità: il peso economico e decisionale di simili operazioni rischia infatti di stravolgere le politiche urbanistiche e le stesse architetture (quelle che Koolhaas ha definito nei suoi scritti pubblicati in Italia per Quodlibet «Junkspace»). Tecnici e decisori sono ridotti al ruolo di cantori (chiamati cioè solo a «disegnare la retorica»), portavoce o facilitatori di operazioni la cui ampiezza suscita grandi quanto banali entusiasmi mediatici.

I problemi sorgono quando tali azioni, programmatiche o progettuali, si scontrano con una domanda sociale, estranea al sistema di governance che li sorregge, e che esprime anzi istanze spesso del tutto diverse, in conflitto con le dinamiche suscitate dai «supernonluoghi». D'altra parte, non solo le operazioni in sé, ma l'intero orientamento su cui esse si basano fa sì che vengano alimentate, e non corrette, le logiche che hanno portato all'attuale crisi ecologica.

I termini della questione ambientale - e in generale la gravità dei problemi prodotti dai modi di funzionamento del «villaggio globale», dalla povertà alle guerre, dagli squilibri al crollo delle relazioni sociali, al depauperamento delle risorse - richiedono una impostazione di fondo realmente innovativa, nonché svolte drastiche nei modi in cui nel prossimo futuro si dovranno strutturare molte discipline, e non soltanto quelle che hanno strettamente a che fare con società e territorio. La svolta dovrebbe insomma presentare caratteri di più profonda radicalità, investendo tutti i livelli della conoscenza. Del resto, proprio la presenza di una simile consapevolezza, che a mano a mano si è diffusa nei vari campi disciplinari di riferimento, ha probabilmente determinato il favore del filone «autosostenibile» o «territorialista» presso gli urbanisti (e non solo).

Avendo in mente come obiettivo la realizzazione di attività sociali sostenibili, che possano efficacemente invertire le deterritorializzazioni in atto, le nuove regole dovrebbero prendere avvio dallo «statuto dei luoghi», dalle relazioni tra valori e caratteri del patrimonio e dalla sua fruizione da parte degli «abitanti-produttori». Molte adesioni di studiosi, appartenenti all'area delle scienze ambientali, sono tuttavia state banalizzate, o addirittura vanificate, perché è stato sottovalutato il rigore con cui vanno individuate e trattate le tappe - vere pietre miliari - del programma territorialista, vale a dire appunto la concatenazione di valori, caratteri, regole e azioni. Le potenzialità di innovazione della proposta possono trovare, infatti, attuazione proprio all'interno di una rappresentazione «consistente» di questo apparato concettuale e nella sua applicazione.

Un paradigma che mal si concilia, se non confligge apertamente, con l'orientamento territorialista è naturalmente quello neoliberista, che tuttora permea molta disciplina economica e territoriale: il concetto di competitività è infatti estraneo (e forse invalidante) rispetto alla possibilità di un utilizzo coerente del mainframe della razionalità autosostenibile. Non va sottovalutata - anzi va considerata in tutta la sua portata - l'assenza di categorie economiche da questo ambito fondamentale di rappresentazione: ne derivano possibili concetti di sostenibilità economica, «da azioni indirette, non economiche»; maggiormente rapportabili, infatti, alle nuove domande di qualificazione territoriale e paesaggistica, piuttosto che alle semplici istanze sociali.

Tentativi disperati

Siamo distanti anche da Keynes, dunque, e figuriamoci dalle politiche territoriali basate sull'offerta di trasformazioni, quali oggi vengono proposte da tanto quadro istituzionale. Va considerato invece il dissolversi, «fino alla liquefazione», di comunità sociali, che possono ricostituirsi - in particolari condizioni e contesti - proprio tra quelle soggettività, talmente capaci o fortunate da «impigliarsi» negli intrecci di valori verticali (si pensi per esempio all'evoluzione del concetto di rizoma in Millepiani). Questo attribuisce maggiore valenza alle componenti più «naturali», ecologico-paesaggistiche, del patrimonio territoriale e restringe, invece, la gamma delle possibili fruizioni sociali: in questo senso lo «Statuto dei Luoghi» quasi coincide con le tassonomie del paesaggio.

Le nuove valenze, attribuibili al paesaggio, sono correlabili alle metamorfosi semantiche che segnano anche altri concetti, per esempio le relazioni tra «città», «sviluppo» o «progresso», che hanno marcato l'intera modernità. Nella postfazione alla nuova edizione dei Vandali in casa di Antonio Cederna (Laterza, pp. 279, euro 18), Francesco Erbani ripropone una simile rassegna di progetti, ma sottolinea che il tentativo degli urbanisti di giungere a una razionalizzazione pianificatoria di qualcosa che sfuggiva loro continuamente di mano - la città - risulta chiaramente disperato. Infatti, le figure che incombono sulla città contemporanea sono la sprawltown occidentale e la megalopoli terzo/quartomondista, due immagini ormai a forte connotazione negativa. Questo dovrebbe indurre molta prudenza «negli entusiasmi progettuali», il cui abuso diventa evidentemente strumentale alla prosecuzione delle dinamiche in atto.

La ricerca Itaten, diretta nel 1996 da Alberto Clementi, Giuseppe De Matteis e Piercarlo Palermo, è stata certamente una delle elaborazioni recenti più importanti sull'urbanizzazione in Italia. Le immagini satellitari di quello studio, ancora una dozzina di anni fa, lasciavano intatta l'ipotesi che il progetto potesse ristrutturare e risostanziare il territorio. Già qualche anno dopo, allorché Arturo Lanzani ha condotto la ricognizione presentata in Paesaggi italiani (Meltemi 2003), tale opzione si era di molto ridotta.

Nelle applicazioni attuali (come risulta dai rapporti «Itater 2020»), gli stessi spazi che si riteneva di poter reinterpretare in termini di sviluppo locale, ancora giocando sul ridisegno di scenario, risultano rozzamente ingombri, drammaticamente degradati. E analoga traiettoria prospetta l'iniziale feeling positivo di Koolhaas per il Junkspace, che adesso fa posto a uno sguardo preoccupato e a una attitudine progettuale minimale.

Oggi la diffusione insediativa americana assomiglia alla città diffusa europea: ambedue hanno cancellato o banalizzato molti valori e risorse del patrimonio ambientale. Sprawltown è dovunque nell'occidente «avanzato». Contemporaneamente nel sud del mondo, da Lagos a Città del Messico, da Shanghai a San Paolo, imperversa Megalopoli, con i suoi slum, le sue miserie, le sue emergenze, i suoi rifugiati e sfollati.

Simboli in decadenza

Qualche anno fa Michele Sernini, studioso appassionato e rigoroso, aveva proposto un titolo forse inconsapevolmente predittivo per uno dei suoi ultimi studi: la città nel dominare il territorio si è disfatta ( La città disfatta, Franco Angeli 1988). E disfacendosi, ha perso la sua identità di simbolo del progresso moderno, come hanno aggiunto altri autori. Dunque le teorie vanno riviste, secondo il lascito di Pierre George. Oggi osserviamo la città consapevoli che il senso di progresso e modernità, evocato da questo termine, si è dissolto.

Forse paesaggio è un nuovo concetto che può «educare alla speranza», anche di un progresso più consono alle istanze contemporanee degli abitanti (non si usa volutamente la parola sviluppo). Allora la «città della Piana», la «metropoli dello Stretto», la «media città toscana», la «megacittà padana», in cui ancora Itaten, dodici anni fa, e Lanzani, qualche tempo dopo, riscontravano un senso di libertà («perché vai a stare nella tua casetta a Dalmine, arrivi quando vuoi e ti sposti con la macchina») come orizzonti positivi, sono tramontate. Lo stesso Lanzani, di recente, ha espresso un'opinione abbastanza diversa.

Di certo più radicali sono i pareri di alcuni sociologi e antropologi che studiano la Padania e si spingono fino a correlare la distruzione dei valori del paesaggio e del territorio e la produzione di ricchezza - comunque in contrazione - da multiabuso, sociale, fiscale e ambientale, alla produzione di violenza intramoenia, anche nell'ambito delle famiglie. La perdita di senso dei luoghi e degli spazi corrisponderebbe e favorirebbe il vuoto e la generazione di mostri nella vita di ognuno.

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