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Antonio Spallino
Cari sindaci, il paesaggio è “in prestito”
10 Settembre 2007
Articoli del 2006-2007
Dura e motivata critica di un ex sindaco ai comuni di oggi e al legislatore della Lombardia. Da La Provincia di Como, 09 settembre 2007

«Paesaggio ferito». Non solo un'inchiesta giornalistica per mostrare gli scempi che stanno trasformando un ambiente unico come quello di Como e del suo lago, ma anche interventi e riflessioni di personaggi che amano questa terra. Cominciamo con l'articolo dell'avvocato AntonioSpallino, già illustre sindaco di Como.

«Da quando, a tuo giudizio, si è manifestata una sensibilità nei confronti del paesaggio?». Scritta nel questionario consegnato il 29 agosto scorso ai docenti, ai giuristi, ai magistrati, agli operatori di mezza Europa partecipanti alla quarta edizione dell'Università d'eté - colloqui di Arosio sul Paesaggio, svoltasi a Erba, la domanda sembrava illividire dinnanzi alla documentazione raccolta dalla giornalista de La Provincia Sara Bracchetti e dal fotografo su molteplici iniziative edilizie visibilmente lesive del patrimonio paesistico delle sponde del nostro lago. L'iniziativa del direttore del quotidiano (Giorgio Gandola, Il ballo del mattone sul lago, del 26 agosto 2007) ha infatti portato allo scoperto il tessuto nervoso del fenomeno. Sembra di essere ritornati agli anni Cinquanta quando l'impetuosità della ricostruzione del Paese aveva contagiato anche l'area della rendita edilizia. Allora, in un contesto privo di pianificazione territoriale o solcato da sedicenti piani urbanistici, si poteva costruire per il triplo, il quadruplo, il decuplo delle esigenze ragionevolmente prevedibili nell'arco di un decennio. Questa è la Storia scritta, per esempio, da Leonardo Borgese nel volume L'Italia rovinata dagli italiani [...] 1946-70.

Oggi, quali sono le cause delle nuove inciviltà? Come affrontarle in sede locale? E qual è l'atteggiamento dei legislatori? Il tema è ovviamente di natura giuridica-normativa. Ma, forse meno ovviamente, esso è ancor prima culturale ed etico. Scorrendo la documentazione informativa e fotografica raccolta con efficace rigore ci si sente disputati tra stupefazione, amarezza, indignazione. La prima riflessione va ai piani regolatori urbanistici, generali e attuativi. Se, come è da presumere sino a prova contraria, le strutture fotografate e commentate sono "conformi" alle norme locali, i piani che le hanno permesse sono stati votati da amministratori consapevoli, cioè prevedendo gli effetti che essi avrebbero potuto produrre sull'ambiente circostante? Ciascun osservatore può porsi da sé le domande, inquietanti. Quei piani sono figliastri di amministratori pubblici locali subornati dalla ideologia dei "padroni in casa nostra"? O mal consigliati da tecnici sensibili più alla suggestione del ruolo di demiurgo che al dovere di servire la collettività attuale e in divenire? O, altrimenti, vittime dell'arrendevolezza al sapore del fare un piacere al prossimo? La responsabilità di coloro, quei piani, li hanno varati è enorme, anche perché irreparabile. Quei piani mettono a rischio anche «la memoria del futuro» (Stille) in una società nella quale la manifestazione di certa globalizzazione cancella le identità locali.

Perciò, non appena constatati i guasti derivati dalla (anche soltanto parziale) attuazione dei piani, o soppesati i guasti prevedibili, si sarebbe dovuto avviare con immediatezza la revisione dello strumento pianificatorio, per riprendere il governo sociale culturale del territorio, comprensivo del paesaggio. Non risulta che ciò sia avvenuto; e non ci si può giustificare a posteriori adducendo il fatto che la nuova legge urbanistica regionale n.12 del 2005 prevede che i Comuni sostituiscano i Pru con i nuovi strumenti in essa prescritti. In questo campo il dovere di agire tocca anzitutto ai sindaci, in quanto massimi esponenti della comunità di base.

Non si pretende dall'assessore comunale all'urbanistica o dal sindaco di essere urbanisti. Quella dell'urbanistica è materia interdisciplinare, che implica cognizioni di pianificazione territoriale e di architettura, di sociologia e di modellistica ambientale. Ciò che si pretende dall'amministratore pubblico è quel «primato del cuore, cioè della coscienza etica individuale» pronta a percepire e a difendere il bene comune, trascendendo i condizionamenti materiali e sociali, a prendere le distanze della situazione in cui è inserita, per interrogarsi sempre di nuovo sul senso del proprio agire. È questo il duro nucleo dell'esercizio del dovere-potere amministrativo.

Se non è sufficientemente forte la capacità di «conservare la memoria delle radici da cui proveniamo»; di «recuperare e sviluppare un atteggiamento contemplativo che renda sensibili agli appelli provenienti dalla realtà» naturale ed umana; di «conciliare potere e giustizia», allora è facile smarrire il senso della posizione umana, morale, spirituale, dell'amministratore: in altri termini, l'etica del lavoro pubblico. «Nessun paragrafo» di legge,«nessuna autorità può essere d'aiuto, se l'uomo non sente che la res publica, il bene comune di una esistenza umana libera e dignitosa è affidato nelle sue mani. Da qui nasce la fedeltà alle cose [...]». «Poter governare significa, dunque [...], ritrovare sempre quella misura così minacciata su cui dovrà poggiare [...] il benessere di tutti» (Guardini R. - il teologo tedesco che ha scritto anche Lettere dal Lago di Como - Il potere, 1951, commentato da Martini C.M., Responsabilità degli amministratori e Esiste un'etica del lavoro pubblico? pubblicati in “Verso la città”, 1984.

L'URBANISTICA: DALLA REGIONE AI COMUNI

La legislazione urbanistica, di stampo populistico o, ottimisticamente, ingenuo, emanata dalla Regione Lombardia a partire dalla prima metà degli anni Ottanta, ha rassegnato, progressivamente, tutti o quasi i poteri ai Comuni all'insegna della «semplificazione, economicità ed efficacia». Ciò non ha aiutato certi amministratori a resistere alle pressioni o alle ambizioni locali. Nel nostro paese, purtroppo, più il livello decisionale è prossimo o contiguo agli interessi economici di taluni privati, più è alto il rischio di smarrire le finalità dell'esercizio del potere-dovere urbanistico. A quanti facevano presente il rischio di veder ripetere i disastri degli anni cinquanta, veniva replicato assiomaticamente che i Comuni «erano cresciuti» in senso di responsabilità e in cultura urbanistica. Gli spettacoli fotografati e censiti da questo giornale provano il contrario, nel caso dei Comuni esaminati lungo le sponde lacuali. La ricerca annunciata sulle "conurbazioni" della Bassa, darà, verosimilmente, analogo esito. È vero che nella pratica quotidiana si è stabilito un diffuso appiattimento della sensibilità, se non, addirittura, una strisciante ostilità (penso, per esempio, a certe voghe del mal vestire tra i giovani) verso l'idea di stile che a ciascuna epoca si forma. Ma è altrettanto vero che proprio la regione Lombardia, nell'esemplare Progetto di Piano Territoriale Paesistico Regionale del 1990 elaborato da tecnici e da studiosi di primo piano - quel progetto, peraltro, non fu mai approvato in sede politica - aveva sottolineato che «l'esigenza di tutelare la fruizione visiva del bene e del paesaggio è fondamentale in quanto, grazie ad essa, il cittadino sente o trova quei riferimenti che lo legano al territorio [?]» . «La pianificazione mira essenzialmente a tutelare questi scenari ed i loro elementi costitutivi in quanto riferimenti dell'identità lombarda, della sua stessa immagine estetica» (Regione Lombardia, Progetto di Ptpr, all. 2, Indirizzi normativi).

Nel luglio del 1996 la Giunta regionale aveva confermato questi principî su proposta dell'assessorato all'Urbanistica. Alla luce di queste premesse appare ancor più sconcertante il fatto che, neppure un anno dopo, la stessa Regione abbia sguarnito i Comuni dei presidi istituzionali sovraordinati - leggasi: le Soprintendenze - che garantivano, per competenza storica, l'oggettiva tutela del paesaggio. Ed è risultato impertinente - verrebbe fatto di dire «Senti chi parla...» mutuando il titolo di un recente volume sulle incoerenze di tanti «protagonisti» della nostra vita politica - l'inflazionato appello al principio di sussidiarietà recitato nel preambolo della legge regionale n. 18 del 1997, intitolata «Riordino delle competenze [?] in materia di tutela dei beni ambientali [?]. Subdeleghe agli enti locali».

Nella interpretazione filosofica e giuridica esso esprime il concetto per cui una autorità centrale avrebbe una funzione meramente di supporto nei campi in cui le autorità locali siano in grado di svolgere da sé certi compiti. L'esperienza di un decennio - il caso di Blevio è paradigmatico, nonostante l'espediente di giustificare il disastro dal compendio con una giustificazione «agronomica» (sic) - ha posto in luce meridiana il fallimento, quantomeno nei casi noti, della scelta politica di sostituire alle Soprintendenze i cosiddetti «esperti locali» con il conseguente potere di sbarazzersene se avessero espresso «pareri» non graditi, e di attribuire al Sindaco ogni potere in materia paesistica.

LA TUTELA DEL PAESAGGIO: EUROPA E ITALIA

Nel frattempo, il Consiglio d'Europa ha adottato la Convenzione Europea per il Paesaggio, e l'ha «aperta alle firme» degli Stati. L'Italia l'ha fatta propria nel maggio del 2006. Nell'esprimere parere favorevole, le competenti commissioni della nostra Camera dei Deputati, hanno sottolineato l'importanza della «più larga accezione del termine "paesaggio"» [...] «definito come parte di territorio, così come è percepito dalle popolazioni» [?] quale componente fondamentale dell'identità europea e del suo patrimonio naturale e culturale [?] nonché come parte integrante della vita delle popolazioni ed elemento imprescindibile della loro stessa qualità di vita». Contestualmente, essi hanno rimarcato che «la previsione dell'impegno dei paesi ad accrescere la sensibilizzazione dei diversi attori sociali rispetto ai valori paesaggistici, anche promuovendo la formazione di specialisti del settore, nonché programmi interdisciplinari di formazione e appositi insegnamenti volti all'educazione di valori del paesaggio e una approfondita conoscenza delle sue caratteristiche, in ambito scolastico e universitario». [...] «La promozione delle politiche paesistiche», concludeva il relatore, «è rafforzata anche dalla introduzione di un meccanismo premiale per le autorità locali e regionali e le organizzazioni non governative che si siano distinte nella messa in campo di misure esemplari e durevoli volte alla tutela e all'organizzazione dei paesaggi».

IL LEGISLATORE LOMBARDO: IL GRANDE ASSENTE

Attese tutte queste circostanze, dunque, come si giustifica l'indifferenza del legislatore lombardo per quanto sta accadendo? Altre riflessioni dovrebbero farsi sullo stato della legislazione nazionale, cominciando, a mio avviso, alla legge comunale e provinciale. In nome di un efficientismo che non necessariamente equivale ad efficienza il legislatore ha svalorizzato la possibilità di concorso effettivo di tutti i consiglieri alla formazione di alcune scelte pianificatorie e ha iperpotenziato le funzioni dei sindaci e degli assessori. I rischi che ne scaturiscono sono concreti là dove non governino sensibilità, autocritica e ricerca del sapere da condividere con l'intero consiglio. Lo spazio disponibile non consente di andare oltre.

LA CITTÀ E I SUOI VALORI

«La storia appartiene [...] a colui che sa conservare e venerare [...] le condizioni in cui è nato per coloro che verranno dopo di lui, e in questo modo serve la vita. Un'anima simile, più che proprietaria sarà proprietà del patrimonio degli avi» (Nietzsche, Considerazioni sulla storia). Esiste un profilo etico, della lettura della città così come del paese, che sovente ci sfugge e che l'affermazione di Nietzsche invece richiama. La città è più di uno scambio di beni. La città «vivente», la città «armoniosa» di Peguy (Marcel, Premier dialogue de la cité harmonieuse) è quella che sa «mettere in comune le persone intorno alle sue radici - la memoria collettiva nelle pietre e nella natura - e intorno alla forma del suo futuro - il progetto partecipato -. Non è soltanto un fatto estetico, è un fatto sociale quello che istituisce il legame comunitario capace di costruire nei cittadini il «senso di appartenenza» a quel luogo. Altrimenti, anche abitando in quel sito, ci si sente soli ed estranei. La città, così intesa, è lo spazio e il tempo che sono necessari allo sviluppo delle persone secondo alcuni valori. La bellezza è tra di essi. Non la bellezza come spettacolo osservato passivamente ma la bellezza come una delle funzioni per convivere.

«Consumare» la città è contemplarla attivamente, è dedicarsi ad essa, entrare in dialogo con essa, ascoltare cosa ti dice. Nel vissuto quotidiano, non potrebbe spiegarsi altrimenti il sentimento di fierezza che provano coloro i quali la vivono con quell'atteggiamento quando ne sentono gli elogi, e il sentimento di amarezza che patiscono quando ne ascoltano i biasimi. L'uomo che non si mette al servizio di questa convivenza, che non condivide questa storia, non può scoprire il prossimo, e quindi sé stesso e la città e la sua anima. L'ideologia dello sviluppo quantitativo - produrre di più per consumare di più, secondo una legge di preteso «progresso illimitato» della quale stiamo patendo i costi, ad esempio con i mutamenti climatici, la liquefazione dei ghiacciai, la desertificazione di vaste aree - non permette di comprendere la totalità del senso della vita, e quindi l'anima della città nel tempo. «Vivere in dialogo con la città»: questo fa della città un bene pubblico, indipendentemente dalla proprietà dei singoli edifici dei privati (J.Comblin, Théologie de la ville, 1970).

Invertiamo i termini impiegati da Nietzsche: siamo consapevoli di essere gli «antenati» dei nostri discendenti ? E, come tali, di essere i «legatari» non i proprietari delle bellezze culturali e naturali che, senza titolo, abbiamo ricevuto in dote? E di avere quindi il dovere morale di trasmetterle ai nostri figli, quelle ricchezze, possibilmente accresciute? Ce lo ricordava oltre seicento anni fa Santa Caterina da Siena, oggi Patrona d'Italia e d'Europa, nell'esortazione inviata a quindici «Signori Difensori del Comune» (Lettera 121). E incalza: «Vogliate che la margarita» (la perla) «della giustizia sempre riluca nei petti vostri, levandosi da ogni amor proprio, attendendo al bene universale della vostra città, e non propriamente al bene particolare di voi medesimi. "Perocchè, colui che ragguarda solamente a sé, non osserva la giustizia, anco, la trapassa, e commette molte ingiustizie [ ? ]». «Questi tali, dunque, non son buoni né atti a governare altrui, perché non governano loro». Nella concezione spirituale della santa, la città terrena non è un possesso di chi l'amministra. Essa è una «città prestata». «Colui che signoreggia sé, la possederà come "cosa prestata" e non come cosa sua. Guarderà la prestanza della signorìa che gli è data con reverenza di colui che gliela diè [?] Or con un [?] vero timore voglio che la possediate [?] come cosa prestata. (Lettera 372). «Adunque, per verune signoríe che abbiamo in questo mondo, ci possiamo reputare signori. Non so che signorìa possa essere quella che mi può essere tolta, e non sta nella mia libertà» (Lettera 28). Il monito varrà almeno per il futuro?

L’articolo è stato segnalato dalla redazione del sito PatrimonioSOS, che si ringrazia

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