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Luigi Scano
2005. Alcuni effetti e alcuni pasticci della “Legge Lupi”
20 Giugno 2007
Scritti di Gigi Scano
Un’analisi per eddyburg del Pasticcio di Legge firmato dall’on. Lupi a proposito di due temi: territorio non urbanizzato e di beni culturali

Relativamente alla materia denominata “governo del territorio” la Camera dei Deputati ha approvato, com’è noto, il 28 giugno 2005, un disegno di legge recante i relativi “principi”, che tutto, dal testo base assunto al relatore, legittima a continuare a chiamare, come nel gergo corrente, “legge Lupi”, e che attualmente si trova trasmesso dal Presidente della Camera a quello del Senato in data 29 giugno 2005 (Atti Senato n.3519). Di seguito si analizzano due aspetti del ddl, relativi a due aspetti, rilevanti anche ai fini degli argomenti che saranno tratti nelle “scuola estiva di Eddyburg” del settembre prossimo: il territorio non urbanizzato e i beni culturali. Su questo secondo argomento ci si intratterrà con maggiore ampiezza, anche per il carattere particolarmente ambiguo, contraddittorio e oscuro del testo legislativo. (in calce il testo in formato -pdf)

Il governo del territorio e il territorio non urbanizzato

All’articolo 6 del suddetto disegno di legge, attinente in genere alla pianificazione territoriale, ma nel contesto dei commi relativi al “piano urbanistico” comunale, si afferma che “nell'ambito del territorio non urbanizzato si distingue tra aree destinate all'agricoltura, aree di pregio ambientale e aree urbanizzabili”(comma 5), e altresì che “nelle aree destinate all'agricoltura e nelle aree di pregio ambientale la nuova edificazione è consentita solo per opere e infrastrutture pubbliche e per servizi per l'agricoltura, l'agriturismo e l'ambiente. Nelle aree urbanizzabili gli interventi di trasformazione sono finalizzati ad assicurare lo sviluppo sostenibile sul piano sociale, economico e ambientale” (comma 6).

Salvo intervento precettivo autonomo della legislazione regionale, ovvero della pianificazione sovraordinata al “piano urbanistico” comunale, nulla pertanto orienterebbe il medesimo “piano urbanistico” comunale nel ripartire il territorio non urbanizzato nelle tre categorie delle aree destinate all’agricoltura, delle aree di pregio ambientale e delle aree urbanizzabili. Si vuol dire che, nel rispetto dei “principi fondamentali” della legge statale in materia di “governo del territorio”, ove il disegno di legge puntualmente succitato divenisse tale nelle sue attuali formulazioni, le aree urbanizzabili definite dal “piano urbanistico” comunale potrebbero interessare qualsiasi percentuale del territorio presentemente non urbanizzato, sia in prevalente condizione naturale sia oggetto di attività agricola o forestale, il quale, assegnato all’una o all’altra delle altre due categorie previste, potrebbe vedersi ridotto in termini puramente residuali: lacerti di verde in un territorio pressoché totalmente urbanizzato e urbanizzabile (essendo comunque anche il secondo produttivo di indebite rendite sia assolute che relative, secondo il gioco dell’ontologicamente distorto “mercato” immobiliare).

In secondo luogo, non è dato intendere cosa dovrebbe distinguere le aree destinate all’agricoltura dalle aree di pregio ambientale, dato che in entrambe è indifferentemente previsto possa realizzarsi “la nuova edificazione […] per opere e infrastrutture pubbliche e per servizi per l'agricoltura, l'agriturismo e l'ambiente”.

Sotto il primo, e più rilevante, profilo, in un Paese che ha visto, nell’ultimo cinquantennio del secolo scorso e nei primi anni di questo, il proprio territorio in prevalente condizione naturale ovvero oggetto di attività agricola o forestale sia urbanizzato ed edificato in misura variabilmente multipla a quella in cui in fenomeno si era prodotto in tutta la precedente vicenda storica, sia oggetto di “rururbanizzazione”, o “svillettamento” che dir si voglia (tanto sono entrambi termini orrendi come ciò che vogliono significare), sarebbe decisamente il caso che la legge statale recante i “principi” del “governo del territorio” si facesse carico di perseguire (seppure nei suoi limiti di efficacia non immediata) la preservazione pressoché totale del rimanente territorio non urbanizzato.

E’ quindi da caldeggiarsi l’accoglimento della proposta, avanzata da “Italia Nostra” per cui il territorio presentemente non urbanizzato, individuato come non interessabile da nuovi insediamenti di tipo urbano, o da ampliamenti di insediamenti esistenti, dagli strumenti urbanistici vigenti, modificabili per questo aspetto soltanto d’intesa con la competente Soprintendenza, dovrebbe essere qualificato bene paesaggistico in forza di legge, conseguendone ogni relativo effetto.

Ma non basta. Una appena dignitosa legge statale afferente al “governo del territorio” dovrebbe sancire il “principio fondamentale”, gia presente nella legislazione di alcune Regioni (basti ricordare, per la particolare icasticità della formulazione, quella della Regione Toscana), per cui l’utilizzazione del territorio ancora non urbanizzato al fine di realizzare nuovi insediamenti di tipo urbano o ampliamenti di quelli esistenti, ovvero nuovi elementi infrastrutturali, nonché attrezzature puntuali, può essere definita ammissibile, negli strumenti di pianificazione, esclusivamente ove non sussistano alternative di riuso e di riorganizzazione degli insediamenti e delle infrastrutture esistenti.

La medesima legge statale dovrebbe altresì dettare alcuni essenziali “principi” direttamente afferenti alla disciplina pianificatoria del territorio non urbanizzato.

Dovrebbe stabilire che le leggi regionali assicurino che in tale territorio non urbanizzato gli strumenti di pianificazione non consentano nuove costruzioni, né demolizioni e ricostruzioni, o consistenti ampliamenti, di edifici, se non strettamente funzionali all'esercizio dell'attività agro-silvo-pastorale, nel rispetto di precisi parametri rapportati alla qualità e all'estensione delle colture praticate e alla capacità produttiva prevista, come comprovate da piani di sviluppo aziendali o interaziendali, ovvero da piani equipollenti previsti dalle leggi. I predetti parametri dovrebbero determinare l’entità massima dell’ammissibile edificazione, sia di abitazioni rurali che di annessi rustici, comprensiva di quella preesistente, destinata a tali due tipi di utilizzazione, nei fondi delle aziende agricole interessate.

Alle leggi regionali dovrebbe inoltre essere richiesto di prevedere che le trasformazioni appena sopra indicate siano assentite previa sottoscrizione di apposite convenzioni nelle quali sia prevista la costituzione di un vincolo di inedificabilità, da trascrivere sui registri della proprietà immobiliare, fino a concorrenza della superficie fondiaria per la quale viene assentita la trasformazione, nonché l'impegno a non operare mutamenti dell’uso degli edifici, o delle loro parti, attivando utilizzazioni non funzionali all’esercizio delle attività agro-silvo-pastorali, e a non frazionare né alienare separatamente i fondi per la parte corrispondente all'estensione richiesta per la trasformazione ammessa.

Sempre alle leggi regionali dovrebbe essere affidato il compito di disciplinare altresì le trasformazioni ammissibili dei manufatti edilizi esistenti con utilizzazioni in atto non strettamente funzionali all’esercizio delle attività agro-silvo-pastorali, limitandole a quelle di manutenzione, di restauro e risanamento conservativo, di ristrutturazione edilizia senza ampliamenti, ovvero con ampliamenti fortemente contenuti. E anche quello di disciplinare i mutamenti dell’uso dei manufatti edilizi esistenti, fermo restando che nei casi di attivazione di utilizzazioni funzionali all'esercizio dell'attività agro-silvo-pastorale dovrebbero valere le disposizioni attinenti le omologhe trasformazioni fisiche. E soprattutto essendo stabilito dalla legge statale (assumendo un’interessante innovazione della legislazione toscana) che sia prevista la demolizione dei manufatti edilizi già utilizzati come annessi rustici, qualora perdano la destinazione originaria e per la parte in cui abbiano entità dimensionale eccedente le determinazioni delle leggi o degli strumenti di pianificazione, e siano privi di interesse anche soltanto storico-testimoniale.

Dovrebbe infine essere in ogni caso previsto che siano disposte ulteriori limitazioni, fino alla totale intrasformabilità, relativamente al territorio non urbanizzato, o a sue definite articolazioni, per ragioni di fragilità del territorio, ovvero per finalità di tutela del paesaggio, dell'ambiente, dell'ecosistema, dei beni culturali e dell’interesse storico-artistico, storico-architettonico, storico-testimoniale, del patrimonio edilizio esistente.

Il governo del territorio e il patrimonio culturale

A norma dell’articolo 9, rientrante tra i “principi fondamentali”, della Costituzione della Repubblica italiana “la Repubblica […] tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”.

Quand’anche l’esame e la valutazione degli atti formativi di un atto avente forza di legge (o di legge fondamentale, come in questo caso) siano un criterio esegetico tutt’al più residuale, vale la pena di ricordare come la formulazione ora riportata sia stata decisivamente condizionata, all’Assemblea costituente, da un emendamento proposto da Emilio Lussu (notoriamente uno tra i più accesi regionalisti e autonomisti) tendente a sostituire la parola “Repubblica” alla parola “Stato” caratterizzante nelle precedenti versioni il precetto succitato. L’intendimento dell’emendamento presentato da Lussu, infatti, non poteva che leggersi alla luce dell’asserzione, gia presente, al momento dei fatti che si rammentano, nel progetto di Costituzione elaborato dal Comitato di redazione, per cui “la Repubblicasi riparte in Regioni e Comuni”. Con la sua proposta, cioè, Lussu voleva non già traslare i compiti della “tutela” dallo Stato alle Regioni e egli enti locali, ma istituire competenze concorrenti.

Presentemente, la Costituzione della Repubblica italiana, come novellata, al suo Titolo V, dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n.3, afferma, al primo comma dell’articolo 114, che “la Repubblicaè costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato”. Anche in ragione del criterio, accolto pacificamente da tutta la dottrina e la giurisprudenza costituzionalistica, per cui, in caso di supposto contrasto tra un “principio fondamentale” della Costituzione e un altro suo dettato, o di dubbio esegetico circa i contenuti di un precetto costituzionale non rientrante tra i “principi fondamentali”, si deve prescegliere l’interpretazione che possa accordarsi con i “principi fondamentali”, occorre convenire che, checché affermino i disposti puntuali del Titolo V della Costituzione (per non dire della legislazione ordinaria) in merito alle competenze dei soggetti istituzionali che compongonola Repubblica, non uno di tali soggetti può essere deprivato di ogni competenza finalizzata alla tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione. La qual cosa non implica affatto distribuzione delle medesime competenze a tutti i soggetti istituzionali enumerati, né equiordinazione delle competenze (cioè, in parole povere, mancata identificazione di una sequela di decisori in ultima istanza), ma, per l’appunto, puramente e semplicemente, obbligo di modulare le competenze in termini tali per cui tutti i soggetti istituzionali enumerati concorrano alla finalità costituzionalmente posta, e affidata alla Repubblica.

Del resto, in epoca antecedente alla concreta costituzione delle Regioni, e in presenza di una temperie cultural-politica tutt’altro che accentuatamente “autonomistica” (per non parlare di “federalismo”), nel riformulare, con l’articolo 1 della legge 19 novembre 1968, n.1187, l’articolo 7 della legge urbanistica 17 agosto 1942, n.1150, si inserirono tra i contenuti dei piani regolatori generali comunali “i vincoli da osservare nelle zone a carattere storico, ambientale, paesistico”. Con ciò nemmeno sognandosi di intaccare le competenze statali in argomento di tutela delle “cose d’interesse artistico e storico” (cioè dei “beni culturali”) di cui alla legge 1° giugno 1939, n.1089, e delle “bellezze naturali” (cioè del “paesaggio”, o dei “beni ambientali”, o dei “beni paesaggistici” che dir si sia detto, e si voglia dire) di cui alla legge 29 giugno 1939, n.1497.

Una volta concretamente costituitesi le Regioni, poi, pure nel clima, lungamente perdurato, di un’occhiuta vigilanza del Governo dello Stato in merito alle (vere o supposte) “evasioni” della produzione legislativa regionale dall’elenco tassativo delle sue competenze stilato dal primo comma dell’articolo 117 della Costituzione allora vigente (si pensi soltanto alle controversie in argomento di attività economiche), non risultano peculiarmente contestate le disposizioni dettate dalla legislazione di quasi tutte le regioni circa la tutela, da assicurarsi nella pianificazione (della stessa Regione, delle province, dei comprensori –finché ne durò la moda-, dei comuni), sia delle componenti territoriali paesaggisticamente e/o ambientalmente rilevanti che degli elementi territoriali di interesse storico-archeologico, storico-artistico, storico-architettonico, storico-testimoniale.

Allorquando, nel contesto di una larga e consapevole maturazione di un atteggiamento assai più equilibrato tra istanze “centralistiche” e istanze “autonomistiche”, verso la fine degli anni ’70 del secolo scorso, si ridisegnarono complessivamente le competenze e le funzioni amministrative dello Stato, delle Regioni e degli enti locali, si provvide tra l’altro, con l’articolo 80 del decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n.616, a definire la latitudine della materia “urbanistica”, rientrante tra quelle per le quali, a norma del primo comma dell’articolo 117 dell’allora vigente Costituzione, “la Regione emana […] norme legislative nei limiti dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato”. Ai sensi di tale definizione, la suddetta materia concerne “la disciplina dell’uso del territorio comprensiva di tutti gli aspetti conoscitivi, normativi e gestionali riguardanti le operazioni di salvaguardia e di trasformazione del suolo nonché la protezione ambientale”. Ciò non impedì che, alcuni anni appresso, in materia di tutela del “paesaggio” (ovvero di “zone di particolare interesse ambientale”, come allora le si denominò) venissero emanate disposizioni legislative anche – e soprattutto – immediatamente operative e direttamente precettive, con il decreto legge 27 giugno 1985, n.312, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1985, n.431 (meglio nota come “legge Galasso”). E men che meno impedì che le ora citate disposizioni legislative statali fossero dichiarate, dalle sentenze della Corte costituzionale 24 giugno 1986, n.151 e n.153, perfettamente legittime.

In tempi assai più recenti, il decreto legislativo 22 gennaio 2004, n.42, recante “Codice dei beni culturali e del paesaggio” (e più noto come “Codice Urbani”), si è premurato di proclamare che “in attuazione dell’articolo 9 della Costituzione, la Repubblica tutela e valorizza il patrimonio culturale in coerenza con le attribuzioni di cui all’articolo 117 della Costituzione” (articolo 1, comma 1) e che “il patrimonio culturale è costituito dai beni culturali e dai beni paesaggistici” (articolo 2, comma 1).

Per ragionare sulla portata di tali disposizioni è opportuno premettere che, nel frattempo, con la già citata legge costituzionale 3/2001, è stata operata la mai abbastanza vituperata (a giudizio di chi stila queste note) riscrittura del Titolo V della Costituzione. Ai sensi di tale riformulazione della carta costituzionale, che ripropone, esaltandolo, il criterio dell’attribuzione delle competenze (legislative, e conseguentemente amministrative) per “materie” differenziate, rigidamente enunciate ed elencate, appartengono, a norma del novellato articolo 117, alla legislazione esclusiva dello Stato, tra l’altro, la “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”(comma 2, lettera s.), mentre è materia di legislazione concorrente (in cui “spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato”), tra l’altro, il “governo del territorio” (comma 3), fermo restando che “spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento a ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato” (comma 4).

C’è quindi da chiedersi se il “Codice Urbani”, costruendo nei termini sopra riportati l’unitaria nozione di patrimonio culturale, non abbia richiamato (o inteso richiamare) anche la tutela del paesaggio nell’ambito delle competenze legislative esclusive dello Stato. La risposta (almeno circa gli effetti raggiunti, impregiudicate restando le intenzioni) non può che essere negativa. Il che può asserirsi (trascurando altri più sofisticati ragionamenti) per una motivazione sostanziale: le disposizioni della Parte terza del decreto legislativo 42/2004, attinenti ai “beni paesaggistici”, non possono, in ragione dei propri contenuti, trovare concreta applicazione, quantomeno con riferimento alla pianificazione paesaggistica (ma in realtà in termini ben più estesi), in assenza di una produzione legislativa regionale che specifichi, dettagli, renda operativi i precetti attinenti ai contenuti, agli elementi costitutivi, ai procedimenti formativi, alle efficace, di tale pianificazione paesaggistica. Ne discende che, volendo incasellare i prodotti legislativi nel rigido schema del novellato articolo 117 della Costituzione, le disposizioni del “Codice Urbani” attinenti ai “beni paesaggistici” sono ascrivibili piuttosto alla materia a legislazione concorrente denominata “governo del territorio”, anziché alla materia a legislazione esclusiva (dello Stato) denominata “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”. Occorrerebbe riconoscere che tali disposizioni, pur configurandosi come “principi fondamentali”, sono peculiarmente ricche di specificazioni, ma ciò non dovrebbe recare scandalo, quanto piuttosto indurre a convenire, anche alla luce della consolidata esperienza di altri stati europei ad assetto “federale”, che nei campi delle materie a legislazione concorrente non è affatto detto che i “principi” della legislazione dello stato federale debbano corrispondere ad affermazioni generali, generiche e vacue.

Relativamente alla materia denominata “governo del territorio” la Camera dei Deputati ha approvato, com’è noto, il 28 giugno 2005, un disegno di legge recante i relativi “principi”, che tutto, dal testo base assunto al relatore, legittima a continuare a chiamare, come nel gergo corrente, “legge Lupi”, e che attualmente si trova trasmesso dal Presidente della Camera a quello del Senato in data 29 giugno 2005 (Atti Senato n.3519)

Secondo tale disegno di legge “il governo del territorio consiste nell'insieme delle attività conoscitive, valutative, regolative, di programmazione, di localizzazione e di attuazione degli interventi, nonché di vigilanza e di controllo, volte a perseguire la tutela e la valorizzazione del territorio, la disciplina degli usi e delle trasformazioni dello stesso e la mobilità in relazione a obiettivi di sviluppo del territorio. Il governo del territorio comprende altresì l'urbanistica, l'edilizia, l’insieme dei programmi infrastrutturali, la difesa del suolo, la tutela del paesaggio e delle bellezze naturali, nonché la cura degli interessi pubblici funzionalmente collegati a tali materie” (articolo 1, comma 2). La frase evidenziata in corsivo è frutto di uno dei pochi emendamenti accolti tra quelli proposti dai deputati dell’opposizione di centrosinistra (nella fattispecie dall’on.Sandri e altri), e di tale accoglimento tale schieramento pare vada particolarmente orgoglioso e soddisfatto.

Resta il fatto che il comma immediatamente successivo dello stesso articolo recita che “la potestà legislativa in materia di governo del territorio spetta alle regioni,salvo che per la determinazione dei principi fondamentaliead esclusione degli aspetti direttamente incidenti […] sulla tutela dei beni culturali e del paesaggio […]”. La dizione in questo caso evidenziata in corsivo è parte integrante del disegno di legge originario, non è stata corretta, e appare sommamente equivoca, e potenzialmente contraddittoria con il dettato del comma immediatamente precedente. Vorrebbe significare che la legislazione regionale che attenga il paesaggio, e anche i beni culturali, non può contraddire la legislazione, anche di dettaglio, emanata in materia dallo Stato? non vi sarebbe nulla da obiettare, se non che la forma espressiva è particolarmente oscura. Vorrebbe invece significare che è inibito alla legislazione regionale (per non dire della susseguente attività amministrativa, segnatamente pianificatoria) avere a proprio oggetto la tutela dei beni culturali, e financo del paesaggio, dettando prescrizioni immediatamente operative e direttamente precettive? Sarebbe inaccettabile per contrasto, oltre che con l’articolo 9 (“principio fondamentale”) della Costituzione, come dianzi esposto e commentato, anche con la ragionevolezza in genere, e con quella che deve presiedere l’attribuzione e l’esercizio delle competenze dei soggetti istituzionali in particolare.

La possibile equivocabilità, e la presumibile contraddittorietà, di disposizioni del medesimo disegno di legge, è accentuata se si pone attenzione al dettato del comma 3 dell’articolo 6, per cui “il piano urbanistico è lo strumento di disciplina complessiva del territorio comunalee deve ricomprendere e coordinare, con opportuni adeguamenti, ogni disposizione o piano di settore o territoriale concernente il territorio medesimo. Esso recepisce le prescrizioni e i vincoli contenuti nei piani paesaggistici, nonché quelli imposti ai sensi delle normative statali in materia di tutela dei beni culturali e del paesaggio”. Significa che la legislazione regionale deve stabilire che il “piano urbanistico” si limita a “recepire”, per quanto concerne la tutela dei beni culturali e del paesaggio, i contenuti dei piani paesaggistici, e le prescrizioni dettate direttamente in base alla legislazione di esclusiva competenza statale, oppure che la legislazione regionale, nel fare carico alla pianificazione (anche) comunale di stabilire (magari prioritariamente) le disposizioni volte alla tutela dell’identità culturale del territorio, deve specificare che, ciò facendo, essa deve in primis rispettare la pianificazione paesaggistica, e le eventuali disposizioni immediatamente precettive dettate in base alla legislazione statale?

Ragionevolezza vorrebbe che si propendesse decisamente, e tranquillamente, per il secondo corno del dilemma. Ma non una sola affermazione dell’intero disegno di legge pone la finalità generale della tutela dell’identità culturale del territorio (né della sua integrità fisica, per il vero) come finalità da perseguirsi, anche autonomamente, a opera dell’attività pianificatoria di ogni soggetto istituzionale. E questo già induce a pensar male: il che facendo, diceva un vecchio statista italiano, di norma si fa peccato ma ci s’azzecca….Epperò c’è di più: c’è che il Governo attualmente in carica, espressione della stessa coalizione di maggioranza che ha varato, alla Camera, il disegno di legge in esame (la “legge Lupi”, per capirsi in gergo) ha l’anno scorso presentato ricorso alla Corte costituzionale avverso la legge della Regione Veneto 23 aprile 2004, n.11 (“Norme per il governo del territorio”) per avere tale Regione (governata allora come ora, tra l’altro, da una solida maggioranza omogenea a quella nazionale) previsto, con l’articolo 40 della legge citata, che il piano di assetto del territorio (comunale) determini, con riferimento a tutti gli edifici componenti gli insediamenti urbani storici, a tutti i manufatti edilizi di interesse storico ovunque localizzati, e anche relativamente alle “ville venete”, e a ogni altro edificio di valore monumentale e testimoniale “vincolato” in base alla legislazione statale di settore, “le categorie in cui gli stessi debbono essere raggruppati per le loro caratteristiche tipologiche, attribuendo in tal modo specifici valori di tutela e, quindi, individuando per ciascuna categoria gli interventi e le destinazioni d’uso ammissibili”, la qual cosa veniva considerata “lesiva dell’articolo 117, secondo comma, lettera s), e sesto comma, della Costituzione, che rispettivamente riservano alla potestà legislativa esclusiva dello Stato e alla sua potestà regolamentare la tutela dei beni culturali”.

La Corte costituzionale si è pronunciata con sentenza del 16 giugno 2005, n.232 (dal cui “ritenuto in fatto” sono traslate anche le citazioni del capoverso immediatamente precedente). Dichiarando la questione non fondata.

Infatti, argomenta la Corte, “la tutela dei beni culturali […] è materia che condivide con altre alcune peculiarità. Essa ha un proprio ambito materiale, ma nel contempo contiene l'indicazione di una finalità da perseguire in ogni campo in cui possano venire in rilievo beni culturali. Essa costituisce anche una materia-attività, come questa Corte l'ha già definita (vedi sentenza n. 26 del 2004), condividendo alcune caratteristiche con la tutela dell'ambiente […]. In entrambe assume rilievo il profilo teleologico della disciplina”.

Prosegue la Corte rammentando di avere affermato che “la tutela dell'ambiente, più che una materia in senso stretto, rappresenta un compito nell'esercizio del quale lo Stato conserva il potere di dettare standard di protezione uniformi validi in tutte le Regioni e non derogabili da queste, e che ciò non esclude affatto la possibilità che leggi regionali, emanate nell'esercizio della potestà concorrente di cui all'articolo 117, terzo comma, della Costituzione o di quella residuale di cui all'articolo 117, quarto comma, possano assumere tra i propri scopi anche finalità di tutela ambientale”.

Per converso, sostiene ancora la Corte, ”la materia del governo del territorio, comprensiva dell'urbanistica e dell'edilizia […], rientra tra quelle di competenza legislativa concorrente. Spetta perciò alle Regioni, nell'ambito dei principi fondamentali determinati dallo Stato, stabilire la disciplina degli strumenti urbanistici. Ora, non v'è dubbio che tra i valori che gli strumenti urbanistici devono tutelare abbiano rilevanza non secondaria quelli artistici, storici, documentari e comunque attinenti alla cultura nella polivalenza di sensi del termine”.

In via generale, è specificato incidentalmente, “nelle materie in cui ha primario rilievo il profilo finalistico della disciplina, la coesistenza di competenze normative rappresenta la generalità dei casi”.

Nello specifico, sentenzia conclusivamente la Corte, “la norma regionale impugnata non è invasiva della sfera di competenza statale […], in quanto la disciplina regionale è in funzione di una tutela non sostitutiva di quella statale, bensì diversa ed aggiuntiva, da assicurare nella predisposizione della normativa di governo del territorio, nella quale necessariamente sono coinvolti i detti beni. La legge regionale non stabilisce nuovi criteri di identificazione dei beni culturali ai fini del regime proprio di questi nell'ambito dell'ordinamento statale, bensì prevede che nella disciplina del governo del territorio – e quindi per quanto concerne le peculiarità di questa – si tenga conto non soltanto dei beni culturali identificati secondo la normativa statale, ma eventualmente anche di altri, purché però essi si trovino a far parte di un territorio avente una propria conformazione e una propria storia”.

Sarà il caso che dell’ora sunteggiata dottrina del “giudice delle leggi”, cioè del più autorevole interprete del dettato costituzionale, si tenga debito conto in quell’integrale riscrittura della legge statale contenente i principi del governo del territorio che, anche ma certamente non soltanto per le ragioni esposte in questo scritto, si pone come un’esigenza inderogabile rispetto al delineare l’ordinamento legislativo di un Paese appena appena civile.

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