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Salvatore Settis
Un patto per la tutela del paesaggio
18 Novembre 2006
Toscana
Valutazioni e proposte del Presidente del Consiglio superiore dei BC, con un'ampia postilla di eddyburg. Da la Repubblica, 17 novembre 2006

L’appello del ministro Rutelli a un rinnovato impegno per l’insegnamento della storia dell’arte nelle scuole italiane di ogni ordine e grado ha avuto un riscontro ampiamente positivo: buon segno, se dalle intenzioni si vorrà passare ai progetti concreti. Ne sarebbe contento Gombrich: in un’intervista rilasciata poco prima della morte disse che «i guardiani del patrimonio artistico italiano, il più ricco del mondo, devono essere i cittadini italiani; perciò studiare storia dell’arte è più importante per gli italiani che per chiunque altro». Ma quale storia dell’arte va insegnata in Italia all’alba del XXI secolo? I manuali tradizionali, con le loro sfilze di quadri e sculture e architetture in ordine cronologico, non bastano più. Se l’educazione all’arte serve alla formazione del cittadino (di una coscienza civica attenta alla conservazione), bisogna prender atto che il centro del problema si è spostato: alla storia delle arti belle va aggiunta, e in posizione centrale, quella del paesaggio e dell’ambiente, del loro delicato innestarsi sul tessuto urbano. Perché è qui, nella non-tutela del paesaggio e dei tessuti urbani, che si compiono i maggiori scempi, ed è qui che la coscienza civica deve farsi adulta. Anche la percezione dello spazio urbano come spazio della socializzazione e della civiltà è stata data per scontata per secoli, oggi non più. È necessario un grande sforzo di ricerca e di educazione sull’identità della città contemporanea, sul suo sfumare (attraverso periferie oggi così desolate) nella campagna.

È sul fronte del paesaggio che il sistema della tutela rivela le sue maggiori debolezze, anzi è assai mal definito sin dalla legge 1497 del 1939, secondo cui la tutela si esprime con atti generici che "vincolano" sì un determinato paesaggio, ma non specificano che cosa, in ciascun caso, non può essere a nessun costo modificato. Il progressivo slittamento delle competenze dallo Stato alle istanze locali ha segnato il tracollo delle procedure di salvaguardia, già iniziato quando il DPR 616/1977 delegò alle regioni la "protezione delle bellezze naturali", con facoltà di subdelega ai Comuni, pur mantenendo un finale giudizio di conformità da parte delle Soprintendenze. Nel nuovo Codice dei Beni culturali, al contrario, l’art. 135 prescrive sì l’obbligo di piani paesaggistici regionali, ma il ruolo del controllo statale è capovolto anche rispetto alla legge Galasso (431/1985): le Soprintendenze perdono il potere di annullare "a valle" le autorizzazioni edilizie dei Comuni, possono solo partecipare, "a monte", alla redazione dei piani paesaggistici regionali. Possibilità peraltro teorica, perché secondo l’art. 143 del Codice le regioni «possono» (e non «devono») stipulare «accordi col Ministero per l’elaborazione d’intesa dei piani paesaggistici»; ma soprattutto perché le regioni mostrano gran riluttanza a redigere i loro piani paesaggistici, e lasciano di fatto mano libera ai Comuni. Al giudizio di un funzionario dello Stato con le debite competenze tecniche e piena indipendenza da ogni potere politico si è così sostituito il pulviscolo di una serie di decisioni sconnesse di singoli amministratori comunali, che troppo spesso ahimé (dalle Alpi alla Sicilia) sono inclini a svendere il paesaggio pur di raccattare qualche voto.

Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti, grazie al "caso Monticchiello": Rutelli dichiara pubblicamente (convegno FAI del 10 novembre) che «la realizzazione di quei villini dozzinali fa vergogna alla capacità progettuale del Paese», l’assessore regionale Conti (Il Tirreno, 31 agosto) chiosa che «quell’insediamento fa schifo», e via con invettive d’ogni sorta; ma il presidente della regione Toscana dichiara alla Repubblica (9 novembre) che il triste villaggetto non si può abbattere perché le licenze rilasciate dal Comune sono in regola, e d’altronde il piano paesistico per la Toscana manca. Insomma, il disastro è fatto ma la colpa non è di nessuno.

Il caso Monticchiello (ma ce ne sono, in Toscana e altrove, di ancor peggiori) è istruttivo. Prima si fa campagna perché la Val d’Orcia venga inserita nella lista dei siti Unesco in grazia del suo paesaggio meraviglioso e intatto. Una volta ottenuto il "marchio" Unesco, si progettano i "villini dozzinali" a duecento metri dal borgo, e si lancia sui giornali una campagna acquisti: compratevi la villetta a schiera in un sito Unesco! Bel capovolgimento dei valori: il riconoscimento Unesco, un sigillo di qualità che dovrebbe comportare l’impegno a difendere quel paesaggio, diventa un incentivo a svenderlo, viene esso stesso mercificato. Che la speculazione edilizia prediliga i siti più intatti, più prestigiosi, più ricchi di valori paesaggistici e ambientali, è un fatto: il progetto che vorrebbe installare sulla riva del lago Inferiore di Mantova (uno straordinario paesaggio plasmato dall’uomo, e intatto da mille anni) 185.000 metri cubi di cemento è mirato a "usare" lo skyline urbano di Mantova, fra i più celebrati del mondo, come la veduta da offrire ad acquirenti e inquilini, trasformando la mirabile città in una cartolina da quattro soldi. Peccato che dal castello di San Giorgio, dalle stanze dei Gonzaga affrescate da Mantegna, si debba poi vedere la squallida cartolina del neo-ecomostro mantovano.

Quel che sta accadendo non è colpa solo del Codice né delle altre leggi, ma anche dell’infelice riforma del titolo V della Costituzione (1999), che anziché risolvere la ripartizione dei poteri fra Stato e regioni, l’ha resa ardua e impraticabile, sollevando davanti alla Corte Costituzionale decine di conflitti. Secondo l’art. 117, la potestà legislativa su tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali (ivi compreso il paesaggio) spetta, in via esclusiva, allo Stato. Quanto alla valorizzazione, allo Stato spetta fissare i principi, alle regioni (ivi comprese quelle ad autonomia speciale) la regolamentazione di dettaglio. L’esercizio della valorizzazione, ha chiarito una sentenza della Corte (26/2004) è in capo al possessore del bene, che sia lo Stato o la regione. Infine, secondo l’art. 118, leggi dello Stato devono regolare forme di intesa e di coordinamento fra Stato e regioni «nella materia della tutela dei beni culturali». Ma la stessa distinzione fra "tutela" e "valorizzazione" è confusa e contraria alla buona amministrazione, produce frammentazione dell’azione amministrativa e dispersione delle responsabilità.

Ognun vede quanto insidiosa possa essere l’interpretazione di questo groviglio inestricabile, e lo illustrano bene tre casi di questi giorni. Il Friuli-Venezia Giulia (regione a statuto speciale) ha creato con propria legge una Fondazione per la gestione del patrimonio archeologico di Aquileia, in massima parte statale, senza minimamente coinvolgere gli organi dello Stato, che naturalmente ha subito avviato un procedimento impugnativo. Lo stesso sta accadendo con due altre regioni ad autonomia speciale: la Sardegna si è attribuita la competenza esclusiva a delineare nel Piano regionale "gli obiettivi e le priorità strategiche, nonché le relative linee d’intervento per la conservazione dei beni culturali, per la ricerca archeologica e paleontologica"; la Val d’Aosta prova a legiferare in materia di archivi senza coordinarsi con gli organi dello Stato. In questi tre casi, non è l’interesse delle regioni, per sé encomiabile, che è in discussione, bensì il loro ruolo: a quel che pare, anziché cercare forme di leale intesa, sta prevalendo la tendenza a cavillare, sfruttando la crisi delle Soprintendenze (per mancanza di assunzioni) e le ambiguità del nuovo Titolo V per "allargare lo spazio" delle regioni a detrimento di una concezione unitaria della tutela in tutto il territorio nazionale, prescritta dall’articolo 9, non a caso fra i principi fondamentali della Costituzione. Questa guerra di logoramento non avrà né vinti né vincitori, ma ha già le sue vittime: il nostro patrimonio e il nostro paesaggio, che anziché essere concepiti come un preziosissimo bene comune diventano la posta di un defatigante conflitto, di un continuo "fuoco amico" fra i poteri pubblici. E’ tempo di lanciare in questo Paese, come ha proposto il FAI al termine del suo recente convegno, un grande patto nazionale per la tutela che includa Stato, regioni, enti locali, privati, e che parta non dalla suddivisione dei ruoli né dalla spartizione delle torte, ma dalle esigenze vitali e ineludibili del nostro patrimonio e dalla necessaria unità del Paese, vigorosamente richiamata dal presidente Napolitano. In questo patto anche l’educazione all’arte, al paesaggio, all’ambiente, deve avere un ruolo essenziale, pena la devastazione dell’Italia che amiamo.

Postilla

Tra le molte considerazioni giuste di Settis qualcuna merita precisazioni, soprattutto per il ruolo che il presidente del Consiglio superiore dei beni culturali riveste.

Intanto, la tutela del paesaggio è, secondo la nostra Costituzione, impegno della Repubblica, non solo dello Stato. Se a questo spettano le responsabilità maggiori, ci sembra che la “assidua riconsiderazione del territorio nazionale alla luce e in attuazione del suo valore estetico-culturale “, cui rinvia sistematicamente la Corte costituzionale (cost 151/1987, cost. 327/1989) sottolinei la necessità di un impegno altrettanto rilevante delle regioni, delle province, dei comuni. Ciascuna istituzione con le proprie specifiche responsabilità. Così ci aspettiamo che lo Stato eserciti i propri poteri (e non faccia come a Monticchiello, dove ha dimenticato di pronunciarsi in tempo utile). Anche, e oggi soprattutto, in attuazione all’ottimo Codice dei beni culturali e del paesaggio, che costituisce il punto più avanzato dell’evoluzione culturale, avviata dal decreto Galasso e dalla legge 431/1985; che ci ha portati ben lontani dalla legge del 1939. Alle logica della quale invece Settis sembra ancora legato, visto che ritiene ancora che si possano applicare oggi le pecette del vincolo procedimentale, forse utili quando il territorio tutelato era del 2 o 3%, mentre oggi, grazie alle leggi e ai codici degli ultimi 20 anni, è certamente oltre il 50%.

E’ certamente da condividere il giudizio di Settis sulla “infelice riforma del titolo V della Costituzione (1999), che anziché risolvere la ripartizione dei poteri fra Stato e regioni, l’ha resa ardua e impraticabile, sollevando davanti alla Corte Costituzionale decine di conflitti”. E sarebbe davvero una buona cosa se dall’organo presieduto da Settis, e dal leader dell’Ulivo attualmente anche titolare del dicastero dei Beni e delle attività culturali, partisse una vigorosa iniziativa per correggere il grave errore compiuto dal Parlamento nel 2001 (e non nel1999). Ma nell’attesa, non adoperiamo la pistola scacciacani del 1939, ma gli strumenti difensivi foggiati in tempi più recenti.

Oggi lo strumento è l’applicazione rigorosa, integrale, consapevole, e in primo luogo informata del Codice del paesaggio. Questo dispone che le regioni formino un piano paesaggistico di cui vengono precisati con ampiezza i contenuti. Non potranno essere piani di chiacchiere (come quelli preanniunciati nelle 99 pagine del documento preliminare al PIT della Toscana), ma piani che censiscano con accuratezza, su una base cartografica adeguata e per tutto il territorio regionale, i beni paesaggistici prescritti o ritenuti d’interesse nazionale e regionale, che dispongano per ciascuna categoria di essi specifiche regole di tutela di ciò che c’è da tutelare, e che indirizzino i comuni a concorrere nella “assidua considerazione” proseguendo alla scala locale l’individuazione di ulteriori beni.

Le regioni sono obbligate, dalla legge, a fare ciò. Se lo fanno d’intesa con le amministrazioni dello Stato (Beni e attività culturali e Ambiente e tutela del territorio e del mare), allora le procedure abilitative degli interventi nelle aree tutelate sono semplificate e snellite, e la garanzie della tutela è fornita dal rispetto formale e sostanziale del piano paesaggistico. Altrimenti le procedure restano definite nell’attuale modo, da tutti giudicato complicato e farraginoso.

Certo, concorrere con le regioni a redigere i piani paesaggistici non è compito che gli organi dei ministeri possano fare rimanendo organizzati così come lo sono ora. Ma è certo incomparabilmente meno pesante, e certamente più efficace, la riorganizzazione da compiere per assolvere i compiti nuovi, che quella che sarebbe necessaria se si volessero rincorrere centinaia di migliaia di autorizzazioni paesaggistiche o altri simili atti discrezionali.

Lavorerà in questa direzione il Ministero del quale Settis è autorevolissimo consigliere? C’è da augurarselo. Altrimenti gli “ecomostri”, ben peggiori di quello di Monticchiello, continueranno ad accumularsi sul nostro territorio. E si dovrà additare come complice la miopia di chi oggi guarda unicamente all’apprendimento dell’arte del passato (certo utilissimo), e trascura l’applicazione delle buone leggi attuali.

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