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Josh Sides
Le grandi catene commerciali e i ghetti americani
5 Settembre 2006
Il territorio del commercio
La valorizzazione socio-spaziale di alcuni aspetti del commercio "corporate", per sostenere il recupero dei quartieri. The Next American City, novembre 2005 (f.b.)

Titolo originale: Corporate Retailers and the American Ghetto: How Starbucks May Help Save South Central – Traduzione per Eddyburg Mall di Fabrizio Bottini

La recente apertura di uno Starbucks nel famigerato quartiere suburbano di Compton a Los Angeles può offrire agli abitanti moto più di un caffèlatte a tre dollari. Si tratta, naturalmente, di un altro esempio della tendenza che dura da un decennio, di rivolgersi da parte delle grandi catene commerciali americane ai “mercati urbani” delle minoranze più povere. Ma questo progetto, una joint venture con l’ambiziosa Johnson Development Corporation di Magic Johnson, può anche rappresentare la traccia per un modo completamente nuovo di pensare la rivitalizzazione della inner-city: un metodo che pone l’accento sull’aspetto civico tanto quanto usa percorsi più tradizionali di rivitalizzazione, come lo sviluppo economico.

Storia economica recente

Sin dagli anni ‘60, i decisori attenti ai gravi problemi degli afroamericani e alte minoranze hanno cercato di estendere sia le occasioni di lavoro che quelle di nei ghetti urbani. Ma, quattro decenni di iniziative benintenzionate per l’occupazione, a livello federale e locale, non sono riuscite a rallentare il declino della disponibilità di posti di lavoro dignitosi nei quartieri popolari.

A South Los Angeles, tradizionale zona della popolazione nera di L.A., questo declino è particolarmente evidente con la scomparsa di migliaia di posti di lavoro regolari nell’industria siderurgica e automobilistica nella regione. Se la base manifatturiera a South L.A. continua a crescere, non lo fa in modi che sappiano portare ad una rinascita economica regionale. Ben oltre la metà degli occupati nel settore manifatturiero dell’area lavora in imprese nel settore tessile e abbigliamento, posti non sindacalizzati e a bassi salari, e altre migliaia faticano negli impianti del settore alimentare. Molto peggio del livello inferiore dei lavori, la loro scarsità: il tasso di disoccupazione fra gli afroamericani ora è circa il doppio degli altri lavoratori, e molto più alto fra i giovani neri.

Sino a tempi recenti, le cose non andavano molto meglio per i consumatori della inner-city. Qui il commercio ha iniziato a declinare in tutta l’America negli anni ‘50, quando la dipartita dei bianchi e la decadenza urbana resero instabile il mercato. A Los Angeles, gli anni ’60 sono caratterizzati da violente rivolte, che spaventano molti dei commercianti bianchi rimasti. Quelli che resistevano tendevano a caricare il rischio di lavorare nel ghetto sui clienti, che non avevano la possibilità di far compere altrove. Questo problema colpì in modo particolarmente duro gli abitanti senza automobile, visto che Los Angeles storicamente offre poco trasporto pubblico per aumentare le occasioni di shopping nella periferia.

Non sorprende allora che gli abitanti di Watts, una delle comunità più difficili di South L.A., abbiano sempre lamentato l’inadeguatezza della scelta di consumi per tutta la zona. Né sorprende che furono i piccoli commercianti i bersagli principali delle distruzioni, sia nella rivolta del 1965 che in quella del 1992. Ma la situazione potrebbe cambiare, per gli abitanti di South L.A. e alte comunità di minoranze povere in tutto il paese. Un nuovo modello di intervento ha iniziato a modificare il modo in cui imprese, urbanisti e amministrazioni si avvicinano alla inner city. Una trasformazione necessaria da tempo, che ha il potenziale per modificare definitivamente il significato della parola “ ghetto”.

Uno sguardo alla Inner City

A partire dalla metà degli anni ‘90, le grandi catene di distribuzione hanno rivolto la propria attenzione alla “ultima frontiera commerciale”, il ghetto americano. Si trattava di un buon affare: secondo un “prudente” calcolo del 1998 effettuato dal Boston Consulting Group e della Initiative for a Competitive Inner City, queste inner cities rappresentano oltre 85 miliardi di dollari di potere d’acquisto annuo: l’equivalente di quello totale nazionale del Messico. Gli operatori sono stati incoraggiati dalla diminuzione generale della criminalità e dall’aumento di attrattiva delle città per le famiglie agiate, i gay, i frequentatori regolari. Tutti i giorni, Target, Home Depot, Wal-Mart, e dozzine di piccoli operatori iniziano a infiltrarsi negli storici ghetti neri.

Egualmente importante per questi quartieri nell’attirare le grandi catene verso la inner city è stata la fenomenale crescita e avanzamento economico della popolazione latina. Riflettendo una tendenza nazionale, la famosa “comunità nera” di South Central Los Angeles ora è per oltre il 55% latinoamericana. Cresce la popolazione latina e cresce anche il suo potere d’acquisto: una recente stima nazionale ha calcolato questo mercato per una valore di 400 miliardi di dollari. Nella California meridionale, questo potere d’acquisto si è reso evidente nel mercato della casa, dove la proprietà da parte di latini è lievitata di oltre il 50% nell’ultimo decennio.

Il marketing delle imprese si è messo sulla lunghezza d’onda di questa nuova demografia della inner-city: nel 1998, Target ha lanciato una rivista per la popolazione latina, Familia, inviata per posta a oltre 750.000 nuclei familiari latinoamericani in California. Un recente spot pubblicitario televisivo di Wal-Mart presenta una giovane donna afroamericana assunta da poco dal gigante commerciale, e che emozionata esprime la propria gratitudine.

L’ingresso delle grandi catene nel mercato della inner city, ad ogni modo, non è stato senza contrasti. In tutto il paese le minoranze – in particolare gli afroamericani – hanno protestato per quanto vedono come “colonialismo da ghetto”: grossi complessi che sviscerano i caratteri dei quartieri, sfruttano la povertà locale, sostituiscono all’assenza di lavoro cattivi lavori, colpiscono il sindacato, aggirano le tutele ambientali, aumentano la congestione da traffico. Dal South Side di Chicago all’est di Oakland, gli abitanti hanno sfilato, fatto picchetti, inviato petizioni ai consigli municipali per tenere lontano il commercio “big-box”.

Una discussione recente a Inglewood, suburbio prevalentemente di minoranze a sud di Los Angeles, esemplifica queste tensioni. Nell’aprile 2004, Wal-Mart ha speso 1 milione di dollari per una campagna a convincere gli elettori a sostenere una delibera cittadina favorevole a uno dei propri Super Centers (dimensioni: 17 campi da football) per aprirlo senza valutazione di impatto ambientale, studi sul traffico, assemblee pubbliche. Il referendum ha confermato la diffidenza di molti residenti, che clamorosamente lo hanno respinto dopo settimane di arroventate proteste. “Devono venire qui entrando dalla porta principale, alla luce del giorno” ha detto la consigliera di Inglewood Judy Dunlap, “non sgattaiolare dal retro di notte”.

La speranza in California meridionale

La sconfitta a Inglewood di Wal-Mart, comunque, non deve irrigidire decisori, urbanisti, attivisti sulle prospettive di investimenti di impresa nel ghetto. Come rivela il caso di Starbucks, alcuni investimenti possono rappresentare un ottimo affare sia per le compagnie che per gli abitanti.

Il nuovo Starbucks di Compton è una delle quasi settanta “ Urban Coffee Opportunities” (o UCO) aperte in tutto il paese dall’inizio della singolare collaborazione fra Starbucks e la Johnson Development Corporation nel 1998. oltre a fungere da attività anchor in zone commerciali difficili, la UCO offre disperatamente necessari posti di lavoro per giovani e disoccupati. E si offre qualcosa di più di un magro stipendio. A differenza di altre grosse compagnie, Starbucks fornisce copertura sanitaria completa anche ai dipendenti part-time. Insieme alla stock option dei nuovi dipendenti, il pacchetto previdenziale costituisce la base di una dignitosa, per quanto modesta, esistenza.

Due anni fa, ha aperto uno Starbucks in un nuovo centro commerciale da 60 milioni di dollari su 10 ettari chiamato Chesterfield Square, fra la Slauson e Western Street nel cuore di South Central. A circa un chilometro dal famigerato incrocio della Florence con Normandie Street, dove il camionista Reginald Denny fu brutalmente picchiato durante le rivolte del 1992, il nuovo centro commerciale offre anche un Home Depot, un Food 4 Less, e un punto vendita dei panini Subway. Il giorno dell’apertura, Starbucks ha ricevuto oltre duecento domande di assunzione: segno della grande richiesta di lavoro della zona.

Poco dopo l’inaugurazione del mall, Helen Wilkins, afroamericana da lungo tempo residente a South Central, ha detto a un giornalista del New York Times, “Ha davvero cambiato molto il quartiere. Da lavoro – molto lavoro – ai giovani, e li tiene lontani dalla strada”. Qualche tempo fa un sabato mattina neri e ispanici abitanti della zona di Chesterfield Square si sono affollati all’entrata di Home Depot, riempiendo i carrelli di attrezzi, ferramenta, piante in vaso. Significativamente, lo shopping potrebbe presto diventare uno dei pochi passatempi americani dove la razza non conta.

Ma vedere l’apertura della UCO Starbucks a Compton in soli termini economici significherebbe perdere molto del suo significato. Il coffee shop è importante anche per la semplice e non visibilissima ragione che è uno spazio sicuro, quasi pubblico, dove si può parlare. In California meridionale, la cronica carenza di spazi pubblici e l’uso eccessivo dei mezzi di locomozione privati ha lasciato la regione con una cittadinanza gravemente divisa e lontana. In alcune zone di Compton e più ampie aree di South Los Angeles, questo isolamento si unisce alla criminalità violenta. Qui, spazi verdi pubblici e strade sono il monopolio dei componenti delle bande che li considerano e difendono come “loro” territorio provato. Caffè e librerie sono una delle soluzioni a questo problema. Molto più di Wal-Mart o Target, il coffee shop – nei casi migliori – non è solo uno spazio per scambi di tipo commerciale, ma anche luogo dove si scambiano idee.

Tendenze nazionali

Gli abitanti sono sciamati volentieri verso i progetti della fondazione di Johnson, almeno in parte, perché li percepiscono come qualcosa che viene dall’interno della comunità, e la concreta presenza di Magic alle cerimonie del taglio del nastro lo riafferma ai potenziali clienti. Ma ci sono segni che gli afroamericani non abbiano bisogno dell’ imprimatur di celebrità nere, per accogliere i progetti delle imprese nelle proprie comunità. Chesterfield Square non è di proprietà nera, e nemmeno lo è l’impressionante complesso Harlem USA nell’omonimo quartiere, con un multisala nove schermi Magic Johnson, negozio di abbigliamento Old Navy, e parecchi altri punti vendita. Nè i consumatori neri sono interessati soltanto al commercio “pratico”, di beni esenziali per la casa. Nel 2003, le librerie Borders hanno aperto un nuovo negozio nel centro gravemente depresso di Detroit. Gli ottimi affari hanno sorpreso i gestori.

Dietro le quinte, ci sono anche organizzazioni che spingono per il tipo di investimento che ha reso di nuovo famoso Magic Johnson. Una delle più importanti è The Initiative for a Competitive Inner City (ICIC) di Boston, gruppo non-profit fondato dal professore della Harvard Business School Michael E. Porter. Porter e i suoi colleghi hanno condotto ricerche e sostenuto iniziative sull’investimento nella inner-city a livello nazionale sin dalla fondazione. Insoddisfatto dal persistere dell’ineguaglianza e dal fatto che “troppi nostri concittadini [non] godevano della ricchezza dell’America in quanto economia complessiva”, Porter ha fondato questa struttura per aprire un nuovo percorso nel 1994. “Senza una solida base economica” continua a predicare Porter dieci anni dopo” [non si può] avere una comunità sana e stabile”.

A San Francisco, Business for Social Responsibility (BSR), una associazione non-profit dedita a stimolare pratiche economiche etiche, lavora a portare sviluppo nelle comunità della inner-city dai primi anni ‘90. Matt Hirshland, direttore anziano per la comunicazione di BSR, è rincuorato da quanto vede nelle attività di Starbucks e Borders. Queste iniziative sono riuscite, premette, “perché fanno sentire agli abitanti di partecipare davvero all’attività”. È un investimento comune presente nel suo lavoro: “Aiutiamo le attività ad essere responsabili rispetto alle domande, ai valori, all’ambiente delle comunità dove operano”.

Forse è troppo presto per chiamare questi interventi “il futuro”, e non è per niente sicuro che gli investimenti nel ghetto saranno al centro della città americana a venire. Ma una cosa sembra chiara: Starbucks sta facendo di più per South Central di quanto chiunque si aspettasse. Oltre a portare attività commerciale in posti troppo a lungo abbandonati o sfruttati, questi interventi possono aiutare a porre fine alla sensazione debilitante di isolamento politico, sociale, economico, che ancora minaccia la vita del ghetto.

Nota: un ruolo analogo, della struttura commerciale privata con un funzioni fortemente "pubbliche" per lo sviluppo sociale e urbanistico dei quartieri con problemi anche gravissimi, è quello che ho riassunto su Eddyburg nel caso di Soweto (f.b.)

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