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Antonio- Cederna
1983, L’Italia che finisce
26 Agosto 2006
Scritti di Cederna
A partire da una celebre mostra dell'IBC, I confini perduti, la critica al consumo di suolo e la difesa dei centri storici. Da la Repubblica, 27-28 novembre 1983 (m.p.g.)

Quando finisce l'Italia? E’ questa la domanda solo apparentemente paradossale che cominciano a porsi urbanisti, ambientalisti, statistici eccetera, quando riflettono sul ritmo accelerato con cui, nella confusione delle leggi e nell'incapacità di pianificare, andiamo consumando quel bene prezioso, limitato e irriproducibile che è il territorio.

Già sono disponibili, per dir così, le prime proiezioni. In un trentennio abbiamo distrutto più di un milione di ettari di pianure produttive (un sesto del totale, 20-30 mila ettari l'anno); nell'ultimo decennio la superficie agraria complessiva è diminuita di tre milioni di ettari e di altrettanto sono aumentati gli incolti, i terreni asfaltati e urbanizzati (un'erosione del 5 per cento ogni dieci anni): oltre duemila chilometri di litorali pianeggianti (la metà del totale) sono scomparsi sotto turpi agglomerati edilizi; 40-50 mila ettari di boschi vanno a fuoco ogni anno, mentre a fatica si riesce a rimboschire una superficie pari alla metà (i boschi italiani non superano i sei milioni di ettari).

La prospettiva, come calcolano gli esperti della Lega Ambiente che stanno redigendo un rapporto sullo stato dell' ambiente in Italia, è questa: tra poco più di 150-200 anni (diciamo entro l'anno 2200) andando avanti di questo passo, tutta quanta l’Italia naturale, agricola, paesistica, forestale sarà ridotta a un deserto di cemento, asfalto, immondizia e cenere. Se poi aggiungiamo l'attività selvaggia delle cave che asportano ogni anno da colli e corsi d'acqua 300 milioni di tonnellate di ghiaia, sabbia, e altri materiali, aggravando il generale dissesto del suolo, ci rendiamo conto che ci verrà a mancare letteralmente la terra sotto i piedi.

Un sintetico campione di questa minacciata soluzione finale ci è stato offerto giorni fa al convegno internazionale di Bologna sulla salvaguardia dei centri storici. In una bellissima mostra (che dovrebbe andare in giro per l’Italia) sono state messe a confronto le foto aeree eseguite dalla RAF negli anni Quaranta con le altre eseguite negli anni Settanta: un confronto impressionante che mette in evidenza il cieco dilagare dell'edilizia a ondate successive, la ragnatela, a macchia d'olio tutt'intorno a villaggi e città, col risultato che in un trentennio nella sola Emilia-Romagna sono stati fatti sparire 18.000 ettari di terreno agricolo e, lungo i litorali, 4.000 ettari di dune, boschi, arenili.

Il merito dell'indagine va all'Istituto per i beni artistici, culturali e ambientali dell’Emilia-Romagna e, se altre regioni ne seguissero l'esempio, avremmo un quadro eloquente della sorte che attende l'Italia fisica: quella di essere ricoperta da un capo all'altro da un'ininterrotta, uniforme, repellente crosta edilizia. (E già sappiamo, per fare un esempio, che nel maggiore comune agricolo italiano, Roma, sono stati distrutti nell'ultimo decennio ben 16.000 ettari di terreno produttivo).

Parallelo e speculare al riempimento-cementificazione della campagna è il vuoto che si viene creando per abbandono, snaturamento, incuria e speculazione nel patrimonio edilizio delle città e dei loro centri storici: i quali comprendono circa dodici milioni di stanze costruite prima della metà del secolo scorso. La sbornia edilizia dei due ultimi decenni ha infatti portato quasi esclusivamente alla costruzione del nuovo anziché al riuso ragionato dell'esistente, costruendo per lo più l'inutile e il superfluo: così che (è bene sempre ripeterlo) abbiamo il primato europeo dello spreco edilizio, 86 milioni di stanze per 56 milioni di italiani, e quattro milioni di alloggi (pari a circa 15 milioni di stanze) «non occupati», sfitti e invenduti, seconde e terze case, eccetera (350.000 stanze non occupate a Roma). Qui sta il problema capitale, l'impegno che deve affrontare l'urbanistica italiana. Si tratta di mettere un argine all'espansione delle città, che aggrava il gigantismo urbano con tutti i suoi disastrosi effetti: distruzione di terreno agricolo, congestione e ingovernabilità; e di concentrare mezzi ed energie nel recupero dell'antico patrimonio edilizio. Il che vuol dire riutilizzare, risanare, restaurare i centri storici sotto controllo pubblico per consentire alla gente di continuare ad abitarci a canoni ragionevoli, evitandone l'espulsione nei ghetti periferici, e quindi preservando la funzione residenziale degli antichi quartieri dalla degradazione e dall'attacco delle attività terziarie. (Nei centri storici minori gli alloggi abbandonati sono 6-800.000; negli anni Settanta nei centri storici delle maggiori città sono state eliminate, buttate via oltre tre milioni di stanze residenziali per far posta ad uffici). E’ questo, il risanamento conservativo per la salvaguardia del tessuto edilizio e insieme sociale dei centri storici, il maggiore (l'unico) contributo italiano alla cultura urbanistica europea: che ha avuto una prima realizzazione a Bologna una decina di anni fa quando, assessore Pierluigi Cervellati, i fondi dell' edilizia economica e popolare, anziché nella costruzione di nuovi quartieri in periferia, vennero investiti nel risanamento di alcuni comparti del vecchio centro. Per questo Bologna ebbe il diploma del Consiglio d 'Europa, e il suo esempio fu seguito da altre città (ricordiamo soprattutto Modena e Brescia). Poi, come sempre, la tensione cadde, e oggi in tutta Italia gli alloggi risanati sotto controllo pubblico e a fini sociali non superano il paio di migliaia: mentre sono aumentati i «restauri» di pura facciata (l'antico rifatto rende molto in termini di prestigio a studi privati, banche e assicurazioni), e quelli abusivi, che si contano a decine di migliaia ogni anno.

Così, l'iniziativa pubblica segna il passo a Venezia e a Roma, così si aggrava irreparabilmente la degradazione di centri storici insigni come Palermo e Napoli; mentre allo sgombero del centro storico di Pozzuoli per bradisismo (1970,1983) non è estraneo il sospetto di qualche manovra per una sua «valorizzazione» speculativa. Per avviare una seria politica di risanamento conservativo è ovviamente necessario un forte impegno politico per la riforma degli attuali strumenti e procedure anche al fine di coinvolgere Ie risorse private: ma quello che più allarma è il fatto che nella nostra cultura architettonica (postmoderni aiutando) riprendono fiato coloro che pretendono ancora di lasciare la loro «impronta» negli antichi tessuti urbani (a Roma si vuole addirittura incastrare un «museo della scienza» nella rinascimentale via Giulia). E, cosa ancora più grave, si va assistendo alla riabilitazione degli sventramenti, come nel caso dei Fori Imperiali, dove alcuni hanno inopinatamente scoperto che anche l'asfalto dello stradone littorio è un bene culturale da conservare.

Il convegno internazionale di Bologna, organizzato dal citato Istituto per i beni culturali col patrocinio della Comunità Europea, è stato importante perchè ha sollevato la cortina di silenzio caduta negli ultimi anni sul problema delle antiche città e della loro salvaguardia (un nuovo convegno è in corso in questi giorni, quello dell' Associazione nazionale centri storico-artistici, a Lucca), col contributo di una cinquantina di studiosi italiani e stranieri, in presenza di un pubblico foltissimo. Guido Fanti, membro della commissione cultura del Parlamento europeo, ha annunciato che la Comunità intende istituire un «fondo europeo» per la concessione di prestiti per interventi di conservazione e restauro, augurandosi tra l'altro che il finanziamento comunitario del settore culturale sia portato almeno all'uno per cento del bilancio generale (ora pari allo 0,00749 per cento). Ed è stata messa in evidenza la convenienza economica del risanamento del patrimonio esistente, perchè un centro storico già dispone di tutte quelle infrastrutture e di quei servizi che invece vanno realizzati ex novo in un quartiere di nuova costruzione: inoltre, è stato accertato che risanamento e restauro consentono di creare due posti e mezzo di lavoro con l'investimento necessario alla creazione di un solo posto medio di altro genere.

Recupero dei centri storici significa dunque anche rilancio dell'occupazione e di tutte le attività economiche legate agli infiniti aspetti del restauro delle forme e dei materiali antichi: una grande occasione per la riqualificazione professionale e la formazione di manodopera specializzata. Si tratta di far riemergere dal naufragio l'antica sapienza pratica, la creatività, la manualità, il mestiere artigiano, quelle antiche arti «meccaniche» che hanno creato nei secoli le nostre città: perchè si possa cominciare a por mano a quell'opera di manutenzione continua che è la premessa essenziale per la loro sopravvivenza.

In conclusione, conservare l'antico deve essere la parola d' ordine della cultura urbanistica moderna: altrimenti, per completare il quadro dell'Italia che finisce, mettiamoci anche a calcolare i metri cubi di antichi edifici che anno dopo anno vengono ridotti in polvere.

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