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Piero Bevilacqua
La riforma agraria e le trasformazioni del paesaggio
12 Giugno 2006
Paesaggio (e territorio, e ambiente)
La magistrale descrizione di tre “sistemi agrari” italiani e la rivendicazione della utilità di tutelare “un paesaggio di inquietante nudità e magnifica testimonianza sotto il cielo di millenni di lavoro contadino”, in una relazione tenuta a Cutro il 7 settembre 2004

Prima di affrontare l’esame dei processi di trasformazione fondiaria che hanno investito quest’area della Calabria - intendo dire di Cutro e del Crotonese - è opportuno soffermarsi sui caratteri del paesaggio agrario proprio del latifondo tipico. E a tale fine risulta necessario porsi la domanda: ma quello del latifondo era solo e semplicemente un paesaggio agrario? E che cos’è un paesaggio agrario? Emilio Sereni, lo studioso pionere di tali studi, checi ha lasciato la più ampia e precorritrice monografia sul tema- Storia del paesaggio agrario italiano, Laterza Bari, 1961 - ha elaborato una definizione sintetica, efficace e persuasiva. Egli ha scritto : « paesaggio agrario significa quella forma che l’uomo, nel corso ed ai fini delle sue attività produttive agricole, coscientemente e sistematicamente imprime al paesaggio naturale». Come si può constatare si tratta di una formulazione ineccepibile nella sua essenzialità, ma per noi - per i nostri fini di esplorazione più circostanziata - troppo generale e onnicomprensiva. In effetti - e come potrebbe essere altrimenti? - il latifondo è certo un paesaggio agrario. In esso non possiamo non scorgere un paesaggio naturale su cui l’uomo, vale dire i contadini, hanno impresso la loro impronta con il proprio lavoro secolare, i propri insediamenti, coltivazioni, tracciati viari, ecc. E tuttavia il latifondo è qualcosa di meno generico di un paesaggio. Esso è, precisamente, un sistema agrario. Che cos’è un sistema agrario ? E’ una particolare organizzazione dell’habitat agricolo in cui sono rinvenibili rapporti di funzionalità sistematica tra le forme e i modi dell’abitare e l’organizzazione produttiva agricola, fra gli insediamenti e la campagna, fra la casa ed il campo.

Nel primo volume della Storia dell’agricoltura italiana da me diretta (Spazi e paesaggi, Marsilio Venezia 1989) io ho individuato tre grandi sistemi agrari che contrassegnano in forme originali il nostro paesaggio agricolo. Questi tre grandi sistemi sono la cascina dell’Italia padana, la mezzadria delle regioni di centro del nostro Paese e il latifondo cerealicolo-pastorale. Vediamo brevemente come si configuravano questi «sistemi».

In che cosa consisteva la cascina, così diffusa soprattutto nella bassa pianura irrigua della Valle del Po? Essa era una forma di insediamento stabile. Una città in miniatura piantata nel bel mezzo della campagna. Molto spesso, le casine « a corte» erano chiuse da mura e avevano un porta di ingresso, che per lungo tempo è stata chiusa di notte dai proprietari per impedire l‘uscita dei dipendenti. Al suo interno c’erano le case dei salariati fissi,degli stallieri, bovari, ecc. la casa padronale, le stalle per l’allevamento degli animali, i granai, i fienili, i magazzini,ecc. Perché tante case ed edifici? Per ragioni eminentemente produttive. Nelle aziende in cui sorgevano le cascine l’attività agricola e di allevamento si svolgeva nel corso di tutto l’anno. L’agricoltura irrigua richiedeva una costante manutenzione, soprattutto per la coltivazione del riso e per le foraggere. Del resto anche durante l’inverno occorreva provvedere all’alimentazione del bestiame, che non viveva di pascolo brado, ma si alimentava di foraggio nelle stalle. Quindi, in queste terre, al paesaggio agrario delle grandi aziende di pianura a cereali e pascolo, percorse da canali, punteggiato qua e la dagli specchi d’acqua delle risaie, corrispondeva un insediamento abitativo centralizzato e stabile, quello appunto della cascina che ho appena abbozzato.E si comprende dunque che fra i due ambiti ci fosse un rapporto di funzionalità, di necessità sistematica..

In tutt’altro contesto sorgeva il sistema della mezzadria. Qui il modello abitativo era dato dal singolo podere isolato in mezzo alla campagna. In esso abitava il mezzadro, con la sua famiglia, sulla base di un contratto di durata variabile. Spesso il proprietario che concedeva la casa colonica possedeva più poderi nella stessa zona ed egli li coordinava stando in una dimora più grande, talora una vera e propria villa, la fattoria , che poteva essere l’abitazione permanente o semplicemente estiva. La famiglia mezzadrile doveva stare sulla terra, anche per curare il territorio - prevalentemente collinare - incanalare le acque piovane, impedire le erosioni del suolo, riparare i terrazzamenti, ecc.Ma le coltivazioni di cui doveva occuparsi - da dividere a metà a fine anno col proprietario - erano anche quelle che dovevano garantirgli l’autosufficienza alimentare. Perciò intorno al podere il paesaggio agrario era dominato dalla policoltura contadina: grano, ulivi, viti, alberi da frutto, orto, bosco, pascolo, ecc.Una campagna dunque continuamente bisognosa di lavoro e dunque di presenza umana. E’ questo « il bel paesaggio» delle colline toscane e umbro-marchigiane così spesso descritte e ammirate, diventato ormai l’emblema, un po’ stereotipato, del paesaggio agrario italiano. Anche in questo caso possiamo parlare di sistema agrario, perché possiamo scorgere i legami funzionali che intercorrevano tra le ragioni dell’insediamento, in questo caso il podere, e le logiche e i vincoli della produzione.

Ancora più radicale si presenta il passaggio da queste terre all’habitat del latifondo tipico.Qui il primo dato da sottolineare, per comprendere appieno i caratteri di sistema dell’organizzazione agricola, è l’adattamento delle attività produttive ai caratteri avversi del quadro naturale originario.In queste terre - penso al Tavoliere delle Puglie, alla piana di Metaponto, al “collepiano” di Crotone, a tante zone interne della Sicilia e della Sardegna - l’agricoltura ha dovuto fare i conti per secoli, adattarsi e per così dire subordinarsi alle avversità naturali dei luoghi . In queste campagne prevalevano le terre argillose, adatte ai cereali ma non agli alberi, dominava il clima arido, con un regime pluviometrico irregolare e comunque tendente alla siccità primaverile-estiva. Al tempo stesso in genere erano rari i corsi d’acqua, tutti a regime ovviamente torrentizio. Ma l’elemento di avversità più grave era dato da un dato di ostilità ambientale difficilmente controllabile: la malaria. Questa endemia vecchia di millenni nell’habitat mediterraneo contribuiva a render radi gli abitati, disabitate le campagne. Ebbene, a tali condizioni “storico-naturali” ha corrisposto un sistema agrario a suo modo geniale. Un elemento di tale sistema era costituito dalla pastorizia transumante. D’inverno i pastori trasferivano le loro greggi nelle piane latifondistiche delle “marine”, dove raramente cadeva la neve, era possibile per gli animali brucare erbaggi, e gli uomini erano al riparo dalla malaria. In estate, invece, le greggi fuggivano le pianure aride ed alpeggiavano sulle montagne, dove trovavano pascoli freschi, acque, ombre e rifugio. Questa era ad esempio la pratica, antica, dei pastori abruzzesi che scendevano d’estate in Capitanata o dei mandriani calabresi - spesso alle dipendenze di grandi proprietari terrieri - che si spostavano stagionalmente tra la Sila e le marine del Crotonese. L’agricoltura, alternata ai pascoli, era dominata dalla coltivazione dei cereali. Piante preziose, non solo perché davano il pane, ma anche perché non richiedevano la presenza e la cura costante degli uomini. Non era necessario che ci fossero abitazioni presso le coltivazioni di grano nei latifondi. La presenza, assai numerosa, dei lavoratori si rendeva necessaria solo stagionalmente: in autunno per l’aratura e la semina, e soprattutto per la falciatura e la trebbiattura agli inizi dell’estate. A queste necessità di avere tante braccia da lavoro ma solo per pochi periodi dell’anno il “sistema” latifondo rispondeva con le migrazioni stagionali dei lavoratori insediati nei borghi, che sorgevano sulle alture ai confini dei territori latifondistici. Migrazioni che tuttavia potevano essere anche di più lungo raggio. Dunque, un paesaggio nudo, senza case, senza alberi, con poche masserie sparse su ampi spazi, e coronato da insediamenti accentrati nei paesi, dove viveva la forza lavoro bracciantile e i contadini. Una forma dell’abitare che si attagliava perfettamente ai vincoli dell’habitat e alle forme dominanti dell’attività produttiva.

Volendo soffermerci su questo territorio debbo ricordare che esso, prima della riforma avviata nel 1950, aveva subito pochissime modificazioni. Solo alcune bonifiche condotte negli anni del fascismo lungo la Valle del Neto avevano mutato la fisionomia di alcune aree delimitate. Ma a questo punto occorre ricordare un dato sin’ora rimasto in ombra. Il latifondo era un sistema agrario, ma anche un assetto giuridico della proprietà. In questa terra dominavano i grandi proprietari terrieri. Per dire cose più precise, proprio nella circoscrizione di cui ci occupiamo, quella del cosiddetto “Collepiano di Crotone” al momento della Riforma esisteva la più elevata concentrazione di proprietà fondiaria d’Italia. Qui solo 47 proprietari, su un totale di 10521 possedevano il 51% dell’intera superficie agraria. Famiglie come quelle dei Barracco, Berlingieri, Zito, Lucifero, Zinzi, Susanna, Mottola possedevano terre anche in altre circoscrizioni, sulle colline di Petilia Policastro, in Sila, in provincia di Cosenza, persino in Basilicata.

Non è del resto un caso che la prima legge di riforma fondiaria è la Legge Sila del 12 maggio 1950. Nell’ottobre dello stesso anno venne promulgata la cosiddetta Legge Stralcio, che investì con provvedimenti di esproprio e ripartizione delle terre altre regioni d’Italia: Abruzzi, Molise, Puglia, Sicilia, Sardegna, Lazio,Toscana meridionale, Delta del Po. Il primo risultato importante della riforma, che merita qui di essere ricordato, è l’abolizione giuridica e poi anche sostanziale, del latifondo. I proprietari non potevano possedere più di 300 ettari di terra a testa. Anche se molte famiglie latifondistiche ricorsero a vari trucchi e sotterfugi per mantenere superfici più vaste, il latifondo giuridico ricevette un colpo mortale. Fra il 1950 e il 1960 furono trasferiti in mano dei contadini 417.000 ettari di terra. Le tipologie delle assegnazioni erano due: le quote, che si aggiravano intorno a 1 ettaro o 1 ettaro e mezzo, e i poderi, in genere di almeno 4-5 ettari con annessa la casa colonica.

Quali effetti di trasformazione ebbe la riforma sul paesaggio agrario? Occorre dire subito che a 10 anni dall’avvio delle ripartizioni, nel 1960, ben il 40% delle terre assegnate ai contadini venne abbandonato. Si tratta di una cifra elevata che riguarda soprattutto le quote, ma anche i poderi. Ancora oggi, se girate per le campagne di Cutro qui attorno, così come in altre aree latifondistiche, potete osservare i resti delle case coloniche precocemente abbondonate dai contadini. Qui il mutamento del paesaggio e anche del territorio è stato minimo se non nullo.

E’ cambiata la proprietà, ma non è cambiata l’agricoltura, perché l’habitat restava quello di sempre, avverso alle coltivazioni intensive e agli insediamenti. Solo la dove la redistribuzione delle terre era accompagnata da opere di bonifiche, dalla costruzione di canali, dalla diffusione dell’acqua, il paesaggio è mutato, e così anche il profilo stesso del territorio. Ad esempio, nelle zone lungo il Neto, e comunque dove è stato possibile portare l’acqua, le colture estensive dei cereali hanno ceduto il passo alle colture orticole, agli alberi, ai frutteti. E il mutamento agricolo ha a sua volta indotto la diffusione degli insediamenti, dei tracciati viari, ecc. Qui la riforma ha dunque avuto un relativo successo. Anche se bisogna pur sempre ricordare che essa è stato un episodio storicamente tardivo. La riforma è stata realizzata quando ormai l’agricoltura stava diventando sempre meno importante nell’economia complessiva di un Paese industrializzato come l’Italia.

Per concludere, vorrei sollevare un problema, a mio avviso rilevante, che si pone davanti a noi. Il sistema latifondo, come abbiamo visto, è stato spezzato, così come la concentrazione abnorme della proprietà fondiaria .Tuttavia rimangono ancora, sebbene frammentate, estese e significative aree di paesaggio latifondistico. E’ sufficiente andare in giro attorno al comune di Cutro, Santa Severina, Botricello, ecc, per avere la possibilità di ammirare queste distese di terre nude, lunari, senza un arbusto, un muretto, una linea di confine. Il problema che sollevo è: come ci poniamo di fronte a questi frammenti che sono i resti di una agricoltura millenaria?

Dobbiamo trasformarli in agricolture moderne, investendo in bonifiche, irrigazioni, trasformazioni territoriali? Che senso avrebbe oggi, cioè in una fase storica in cui l’agricoltura italiana, come del resto quella europea, è gravata dalle eccedenze produttive? A qual fine allargare la superficie agricola, in terre difficili, quando la collettività europea paga gli agricoltori perché lascino incolte le loro terre? Si comprende bene, dunque, che la via di una nuova valorizzazione agricola di queste campagne è priva di senso.

Io credo, al contrario, che la migliore scelta per valorizzare queste terre sia di lasciarle così come sono. Esse costituiscono infatti un frammento storico di straordinario valore: gli ultimi relitti del latifondo tipico, di cui si trova l’eguale, in Europa, solo in poche altre regioni, come l’Alentejo portoghese o l’ Andalusia. Un parco paesaggistico del latifondo, ecco la destinazione migliore di queste terre: paesaggio di inquietante nudità e magnifica testimonianza sotto il cielo di millenni di lavoro contadino.

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