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Salvatore Settis
Luci e ombre nella tutela dei beni culturali
10 Giugno 2006
Il paesaggio e noi
La posizione di Settis sul Codice Urbani, equidistante tra “l’ottimismo del ministro” e “il catastrofismo dei suoi critici”, da la Repubblica” del 15 febbraio 2004.

Il nuovo Codice dei beni culturali è troppo importante perché ci si possa accontentare di emettere spicciativi verdetti, sposando in blocco l’ottimismo del ministro o il catastrofismo dei suoi critici. Occorre invece analizzarlo punto per punto, tanto più che la legge delega prevede la possibilità di correggerlo entro due anni. L’analisi deve articolarsi su due domande cruciali: primo, dove innova il Codice rispetto alle norme pre-vigenti? E innova in meglio o in peggio? Secondo: in che cosa il testo finale si distingue dalle sue bozze precedenti? In altri termini: qualsiasi cosa dica il Codice, abbiamo rischiato di peggio?

Mi limiterò qui a due soli aspetti, la disciplina delle alienazioni dei beni culturali e il rapporto Stato-Regioni. Un discorso a parte meriteranno altri due punti, tutela del paesaggio e gestione (pubblica o privata) dei beni culturali. Ma non dimentichiamo che il Codice è nato in un contesto inquinato da due fattori di grande incidenza politica, i conflitti di competenza fra Stato e Regioni innescati dalla riforma del Titolo V della Costituzione e il disegno di massicce dismissioni del demanio culturale perseguito da Tremonti. Rispetto al primo fattore, bisogna chiedersi se il Codice favorisca o attenui il conflitto Stato-Regioni. Quanto al secondo fattore, la domanda è: il Codice dà una mano alle vendite e svendite di Tremonti, o cerca di porvi un freno?

Cominciamo dalle alienazioni. Non è vero che (come si è detto) il patrimonio culturale pubblico diventi alienabile col nuovo Codice. È vero invece che alienazioni sono sempre state possibili, cosa inevitabile dato che ogni edificio pubblico con più di 50 anni di vita è per legge "di interesse culturale". Si è in tal modo accumulato un patrimonio pubblico ingente e ingestibile, con l’identico regime di tutela per palazzi barocchi e cantoniere dismesse. La soluzione, mantenere inalienabile ciò che ha valore culturale distinguendolo da ciò che non ne ha, non è semplice, dato che un palazzo barocco è più appetibile sul mercato di una cantoniera, e Tremonti lo sa bene. Che cosa fa il Codice rispetto alle garanzie del Dpr 283/2000 (nato non per impedire, bensì per «disciplinare le alienazioni di beni immobili del demanio storico e artistico»)? Onde alienare il massimo, bisognava restringere la definizione di bene culturale, da «cose che presentano interesse artistico, storico, archeologico» (come nel Testo Unico) a «cose che presentano interesse.... particolarmente importante». Proprio così fu fatto nelle prime bozze del Codice (in tal modo, il Colosseo non si vende, un palazzo sì). La versione finale ha cancellato le sinistre parole "particolarmente importante": rallegriamocene, ma senza dimenticare il rischio che abbiamo corso.

La definizione di "bene culturale" (art. 10) è dunque rimasta immutata, e le opere di oltre 50 anni sono inalienabili fino a che non sia avvenuta la verifica del loro interesse culturale (art. 12). L’art. 54 ricalca la legislazione precedente, anzi aggiunge musei, archivi e biblioteche alle categorie di beni inalienabili del Dpr 283. Da lamentare è semmai che, rispetto all’art. 822 del Codice Civile, non siano fra i beni inalienabili anche «gli immobili di interesse storico e artistico»: limitazione assai discutibile, già avvenuta col Dpr 283. Rallegriamoci che su questo fronte il Codice innovi ben poco; ma non dimentichiamo che le sue bozze contenevano un articolo (il 53) che consentiva di trasferire alla Patrimonio S.p.A. tutti gli immobili del demanio culturale, compresi quelli di "interesse particolarmente importante". Si è dunque rischiato che la massima legge di tutela sancisse questa disfatta come se niente fosse. È assai positivo che quell’articolo sia stato eliminato dal Codice, anche se esso non ha abrogato la Patrimonio S.p.A. né le varie Scip che stanno già vendendo parte del patrimonio pubblico.

La situazione è paradossale: il Codice contiene buone norme di garanzia, ma esistono leggi di segno opposto, e altre ne arriveranno. Se Urbani rilancia la tutela del patrimonio, Tremonti punta su dismissioni indiscriminate. Le due visioni si sono scontrate al momento del "decretone", che contiene la pessima norma del "silenzio-assenso" (se le Soprintendenze non rispondono entro 120 giorni alla richiesta del Demanio, i beni in questione perdono ogni "interesse culturale" e diventano alienabili). Principio in tutto opposto all’impianto del Codice, e infatti assente in tutte le sue bozze; anzi, Senato e Camera, rilevandone l’incoerenza col Codice, ne hanno raccomandato l’abolizione. Ma a sorpresa è avvenuto il contrario, e ad opera di Tremonti il silenzio-assenso è ingloriosamente risorto nel Consiglio dei Ministri del 16 gennaio, con l’aggiunta di un comma all’art. 12. È vero che (art. 8 del decretone) il silenzio-assenso vale solo in prima applicazione; ma quanto a lungo durerà questa "prima applicazione"? L’art. 12 del Codice è dunque il frutto di un compromesso, a cui si è cercato di rimediare per decreto prevedendo una procedura congiunta Beni Culturali-Demanio: vedremo nei fatti se essa limiterà i danni, o se la mannaia del silenzio-assenso "in prima applicazione" scatenerà la corsa alle dismissioni indiscriminate.

Anche sul rapporto Stato-Regioni, il Codice è un compromesso fra un’impostazione iniziale più centralizzante e le norme devoluzionistiche emerse dalla conferenza Stato-Regioni. Radice del problema è il nuovo Titolo V della Costituzione, che ha introdotto una disfunzionale e infondata distinzione fra tutela e valorizzazione. Tutela, fruizione, valorizzazione sono un continuum che non si può tagliare a fette: ma il Titolo V dà la tutela allo Stato, la valorizzazione alle Regioni, e prospetta confusamente un coordinamento Stato-Regioni sulla tutela. Norme che il Codice non poteva modificare; ma l’esame comparato delle bozze mostra che dopo l’intervento delle Regioni le formulazioni sono peggiorate, creando un dannoso spazio di sovrapposizione fra tutela («esercizio delle funzioni e disciplina delle attività dirette, sulla base di un’adeguata attività conoscitiva, ad individuare i beni costituenti il patrimonio culturale e a garantirne la protezione e la conservazione per fini di pubblica fruizione»: art. 3) e valorizzazione («esercizio delle funzioni e disciplina delle attività dirette a promuovere la conoscenza del patrimonio culturale e ad assicurare le migliori condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica»: art. 6). Definizioni quasi coincidenti, in cui la delimitazione di competenze si gioca su una sottile linea di confine: lo Stato "individua" e la Regione "promuove", lo Stato "garantisce" e la Regione "assicura".

Nulla hanno dunque insegnato i numerosi conflitti di competenza scatenati dal Titolo V. Basti ricordare due sentenze della Corte Costituzionale, entrambe anteriori all’approvazione del Codice. La prima (9/2004), nel bocciare un ricorso della Toscana, riafferma «la competenza statale sulla tutela», in quanto «legata alla peculiarità del patrimonio storico-artistico italiano, da considerarsi nel suo complesso come un tutt’uno, anche a prescindere dal valore del singolo bene isolatamente considerato». Nella stessa direzione va la seconda sentenza (26/2004), anch’essa in piena coerenza con la linea della Corte, ben riassunta dal Presidente Ciampi: per «la stretta connessione tra i due commi dell’articolo 9, sviluppo, ricerca, cultura, patrimonio formano un tutto inscindibile. Anche la tutela, dunque, dev’essere concepita non in senso di passiva protezione, ma in senso attivo, e cioè in funzione della cultura e della fruizione dei cittadini».

Quanto siano pesate le pressioni regionalistiche lo mostra la vicenda dell’art. 4, che fino alla vigilia dell’approvazione andava molto oltre il Titolo V, stabilendo che le funzioni di tutela, «al fine di garantirne l’esercizio unitario», spettano allo Stato, ma possono essere anche «conferite alle regioni»: come possa garantirsi il carattere unitario della tutela in Italia mediante devoluzione a venti regioni diverse, è un vero mistero. Su proposta della Camera, questa possibilità è stata attenuata riconducendola a «forme di intesa e coordinamento»: ma ognun vede che si era inteso forzare il Titolo V, in direzione diametralmente opposta alla Costituzione, nonché alle autorevolissime interpretazioni della Corte Costituzionale e del Capo dello Stato; e qualche traccia ne è rimasta.

Un ultimo punto: il Codice non affronta (né poteva farlo) un problema essenziale, la drammatica carenza di personale nelle nostre Soprintendenze. Decenni di inerzia (non si salva proprio nessun ministro) hanno provocato una drastica contrazione degli organici, oggi l’età media è sui 50-55 anni, e le nuove assunzioni sono inferiori a un decimo dei pensionamenti. Il ruolo dello Stato (rispetto a regioni e privati) è dunque in ritirata, qualsiasi cosa faccia il Codice per salvaguardarne la sostanza; anche la richiesta di veloci pareri sotto la minaccia del silenzio-assenso suona come una beffa. La Finanziaria 2004, nel ribadire il blocco delle assunzioni, ha previsto espressamente una deroga per gli addetti alla tutela dei beni culturali (art. 55 c. 2). Certo, un successo del ministro Urbani: ma esso sarà pieno solo se e quando avranno luogo nuove assunzioni, con concorsi seri e non quiz farseschi. È un segnale importante che tutti ci attendiamo.

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