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Enzo Scandurra
Alcune riflessioni sul “modello romano”
1 Giugno 2006
Roma
Una riflessione su Roma, per aprire sulla città un dibattito utile per i prossimi cinque anni: forse c’è qualcosa da cambiare. Con una postilla

Il processo di miglioramento delle condizioni di vivibilità della città di Roma fu, in primis, avviato dal Sindaco Petroselli (1979-81) che, primo tra tutti i precedenti sindaci, iniziò ad affrontare il tema delle periferie e proseguì con l’invenzione dell’Estate Romana voluta da Renato Nicolini. Processo, questo, ripreso e sviluppato dalle successive amministrazioni Rutelli e poi Veltroni. Una città fino ad allora provinciale legata all’immagine (voluta dalla DC) di capitale religiosa, oggetto di saccheggio edilizio e di dominio incontrastato della rendita fondiaria (vero ed unico motore dell’espansione della capitale fino ad allora), iniziò a diventare una metropoli moderna basata sullo sviluppo industriale e sul decentramento dei poteri. Pochi forse ricorderanno che prima dell’esperienza dell’estate romana la città era, di notte, un deserto sociale, inospitale e perfino pericoloso. Le due amministrazioni menzionate hanno avuto entrambi due grandi meriti che di seguito tenterò di illustrare e che oggi è necessario sottoporre al vaglio di una riflessione critica se si vuole procedere nella direzione della costruzione di una autentica modernità.

Il primo merito è quello di aver avviato la trasformazione di questa “vecchia città di provincia” in una metropoli moderna. Le scelte, le decisioni che hanno portato a questo sono note: iniziative culturali di livello internazionale, progetti e rifacimenti di strade e piazze di un centro storico fino ad allora troppo monumentale e museizzato (ma scarsamente accessibile ai più), tentativo di inclusione nella vita della città delle grandi periferie fino ad allora relegate a rango di dormitorio urbano, rottura della storica alleanza tra amministrazione e poteri legati alla rendita, autonomia dei rapporti con la Città del Vaticano. La successiva nascita dei Municipi ha conferito alle periferie la dignità di “città nella città” avviando esperienze anche significative di partecipazione diretta degli abitanti alle scelte urbanistiche e dell’abitare. Ci sono stati anche momenti di aspre critiche e di opposizione come, ad esempio, quelle alla celebrazione, a Roma, delle Olimpiadi, poi del Giubileo, sul sottopasso a Castel S. Angelo e, più di recente, quella legata alla prima ipotesi di Piano Regolatore sotto l’amministrazione Rutelli.

Il secondo merito è stato quello di aver tentato di sottrarre, soprattutto attraverso la redazione del Piano Regolatore, lo sviluppo edilizio dalle mani di poche famiglie di costruttori e di aver tentato di guidarne gli esiti (non senza qualche vistosa contraddizione) verso la realizzazione di spazi pubblici da restituire alla città e ai suoi abitanti. A questi due meriti va aggiunto quello della buona amministrazione e del buon governo. Cose queste, non da poco considerato che questa città era diventata famosa (come documenta Italo Insolera nei suoi libri sulla storia di Roma moderna) come “Capitale infetta” o “Roma ladrona”, comunque città del saccheggio edilizio e della rendita fondiaria; in una parola, la città degli immobiliaristi e dei palazzinari che, in tempi non troppo remoti, riuscivano a condizionare pesantemente le scelte e le decisioni delle amministrazioni elette.

Queste, seppure descritte in maniera forfettaria, le premesse alla base della nascita oggi di quel laboratorio ed esperimento politico-urbano cui è stato dato il nome di “modello romano”. Di questo si parla da tempo e da più parti come esempio di un’esperienza, e di una pratica politica la cui validità autorizzerebbe a esportarne e a diffonderne l’esperienza all’intero Paese. Forse è d’obbligo fare qualche riflessione anche perché il “modello romano”, per bocca dei suoi stessi sostenitori, si presta a differenti interpretazioni e contraddizioni.

La città moderna (che meglio sarebbe chiamare “contemporanea”) è al tempo stesso, per usare le espressioni di Marc Augé, città-mondo e mondo-città. Città mondo perché in essa si ritrovano tutte le contraddizioni sociali e i conflitti che attraversano il pianeta, primi fra gli altri, quelli connessi all’esclusione, alla povertà, all’ineguaglianza. Mondo-città perché l’intero pianeta tende ad essere progressivamente urbanizzato e già oggi quello urbano costituisce l’unico modello di vita. Tornando alla prima immagine (la città-mondo), la città contemporanea produce conflitti aspri e tutt’altro che facili da affrontare: immigrazioni, confronti etnici, esclusione, disoccupazione, marginalizzazione, paura, insicurezza, clandestinità, povertà. Affrontare questi temi significa affrontare la questione del futuro della città moderna e forse dell’intera comunità vivente. Deve essere essa città dell’accoglienza, dell’incontro, dell’essere-insieme-tra diversi (in-between), di una nuova civiltà multietnica e meticciata, luogo della convivenza pacifica, o…cosa? Non è una domanda scontata. Per esempio alcuni ritengono che anche le nostre città sono in competizione tra loro e che per sopravvivere occorre inseguire il treno del modernismo dilagante e i miti e riti del liberismo (marketing urbano, restyling, ecc.). Le città, insomma, sono in questa visione equiparate a vere e proprie merci da esporre nella vetrina-mondo.

Rispetto a queste visioni alternative occorrerebbe riflettere sulle azioni da intraprendere.

Inseguire la politica dei grandi eventi rischia, quando essa diventa “ossessiva”, di oscurare i conflitti latenti e di trasformare i cittadini in sudditi gaudenti che si muovono da una parte all’altra della città consumando quegli stessi eventi proprio come si consuma una pizza o una cena in un ristorante di Trastevere. Penso che le istituzioni e le amministrazioni urbane non dovrebbero limitarsi al solo buon governo (intendiamoci, obiettivo tutt’altro che trascurabile!); esse dovrebbero avere un ruolo attivo di agenti che responsabilizzano i cittadini; possedere, insomma, un’anima e una volontà educante. La governance (brutta parola) è proprio quella capacità di regolare le relazioni sociali producendo senso attraverso la progressiva estensione dello spazio pubblico. La partecipazione non è assemblearismo né un processo inconcludente né pura tecnica di costruzione del consenso o eliminazione del conflitto e neppure un’azione una tantum. Essa dovrebbe essere uno stile di governo, un metodo attraverso il quale correggere errori e produrre senso.

E’ stato vantato che la città di Roma produce un Pil in crescita assai più di quello nazionale. Ebbene forse bisognerebbe educare i cittadini anche a un’idea diversa di ricchezza che abbia a che vedere con l’incremento dei beni comuni, con l’uguaglianza, con la solidarietà, con la reciprocità. Se il successo di una città viene identificato esclusivamente con il suo Pil, allora continueremo a restare inchiodati all’ossessione della ragioneria contabile e a quella della compatibilità finanziaria.

Il plebiscitarismo e il cesarismo sono forme anomale e degenerative della moderne democrazie. Esse deresponsabilizzano i cittadini e ostacolano la costruzione di una cittadinanza attiva. Quest’ultima dovrebbe esercitare un ruolo di vigilanza continua dei partiti prospettando loro il rischio di ritiro della delega qualora i rappresentanti eletti smarrissero per strada le promesse fatte ai loro rappresentati. La cittadinanza attiva, a nostro avviso, non deve fare competizione ai partiti tradizionali né tanto meno proporsi di sostituirli. Sarebbe un errore grave, un cortocircuito del difficile rapporto, sempre instabile, tra rappresentanti e rappresentati. Non c’è bisogno di nuovi partiti, c’è invece bisogno di una cittadinanza vigile che sappia tenerli sulla corda e mantenga alto il livello del confronto e anche del conflitto (il conflitto è sempre salutare alla democrazia e non va confuso con l’aggressione o la ricerca di supremazia). L’eccesso di ecumenismo può essere anch’esso un filtro oscuratore della sofferenza di coloro che non hanno ascolto e voce per difendere i propri diritti, ma che non appartengono al popolo-che-partecipa. C’è sempre da tener presente il lato oscuro e contraddittorio della partecipazione, quello secondo il quale per ognuno che accede ai luoghi delle discussioni e delle scelte qualcun altro rimane escluso.

Sulla seconda questione che ha visto impegnata l’amministrazione Veltroni, ovvero quella del Piano Regolatore, non mi trattengo sia per ragioni di spazio, sia perché mi sembra una questione ancora aperta i cui esiti sono anche in parte legati alle iniziative locali dei Municipi che potrebbero mitigare e orientare le scelte capitoline attraverso un maggior coinvolgimento delle comunità locali.

In conclusione, prima di pensare ad esportare l’esperienza romana occorre aprire un dibattito che abbia un grande respiro.

Il meccanismo di partecipazione ampia che va (come ha osservato Sara Menafra, Il Manifesto del 25.06, p.3) da Mastella a Nunzio D’Erme non garantisce tout court, di per sé, che questo esperimento produca esiti necessariamente positivi per i motivi che sopra accennavo. L’eliminazione dei conflitti, il trasversalismo e il relativismo politico, visione secondo la quale ogni opinione vale quanto qualsiasi altra, in base a una distorta interpretazione della libertà di giudizio, sterilizza le passioni anziché costituire uno stimolo alla vigilanza e al confronto continuo. Può, insomma, addormentare le coscienze anziché renderle vigili. Resta, a mio avviso, invece aperta la questione di quale debba e come debba realizzarsi una convivenza tra diversi che apra la prospettiva di costruzione di una autentica modernità.

Postilla

Condivido gran parte dell’analisi di Enzo Scandurra, e la sua proposta: il suo invito a riflettere criticamente sul “modello romano” prima di imitarlo. Vorrei riprendere un punto del suo ragionamento e, a partire da questo, sottolineare una carenza del suo intervento: rilevare, e tentar di riempire, un silenzio che non comprendo.

Scandurra osserva, giustamente, che è un errore assumere il PIL come la misura del successo, e sostiene la necessità di “educare i cittadini anche a un’idea diversa di ricchezza che abbia a che vedere con l’incremento dei beni comuni, con l’uguaglianza, con la solidarietà, con la reciprocità”.

D’accordo, pienamente d’accordo. Ma vorrei osservare che il PIL di Roma è gonfio, rispetto a quello di altre regioni, anche perché esso è carico di due voci attive nella bilancia ragionieristica dell’economia data, che invece, nella bilancia degli interessi generali e dei “beni comuni”, rappresentano dei passivi. Due passivi sociali, culturali, ambientali e anche economici, già oggi pesantissimo l’uno, già minaccioso l’altro: mi riferisco alla quota del PIL derivante dal settore immobiliare e quella relativa al turismo. Di quest’ultimo bisognerebbe cominciare a preoccuparsi per “governarlo”, prima che sia troppo tardi: e una politica che si affidi alla sua generica espansione, come mi sembra quella auspicata da Veltroni, non sembra promettere se non nuvoloni di disagio e degrado. Ma a me interessa soprattutto l’altro passivo: quello rappresentato dal forte premio dato dal Comune alla valorizzazione delle proprietà immobiliari, e in particolare fondiarie, con il nuovo PRG.

Senza forzare troppo le cose si può dire che, nel PRG, il motore è la rendita immobiliare. Altrimenti non si spiegherebbe perché ulteriori 15mila ettari saranno sottratti all’Agro romano; perchè in tanti quartieri si documentano scambi simoniaci tra dotazioni pubbliche, cui si è rinunciato, e incrementi di cubature edificabili, con cui si è gratificata la proprietà immobiliare; perché si sia accreditata la tesi, perversa e menzognera, che il piano regolatore attribuisca “diritti edificatori” che devono comunque essere riconosciuti.

Se vogliamo discutere seriamente il “modello romano”, il PRG non possiamo proprio trascurarlo, caro Scandurra. E dobbiamo domandarci se siano effettivamente tramontati i tempi in cui il “dominio incontrastato della rendita fondiaria” era il “vero ed unico motore dell’espansione della capitale”, o se non prosegu, in forme certamente più colte di quelle praticate trent’anni fa, e più accattivanti (come testimonia il fatto che le critiche al PRG sono rientrate nel momento decisivo)

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