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Eugenio Scalfari
E' l'ora di scrivere la parola fine
9 Aprile 2006
Articoli del 2006-2007
L'ultimo appello, con l'analisi di sempre. In cauda venenum, speriamo eccessivo. Da La Repubblica, 9 aprile 2006 (m.p.g.)

Oggi e domani mattina metteremo le nostre schede nelle urne elettorali. Domani sera conosceremo i risultati. Ciascuno si metta la mano sulla coscienza e faccia le sue scelte.

Inutile e forse sciocco invocare soltanto la ragione, perché si sceglie anche d'istinto, per simpatie e antipatie, per antiche appartenenze giuste o sbagliate che siano, per interessi, per valori partecipati o per slogan mal digeriti.

Questo giornale non ha bisogno di dichiarare le sue preferenze poiché le scelse nel momento stesso in cui nacque trent'anni fa e da allora non le ha mai cambiate.

Siamo stati e siamo per l'eguaglianza nella libertà, per il mercato che dia a tutti pari punti di partenza, per il sostegno dei deboli e l'inclusione degli esclusi, per l'innovazione, per la crescita, per l'Europa, per lo stato di diritto. Insomma per la democrazia nelle forme e nella sostanza.

Questi sono gli ideali positivi per i quali ci siamo battuti. Quelli negativi sono il loro esatto contrario: l'autoritarismo, il populismo, la demagogia, l'egoismo, l'interesse proprio contrapposto a quello comune, l'autarchia e il protezionismo economico, la menzogna politica, la corruzione, l'insicurezza, la pigrizia intellettuale, il conformismo.

Non sono parole vuote. Ad ognuna di essa corrisponde una visione del bene comune e del paese che vorremmo.

Corrisponde una cultura, un assetto politico, una squadra di governo, un tipo di legislazione. La soluzione di problemi antichi troppo a lungo rimasti inevasi e di malanni e storture più recenti che hanno deturpato la nostra democrazia ancora fragile e incerta.

Mi auguro che domani sera un primo nodo sarà stato sciolto. Se così avverrà, agli altri si potrà pensare con più serena e pacata attenzione e con il concorso di tutte le persone di buona volontà. Se la nottata sarà passata.

****

Non è retorica dire che il mondo ci guarda: l'Italia non è una sperduta nazione, un segmento irrilevante della comunità internazionale senza storia e senza memoria. Ha dato un contributo di grandissimo rilievo alla cultura antica e a quella moderna. Ha fornito modelli di comportamento nel costume, nella politica, nell'economia, nel diritto, nella scienza.

E' stata ed è una grande nazione, ma da molti secoli le è mancata l'esperienza e la cultura dello Stato. Troppo a lungo siamo stati colonia di questa o quella potenza estera, funzionali a interessi sovrastanti, pedine di giochi altrui. I centri del vero potere erano fuori dal nostro controllo. L'egemonia politica economica militare era altrove. Non c'erano diritti ma favori, non cittadini ma sudditi, non forze politiche radicate e autonome ma consorterie, clientele, oligarchie tributarie di lontane sovranità. Perciò lo Stato è stato vissuto come un potere estraneo e potenzialmente ostile, comunque sospettabile.

Questa situazione si è protratta anche quando lo Stato è finalmente nato anche da noi. La nostra lunga storia "coloniale" aveva infatti creato un retaggio di individualismo anarcoide che i centocinquant'anni di storia unitaria e i più recenti sessant'anni di storia repubblicana non sono riusciti a dissipare completamente.

Tracce visibili di quella vocazione anarchica restano tuttora e si rivitalizzano tutte le volte che l'insicurezza etica e sociale evoca la presenza di personaggi che dell'individualismo politico fanno un valore, della demagogia uno strumento possente e della politica un mercato di scambio per gli interessi delle "lobbies" nel quale tutto si può vendere e comprare. In fondo al tunnel la deriva plebiscitaria.

Quante volte ci capita di ascoltare la frase "io di politica non mi occupo" detta come la manifestazione virtuosa di un rifiuto del male. La politica come sentina delle nequizie anziché come luogo dove si amministrano gli interessi e il destino della città, della "polis".

I paesi che hanno dato forma alla nazione attraverso la presenza dello Stato danno i loro figli alle istituzioni che dello Stato costituiscono la nervatura, alle scuole dalle quali esce la classe dirigente del Paese. Ma qui da noi questa vocazione non c'è mai stata, questa selezione è inesistente. In politica, ma non soltanto. Il capitalismo italiano è altrettanto debole. La pubblica amministrazione non è motivata ed è priva di spirito di corpo. Di analoghe debolezze soffrono tutti i corpi intermedi, i poteri e le classi dirigenti locali.

Ecco dove dovrà fare le sue prove il riformismo forte evocato da Romano Prodi se il voto di oggi e di domani riuscirà a sgombrare il campo dall'anomalia berlusconiana.

I mali che abbiamo qui elencato sono antichi, appartengono alla nostra storia nazionale e Silvio Berlusconi non ne è certo la causa, così come non fu lo al suo tempo Benito Mussolini. Essi anzi, personaggi dissimili tra loro ma non privi di affinità profonde e analogie sorprendenti, sono stati il prodotto di quei mali. Ma li hanno cavalcati, risvegliati, attualizzati laddove bisognava invece e bisognerà curarli con somma attenzione affinché le istituzioni pubbliche e il concetto stesso della "res publica" si radichino nella coscienza civile degli italiani.

Da questo punto di vista la Costituzione repubblicana è uno dei pochi punti di riferimento che l'Italia abbia avuto nel sessantennio repubblicano e alcune figure istituzionali che da essa hanno tratto vigore e alla difesa dei suoi valori hanno dedicato la loro opera meritano riconoscenza e ricordo.

* * *

Uso ancora con trepida incertezza la particella dubitativa "se".

L'evidenza della situazione in cui il paese è stato portato dalla pessima squadra che l'ha guidato negli ultimi cinque anni farebbe infatti supporre che in favore del cambiamento si conti domani una valanga di voti. Temo invece che l'auspicata vittoria sia risicata, tanta è stata la violenza emotiva con la quale l'anomalia berlusconiana ha risvegliato gli antichi malanni e vizi nazionali.

E comunque: se quella anomalia sarà rimossa dal voto bisognerà seguire con la massima attenzione lo svolgersi dei fatti fino all'insediamento del nuovo governo nato dalle urne. Ci vorranno infatti non meno di quaranta giorni prima che l'inquilino di Palazzo Chigi e i suoi ministri sgombrino le stanze del governo dalla loro presenza.

Quaranta giorni sono brevi per persone normali, chiamate soltanto a gestire l'ordinaria amministrazione in attesa che il nuovo Parlamento sia insediato, elegga il nuovo Capo dello Stato e questi a sua volta nomini il nuovo presidente del Consiglio e i ministri seguendo le indicazioni del voto popolare. Nel frattempo si svolgeranno alcune importanti elezioni comunali, l'elezione regionale in Sicilia e infine il referendum istituzionale sulla legge cosiddetta della "devolution".

Spero con tutto il cuore di ingannarmi, ma non sono tranquillo pensando a quei quaranta giorni durante i quali la squadra berlusconiana sarà senza più potere ma occuperà ancora le stanze e le manopole del governo. Mi auguro che, almeno alla fine della loro avventura, prevalga il senso dello Stato. Ove mai il loro leader covasse la folle idea d'un gran finale sulla falsa riga del "Caimano", mi auguro che i suoi corrivi compagni di strada glielo impediscano.

Sarebbe almeno un merito, tardivo ma importante, per aprire una pagina nuova e pulita e per ricominciare.

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