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Roberto Petrini
Quella domanda a Sraffa
9 Dicembre 2005
Altre persone
Un ricordo e un profilo di Paolo Sylos Labini, che non c’è più. Da la Repubblica dell'8 dicembre 2005

Sul finire degli Anni Quaranta era già ad Harvard per studiare con Joseph Schumpeter, uno dei pilastri della storia del pensiero economico. In America viveva nello stesso cottage di Gaetano Salvemini, che lì insegnava storia: dal vecchio maestro – raccontò – ho imparato che la chiarezza nello scrivere e nel parlare è lo specchio dell’integrità morale. Conobbe Franco Modigliani, futuro premio Nobel emigrato negli Usa per le leggi razziali: con lui strinse un sodalizio che, come quello con Giorgio Fuà, sarebbe continuato per sempre. Nel 1960, appena quarantenne, frequentò Piero Sraffa, economista amico di Gramsci e Keynes: «Ma quando esce questo libro? Sono anni e anni che lo aspettiamo», gli chiese con un po’ di faccia tosta ma con grande pertinenza. Singolarmente quelle 99 pagine che cambiarono il corso della teoria economica, Produzione di merci a mezzo di merci, di lì a poco – dopo una meditazione trentennale – furono stampate.

Incardinato nella storia del pensiero economico del Novecento Paolo Sylos Labini ne è stato un grande protagonista. Il più cosmopolita degli italiani, in grado di guardare con eguale interesse ed impegno alle meraviglie dell’innovazione d’Oltreoceano e all’orrore della miseria del Terzo mondo. Ed è proprio questa la cifra del suo pensiero e della sua instancabile ricerca: progresso tecnico e sviluppo economico.

Da giovane voleva fare l’ingegnere perché era attratto dalle tecnologie e dalle invenzioni: erano tempi difficili e dovette rinunciare; ripiegò su giurisprudenza, ma la sua tesi di laurea fu già una scelta di campo ben precisa: si intitolava Gli effetti economici delle invenzioni sull’organizzazione industriale. Nel 1956 la sua "opera prima", che John Kenneth Galbraith volle far tradurre negli Usa: Oligopolio e progresso tecnico.

Questa sua passione per l’innovazione tecnologica lo fece considerare un "eretico". «Forse tra cinquant’anni quando sarò appollaiato su una nuvoletta, mi daranno ragione, per ora vengo ritenuto un anomalo, un eterodosso», osservava con divertito rammarico Sylos Labini. Per molti, invece, avrebbe meritato il Nobel.

Paradossalmente, infatti, nell’era segnata dal protagonismo della scienza, dall’informatica alla biotecnologia, la teoria che oggi domina in economia, cioè il "paradigma neoclassico" – da Paul Samuelson, che ha inondato le università di mezzo mondo con tre milioni di copie del suo manuale, a Solow a Robertson – trascura il progresso tecnico. Non considera che le innovazioni entrano inevitabilmente e progressivamente nella vita delle imprese e riducono i costi. Non è un aspetto marginale perché, se non si punta sulla ricerca e sulle nuove tecnologie, l’unica strada per ridurre i costi resta quella di tagliare i salari o licenziare.

Invece per Sylos Labini le innovazioni contano. Eccome! Anzi il «"cuore" dell’economia», «l’Amleto», «il principale personaggio del dramma» è la produttività del lavoro che delle innovazioni è il risultato. Se si guardano le cose da questo punto di vista la prospettiva muta radicalmente, l’economia cessa di essere un esercizio astratto e si manifesta in un concreto umanesimo. Così la produttività diventa la radice della politica dei redditi che, sul finire degli Anni Sessanta, l’economista scomparso illustrò nel celebre Salari, inflazione, produttività, scritto come sempre per Laterza. La tesi è che i salari devono aumentare proporzionalmente alla produttività, con l’effetto di far crescere la domanda e di contenere il costo del lavoro. Il che, notava Sylos Labini, conviene a imprenditori ed operai.

Lo avevano ben capito gli economisti classici, che vissero tra la fine del Settecento e l’Ottocento, agli albori della rivoluzione industriale. Lo aveva capito soprattutto Adam Smith («Lo considero un mio amico», indugiava Sylos Labini) ma ne era consapevole anche David Ricardo. Sulla base delle analisi dei classici, in una sorta di nuova sintesi, Sylos Labini aveva costruito la propria equazione della produttività, basata su divisione del lavoro e nuove macchine. Con i piedi nel passato e lo sguardo rivolto al futuro.

Per andare dove? L’obiettivo è lo stesso per cui Smith aveva scritto la Ricchezza delle nazioni: sradicare la miseria e accrescere lo sviluppo civile. Qui il messaggio si fa nitido ai più ed emerge il punto di contatto con gli illuministi milanesi e la loro percezione dell’economia come "incivilimento", e poi con Carlo Cattaneo. Un itinerario che incrocia l’insegnamento di Ernesto Rossi e sul quale Paolo Sylos Labini ha sviluppato la sua testimonianza etica e scientifica.

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