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Carlo Melograni
Modernità versus Modernizzazione
11 Dicembre 2005
Articoli del 2004
Un maestro dell’architettura, in polemica con l’ideologia e le pratiche delle modernizzazioni alla moda (vedi i grattacieli milanesi), individua le vere sfide dell’architettura di oggi, ricordando, con Michelucci, che "essere architetto vuol dire pensare la città come fine di ogni atto progettuale". Un inedito del giugno 2004

Mi sembra sempre più evidente che nei tempi prossimi il nodo delle questioni legate alle prospettive della cultura architettonica non si troverà nel confronto tra le eredità della tradizione e le aspettative del futuro. (Un tema al quale in anni scorsi è stata prestata un'attenzione a volte eccessiva). Ci sarà piuttosto un duro contrasto tra due modi di affrontare l'avvenire: tra vera e falsa modernità. Modernità versus rnodernizzazione. Proponendo di definire l'una e l'altra con questi termini Mi rendo conto che certo non sono i più adatti per differenziarle senza equivoci. Ho chiesto aiuto per trovarne una migliore definizione. Dubito però che l'alternativa moderno/contemporaneo porti a fare maggiore chiarezza al di fuori di una cerchia limitata o un numero ristretto di addetti ai lavori. Forse si potrebbe distinguere architettura per la democrazia e architettura per il mercato.

Non sono affatto in pochi, tecnici e politici, a presumere che per conquistare un progresso basti applicare novità tecnologiche o realizzare infrastrutture senza curarsi di programmarle in un piano che superi l'ambito settoriale. I danni che facilmente ne derivano si considerano prezzo inevitabile da pagare se non si vuole cadere nell'immobilismo. In genere gli architetti la pensano spesso diversamente, però con argomenti che, lo si voglia o no, finiscono per offrire un sostanzioso sostegno a quel rozzo modo di procedere. A partire dal maggior numero dei progettisti più in vista, si diffonde dilagando il pregiudizio che la complessità e la velocità delle trasformazioni urtane siano diventate tali da rendere impossibile regolarle E da tempo, non solo nel nostro campo, viene largamente condivisa la sfiducia in quale che sia idea di progresso. Non ci sarebbe altro da fare se non interventi episodici, appariscenti o addirittura spettacolari molto più che contrassegnati dall'utìlità.

Così é la modernizzazione, agguerrita e aggressiva in misura non paragonabile con le assai meno virulente nostalgie revivalistiche dei protopostmoderni, ora sulla via del tramonto. L'una e le altre, all'offensiva o di rincalzo, non smettono d'attaccare su due fronti l'architettura moderna, anche dopo averne ripetutamente annunciato la fine. È noto che Charles Jencks non ebbe dubbi nel certificarne la morte a St.Louis, Missouri, alle 3.32 pomeridiane del 15 luglio 1972, quando si attuò la prevista decisione di demolire, facendolo saltare in aria, un complesso di abitazioni a basso costo progettato da Minoru Yamasaki. Adesso catastroficamente Paolo Desideri ( La Repubblica, 9/1/2004) nel crollo delle Twin Towers - altra opera di Yamasaki, inseguito dal malaugurio - vede "collassare disperatamente e definitivamente la stagione della modernità, portando per la prima volta agli occhi di tutti la sua indecente fragilità, la sua complessiva insostenibilità. Una sorta di drammatica e plateale epifania della pericolosità e della inaffidabilità della tecnologia modernista e delle certezze granitiche sulle quali la cultura moderna, con un troppo scontato positivismo, aveva costruito la sua architettura fisica, sociale, descrizione anche economica". Ma dalle sua stessa descrizione è lecito arguire che questa volta si sia trattato d'una caduta della modernizzazione piuttosto che dell'estinzione della modernità.

In realtà la ricerca paziente dell'autentica architettura moderna non s'interrompe. Procede provando e riprovando, ora con slancio ora con lentezza, tra difficoltà che non vengono nascoste, con la coscienza di svolgersi in un'età di incertezze. Però mantiene fermo l'impegno di portare il suo contributo per raggiungere migliori condizioni di vita e perché ogni progetto concorra alla costruzione di una città rinnovata. Solo qualcuno in qualche momento può vanamente essersi illuso di far leva sull'architettura e mettere così in moto un rivolgimento nella società. Ma l’assiduo lavoro di coloro quali invece sono stati consapevoli dei limiti dei loro interventi e hanno agito affinché l'architettura rispondesse alle richieste progressive della società, presenta un bilancio apertamente ìn attivo. Basta vedere case attrezzature per servizi d'ogni genere com'erano un secolo fa e come sono oggi. Certo il risultato dipende da molteplici fattori, ma è altrettanto certo che per questo le esperienze dell'architettura funzionale hanno avuto un ruolo tutt'altro che secondario.

Un punto di partenza di queste esperienze é stato seguire un metodo e criteri unitari per progettare oggetti d'uso, edifici, :sistemazioni urbane, dando per scontato che ai tre livelli, a causa delle differenze delle condizioni e delle resistenze che s'incontravano, le ricerche sarebbero andate avanti con tre velocità. Oggi il rinnova mento della produzione utilitaria di mobili e suppellettili può dirsi compiuto e, per lo meno in paesi dell'Europa centrale e settentrionale, la qualità diffusa nell'edilizia è notevolissima. Invece per la progettazione urbanistica lo scarto tra elaborazione culturale e problemi con i quali misurarsi è ancora considerevole; forse si è addirittura allargato. Non dipende soltanto dai tempi prevedibilmente più lunghi della ricerca in questo campo. Mentre stava uscendo dalla fase di rodaggio, i dati delle questioni da affrontare sono rapidamente cambiati e ingigantiti. A guerra finita, ci si è trovati a dover riparare distruzioni quante l'Europa, nella sua storia millenaria, non aveva mai visto. Poi sono sopravvenuti trasferimenti di popolazione dalle campagne nelle città, motorizzazione di massa, sviluppo delle attività terziarie, correnti migratorie da paesi lontani, problemi di tutela ambientale e di risparmio energetico, diffusione di nuovi strumenti per comunicare, globalizzazione.

Sono ostacoli che potrebbero indurre a gettare la spugna, giudicando che le trasformazioni dei luoghi che abitiamo non siano più regolabili se non entro ambiti circoscritti, caso per caso. Atteggiamento rinunciatario che é quasi inevitabile porti a subire e assecondare la reazione politica neoconservatrice. Martin Pawley ha scritto esplicitamente: "Il postmoderno è l'architettura di Friedman e della Thatcher come indiscutibilmente il modernismo era l'architettura di Keynes e di Attlee". Sarebbe facile estendere l'illazione ai giorni e ai fatti nostri. E se l'assenza del progetto è tipica di società arretrate, anche per noi la riluttanza a farne uso coerente e costante nel quadro di programmi più vasti é interpretabile come segno di debolezza e di declino. Sarebbe una conferma di quanto autorevolmente ha detto di recente Guido Rossi: " Siamo un paese che non cerca la modernità, ma annusa in fretta l'ultima moda, confondendo l'una con l'altra".

Viceversa difficoltà, complicazioni e imprevisti con cui ha dovuto fare i conti la cultura urbanistica possono dare spiegazioni oggettive dei suoi ritardi, sollecitando a non mollare, a tenere ancora fermo quanto Giovanni Michelucci affermò in un libro-intervista: "Essere architetto vuol dire pensare la città come fine di ogni atto progettuale". Sono tanti, per scarsezza di mezzi, a non essere in grado di provvedere da soli a soddisfare esigenze anche elementari e hanno bisogno di una città che sia organizzata in modo da funzionare bene. Questi, prima di altri, sono i destinatari di ogni progetto che, improntato ad autentica modernità, allo scopo di liberare da condizioni sfavorevoli e ridurre disuguaglianze, tenda a mettere ordine nell'assetto urbano. `Massimiliano Fuksas intitola un suo libro Caos sublime; ma Paolo Sica, valoroso urbanista laureato a Firenze con Quaroni, recensendo Progetto e destino di Argan, scrisse che "per l'architettura assumere il caos ad evento-modello significherebbe autodistruggersi".

Tra coloro che hanno seguito gli insegnamenti di Ludovico Quaroni si riconosce bene la differenza tra quelli che lo hanno avuto docente di urbanistica oppure invece di progettazione architettonica. Ai primi egli ha trasmesso l'attrazione verso il modo di costruire la città medievale. L'ammirazione per il sistema di organizzarla, fondato su regole precise ma flessibilmente adattabile, con un tessuto edilizio formato attenendosi con varianti alla ripetizione d'un tipo non complicato, tuttavia già al suo interno capace di contenere più d'una funzione; la residenza, il commercio, l'attività produttiva artigianale. (Un tipo analogo si sarebbe ritrovato lungo i canali seicenteschi della borghese Amsterdam, non a caso così diversa dalle città sue contemporanee dominate da un'autorità). Nei panorami urbani medievali i monumenti risaltavano come espressioni non solo di potere ma anche, forse più, di aspirazioni collettive della comunità. Strade e piazze componevano una rete di tracciati gerarchicamente differenziati, non un disegno di scacchiera o altra figura geometrica, mentre una serie articolata di passaggi conduceva per gradi dallo spazio pubblico aperto a tutti fino a quello riservato alla vita intima delle persone.

Una bella sfida provarsi a restituire qualità non dissimili alla città moderna. Con tutt'altri modi, tutt'altre forme, tutt'altri strumenti. Lo sviluppo dell'industria li ha rivoluzionati. Ha però portato a elaborare un metodo progettuale dal quale gli architetti hanno da imparare e ha messo a disposizione una quantità di prodotti neppure paragonabile a quella del passato. Forse proprio da qui - dall'ideare a tutte le scale elementi componibili per associarli nelle più svariate combinazioni - può trovarsi una chiave che renda compatibili unità e diversità, standardizzazione e ricerca d'identità, ordine e mutamento incessante. Un'ipotesí di lavoro che vale la pena di sperimentare.

vedi anche la lettera di Fabrizio Bottini

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